Sul Monte Disgrazia Marco Gianola e Rossano Libera aprono L’Etico e l’Etilico
Se è vero che "l’attesa del piacere è essa stessa piacere", allora noi abbiamo cominciato a essere felici molto prima di mettere piede sul Disgrazia.
Come dice il Piccolo Principe: "Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò a essere felice." Ecco, per noi la felicità è iniziata la domenica prima: quando sono partiti i messaggi, i sogni, i "hai visto le previsioni?", e qualcuno - giuro - già al lunedì aveva lo zaino pronto.
Quando le premesse sono queste, l’arrampicata passa quasi in secondo piano. Prima vengono l’amicizia, la condivisione, la voglia di sognare. Vengono anche le ansie, le paure di non essere all’altezza, la sensazione di fare qualcosa che non serve a niente ma che ti riempie tutto. È di questo che è fatto l’alpinismo, almeno per noi.
Non sappiamo se troveremo le condizioni giuste. La possibilità di un giro a vuoto è concreta ma anche quella fa parte del bello: andare, cercare, non sapere, stupirsi nel bene e nel male.
La zona è quella del Disgrazia, più precisamente l’avancorpo est, dove Rossano Libera - che qui praticamente conosce ogni sasso (tranne quello dove lasceremo le nostre scarpe…) - ha già ripetuto e aperto (quasi sempre in solitaria) gran parte delle linee esistenti. Ma da anni gli frulla in testa un’ultima possibile via, là dove nessuno pare ancora essere passato. Almeno così credevamo - ma di questo parleremo dopo.
Durante la settimana ci scaldiamo a colpi di discussioni. Come due nonne davanti al ragù, non ci mettiamo d’accordo su cosa portare come materiale. Per Rossano, sempre troppo materiale. Per me, sempre troppo poco. E in fondo lo sappiamo: la quantità di ferro nello zaino è proporzionale allo stile. Se vuoi passare sempre in libera (e il cognome, a volte, non è un caso), ne serve meno. Se invece prevedi metodi meno "etici", beh, è tutta un’altra storia. Sul cibo e sul vino (ma non per questo bivacco troppo remoto), però, non si discute: lì ho una certa autorevolezza.
Partiamo il sabato con calma: "tanto è solo avvicinamento". L’obiettivo è il bivacco Oggioni, se la neve lo consente; altrimenti ci fermeremo sotto al Taveggia. Convinti di non trovare nessuno in giro in questa stagione, restiamo sorpresi nel vedere tracce fresche. E poco dopo, due figure davanti a noi. Quando riconosco uno dei due, gli grido: "Ti saranno fischiate mica male le orecchie oggi!"
Lui ci squadra e risponde ridendo: "Cosa ci fate qui voi due matti?" È Benigno Balatti - "Ben" per tutti - uno dei nomi più significativi dell’alpinismo lecchese e lariano. Proprio qui, nel bacino del Disgrazia, ha aperto gran parte delle vie tracciate su queste pareti. Ci salutiamo, ci scambiamo due parole e poi lo aspettiamo al Taveggia.
Quando arriva, gli scatto una foto con Rossano: i due più prolifici apritori di queste montagne, quasi certamente anche i maggiori fruitori di questi bivacchi. Momenti così ti fanno capire che sei nel posto giusto, con le persone giuste: certe coincidenze non sono mai casuali.
Proseguiamo verso l’Oggioni, accolti dagli ultimi raggi di sole. Saliamo al colle per guardare la parete: la linea sembra bella, logica, con tratti coperti e altri più secchi. Ma la verità la scopriremo solo domattina, quando le becche delle picche toccheranno la neve.
Il freddo è pungente, ma il bivacco, scaldato dal sole pomeridiano, è un piccolo paradiso. Poco dopo arrivano tre ragazzi brianzoli pieni di energia e simpatia: la serata si riempie di racconti, risate e quel benessere semplice che solo la montagna sa dare.
La mattina dopo, all’alba, partiamo verso la nostra parete. Fa freddo ma il sole ci accompagna, e ci sentiamo sereni, come se tutto stesse andando nel verso giusto, anche se non sappiamo nulla di quello che ci aspetta. Dopo un’ora e mezza siamo sotto la parete. Mi preparo, respiro, parto.
Salgo il conoide e, appena arrivo all’imbuto d’attacco, vedo due chiodi, un cordino, un moschettone di calata. Resto fermo a guardarli: non può essere. Chiamo Rossano, che mi raggiunge perplesso. Nessuna via conosciuta passa di lì. Forse un tentativo? Ma l’attrezzatura è vecchia, consumata dal tempo. Va bene così, mi dico. Parto.
Il primo tiro è facile, una cinquantina di metri. Alla sosta, altri chiodi vecchi. Recupero Rossano. A questo punto ci arrendiamo: evidentemente non siamo i primi. Ma la voglia resta intatta: seguiremo la linea più logica e vedremo dove ci porta. Riparte Rossano. Dopo qualche metro sparisce dietro uno spigolo, poi urla: "Marco, ti recupero qui. Poi ti spiego." Lo raggiungo e vedo un vecchio chiodo con un moschettone di calata e una vite da ghiaccio penzolante: chi era passato prima di noi qui si era fermato. Da qui in poi è tutto nuovo, ignoto tanto quanti prima ma con quel fascino in più di una cosa davvero nostra.
E allora saliamo, per placche, strapiombini, traversi, per altri sei tiri bellissimi. Fino alla cresta, al sole, con 300 metri di parete sotto i piedi e quei sorrisi che dicono tutto. Ci abbracciamo, sorridiamo, e per un attimo tutto si ferma.
La discesa richiede attenzione, come sempre. Ma anche la stanchezza è dolce. Arriviamo alla macchina col buio, quasi venti chilometri dopo, pieni di quella gioia silenziosa che non ha bisogno di parole. Abbiamo chiamato la via L’Etico e l’Etilico, un nome suggerito da due amiche e che ben disegna la nostra cordata e amicizia.
In macchina Ross trova una chiamata persa di Ben. Lo richiamiamo, gli raccontiamo com’è andata. E lì, il cerchio si chiude: i primi due tiri erano un suo vecchio tentativo fatto in compagnia di Marco Invernizzi (Ciccio) nell’agosto del 2006. È felice che siamo stati noi a completarla. Dice che è la più tecnica e difficile della parete. E noi, in silenzio, ci guardiamo e sorridiamo.
Non importa se sali leggero o carico come un mulo, se passi in libera o ti tiri su come puoi, se dopo brinderai con un Barolo o con un cartone di rosso del supermercato: quello che conta davvero è farlo con chi ti fa stare bene, con chi ti fa sentire vivo.
Non poteva esserci conclusione più etica di questa: tre generazioni e stili che si incontrano, in una linea che unisce nomi, visioni e amicizie. Come se la montagna ci avesse chiamati per portare avanti un’idea lasciata in sospeso, ricordandoci che in questo nostro modo di vivere l’alpinismo contano di più le relazioni e connessioni con le persone che i gradi o i tempi.
E quanto all’etilico… beh, siamo arrivati a casa troppo tardi per stappare qualcosa. Ma non c’è fretta: certi brindisi, come certe vie, meritano di essere aspettati.
- Marco Gianola, Lecco
Marco e Rossano ringraziano lo sponsor C.A.M.P.








































