Thomas Huber al Trento Film Festival: tra famiglia, musica e l'importanza di tornare a casa

Intervista all’alpinista tedesco Thomas Huber, il fratello maggiore di Alexander Huber, durante il Trento Film Festival 2023. Di Monica Malfatti.
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L'alpinista tedesco Thomas Huber
Thomas Huber

Thomas e Alexander. Ma anche Alessio e Attilio, Miroslav e Michal, Günther e Reinhold. Nella storia dell'alpinismo, i "fratelli di cordata" sono un fenomeno nient'affatto raro: gli Huber, gli Ottilier, i Coubal e i Messner, prima che compagni, sono stati – e lo sono ancora – una famiglia. Con tutte le implicazioni che la condivisione familiare della montagna può riservare: invidie, certo, ma anche una simbiosi altrimenti difficile da replicare in una semplice cordata di amici.

Nel giorno in cui la serata evento del 71. Trento Film Festival era appunto dedicata alla condivisione di alpinismo e avventura fra genitori e figli, Thomas Huber non ha soltanto presentato il suo ultimo libro ("In montagna sono libero. La mia vita selvaggia", edito in Italia da Corbaccio e in libreria dal 5 maggio), ma è stato scortato, nella sua permanenza a Trento, proprio dal padre, reo di aver instillato la passione per l'alpinismo ad entrambi i suoi figli.

Ma se proprio vogliamo indicare chi sia, fra i due fratelli Huber, il climber sportivamente più completo – per numero e qualità di salite, compiute su terreni anche molto diversi fra loro (dalle multipitch in alta montagna ai monotiri in falesia, passando per il free solo) – la scelta cadrà giocoforza su Alexander. Thomas, dalla bravura altrettanto lampante ma con uno spirito decisamente più selvaggio, sembra quasi essere, in questo senso, il figlio prodigo. Quello delle marachelle, in parete e nella vita – raccontate peraltro magistralmente anche nel libro – che del muoversi sempre al limite ha fatto la cifra distintiva di ogni sua impresa e per il quale, alla fine della storia, viene ammazzato il vitello grasso: vince infatti, nel 2001, il Piolet d’Or per la salita di "Shiva's line" sullo Shivling in India insieme a Iwan Wolf.

Forse è proprio per questo che i fratelli Huber – o "Die Huberbuam", come il titolo del film che narra la magia della loro cordata, presentato in concorso al Trento Film Festival nel 2012 e vincitore quell'anno di una menzione speciale della giuria – sono una cordata che ha funzionato fin da subito benissimo, muovendosi fra la ricerca di equilibrio e una buona dose di equilibrismo. Di questo, e qualcosa d'altro, abbiamo parlato proprio con Thomas.

Qui con te oggi c’è il terzo Huberbuam, tuo padre. Che ricordi ti legano ai primi passi in montagna, compiuti insieme a lui e ad Alexander?
Troppi per citarne uno solo. Però ricordo che un giorno, quando avevo circa quattro anni, nostro padre ebbe un incidente in parete e finì in ospedale. Quando ci spiegarono cos'era successo – un volo di 30 metri, con annesso taglio profondo alla tibia – giurai che non sarei mai andato in montagna. Le montagne per me erano pericolose e mortali: volevano portarmi via mio padre! Ma quando poi, qualche anno più tardi, mi portò ad arrampicare con lui, per la prima volta mi ritrovai in un ambiente diverso, che non aveva nulla a che fare con quello che conoscevo prima. Il modo in cui mi raccontava, mostrandomelo, un tipo di bellezza e di libertà esperibili soltanto in montagna contribuì istantaneamente a farmi innamorare. E credo di poter dire che lo stesso valga anche per mio fratello.

C'è però un tipo di fratellanza che va oltre i legami di sangue: il tuo libro è dedicato "Alle mie sorelle e ai miei fratelli". Chi sono?
Nella mia vita ho avuto la fortuna di incontrare un sacco di persone diverse, con le quali sono riuscito a costruire legami d'elezione grazie ad un modo di vedere le cose che, al di là delle differenze, ci rendeva simili: con libertà, con amore. Negli anni, mentre molte persone vengono assalite dal cinismo, io sono arrivato a credere sempre di più in questo tipo di fratellanza.

Un pensiero che hai ripreso anche nella scelta di riportare, in fondo al libro, il testo integrale di una canzone scritta da te e cantata con il tuo gruppo, i Plastic Surgery Disaster (Thomas Huber loves rock, in all senses, ndr).
Esatto. Quella canzone è un invito al rispetto dell'intera umanità, per quello che ciascuno ha da offrire. Nell'edizione tedesca del libro c'è anche un QR code che rimanda al video della canzone, cui tengo moltissimo, perché riassume perfettamente il significato del testo e, se vogliamo, della mia intera vita. Non considero l'arrampicata come un semplice atto sportivo: è piuttosto, esattamente come la musica, un atto creativo, una vera e propria arte. E l'arte sa mettere in connessione le persone in una maniera privilegiata. Come cantiamo nel brano, ci aiuta a diventare "spiriti liberi e selvaggi, che vanno insieme, attraversano fuoco e pietre, tra il cielo e la terra".

Oltre ad attraversarle, però, le pietre le scali anche. E questo può forse diventare un problema per chi, a casa, ha una famiglia ad aspettarlo. Quanto è difficile amare la propria famiglia, e soprattutto essere amati da essa, venendo a patti ogni giorno con il rischio di perderla, a causa di un parallelo amore per la montagna?
Molto difficile: tante famiglie vanno in crisi per questo motivo e alcuni decidono addirittura di non costruirsi una famiglia per evitare problemi. Io credo che avere una famiglia sia invece la cosa più pazzescamente bella e preziosa del mondo, anche per un rock'n'roller selvaggio come me. I miei tre figli e mia moglie sono quel luogo dell'anima che mi dà stabilità, dal quale posso uscire ma senza il quale non avrei mai la capacità di tornare in me stesso, di riconoscermi. Certo, l'amore per la montagna è qualcosa di altrettanto identitario per me, ma la famiglia rappresenta più di ogni altra cosa la necessità del fare ritorno, fondamentale in alpinismo. Il vero successo è sempre tornare a casa, non raggiungere l'uscita di una via o la cima di una montagna. Quando torni a casa significa che hai preso la decisione giusta, comunque sia andata.

Una decisione difficile da coniugare ad un certo tipo di egoismo "arrivista", che da sempre caratterizza l'alpinismo e chi lo fa.
La montagna è tradizionalmente considerata uno specchio attraverso il quale riconoscersi e mettere alla prova se stessi. In tal senso, sì: se ci pensiamo, è anche lo specchio del nostro ego. Ma se ti approcci alla montagna in questo modo, non riesci più a vederla per com'è: vedi soltanto te stesso, l'impresa che vuoi compiere, costi quel che costi. Occorre allora infrangere lo specchio del proprio ego, per riuscire a vedere il vero volto della montagna e sapere che cosa è giusto fare e che cosa invece no. Questo è quello che ho imparato da mio padre: ascoltare il linguaggio della montagna. Se lo fai davvero, non oltrepasserai il limite e non andrai oltre le tue capacità: in poche parole, sarai in grado di restare vivo, il più a lungo possibile.

di Monica Malfatti

Info www.trentofestival.it




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