Emanuele Andreozzi, Massimo Faletti e Andrea Gremes aprono Respect the Nature al Pizzo della Sella (Sicilia)

Emanuele Andreozzi, Massimo Faletti e Andrea Gremes hanno aperto 'Respect the Nature', una nuova via sull'Avancorpo di Pizzo della Sella, massiccio del Monte Gallo. Ecco i report di Gremes e Andreozzi della via sulla parete nord-ovest, aperta in stile tradizionale e con un bivacco in parete.
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Andrea Gremes in apertura sul secondo tiro di 'Respect the Nature', Avancorpo di Pizzo della Sella, Sicilia (Emanuele Andreozzi, Massimo Faletti, Andrea Gremes, 02-03/11/2025)
archivio Andrea Gremes

Emanuele, grande alpinista e amico, mi chiama chiedendomi dei chiodi per aprire nuove vie a Palermo. Incuriosito — di solito, quando Ema ha un’idea in testa, si rivela vincente — mi informo sui voli, ci sentiamo nei giorni successivi e scopro che scenderà anche Massimo Faletti. Mi convinco subito che sarebbe l’occasione perfetta per passare del tempo produttivo sulla roccia con i miei amici.

Prendo il volo il venerdì sera. Ema, gentile come sempre, mi recupera all’aeroporto e la mattina successiva andiamo a prendere anche Max. Passiamo una bella giornata tra amici, al mare, ascoltando musica e fantasticando sulla via che avremmo aperto il giorno dopo, la sera ci raggiungono gli amici Siciliani di Ema, organizziamo una bella cena e studiamo la parete tramite le foto scatatte nei giorni precedenti.

La domenica, la sveglia suona alle 6.00, prendiamo la macchina e ci dirigiamo al parcheggio. Stendiamo tutto il materiale sul lungomare, facciamo un’accurata scelta di chiodi e ferraglia varia, prepariamo qualcosa da mangiare e bere e iniziamo a camminare, felici ed elettrizzati.

Appena arriviamo sotto la parete, la prospettiva di ciò che ci aspettava è già entusiasmante; quando tocchiamo la roccia, capiamo che ci attende una grande avventura. Arrivati alla fine della prima rampa, iniziamo a prepararci: Max tira fuori una bellissima cassa per la musica e me la affida — il mio compito del giorno è fare il DJ. Ema si sistema per fare sicura e Max parte per il primo tiro. Sale veloce, si protegge bene e in poco tempo raggiunge il punto in cui decide di fare la prima sosta.

Ci prepariamo, io prendo la cassa e la metto sopra lo zaino. Scaliamo il faticoso tiro con gli zaini carichi e raggiungiamo la sosta. Max, gasatissimo, chiede della musica; quando premo “play” e sentiamo uscire il suono molto più in basso, ci rendiamo conto che la cassa è probabilmente rimasta alla base della via. Per mia fortuna, a Max spetta un tiro impegnativo, che lo distrae dalla perdita, per il momento me la cavo.

Quelli che dovevano essere i tiri più facili della via si rivelano più difficili del previsto e, visto l’andazzo, Ema sentenzia che non ce la caveremo in giornata, prevedendo un bivacco in parete. Attrezzata la sosta, saliamo anche noi e poi cambiamo capocordata: adesso tocca a me.

Scalo un tiro di placca, difficile da proteggere ma su roccia di ottima qualità. Faccio sosta e li recupero. Poi riparto, entro in una grande nicchia, e da lì è il turno di Ema: agile e veloce, sale il tiro proteggendosi dove possibile. Continuiamo così per altri due tiri. Senza quasi accorgercene, il tempo passa e tocca di nuovo a Max, che affronta una lunghezza difficile e molto articolata. Quando arriva in sosta, ci rendiamo conto che a breve farà buio. A quel punto, sconsolato, capisco che la previsione di Ema si è avverata.

Max, il più esperto, prepara il nostro ricovero per la notte: una bellissima cengia di un metro e mezzo quadrato, di cui due terzi in pendenza. Tiriamo una corda alla quale ci leghiamo, beviamo, mangiamo un boccone e ci prepariamo per l’eterna notte. A Ema tocca un telo termico da solo, ma in compenso gli spetta la zona più scomoda della cengia; io e Max ci sistemiamo insieme sotto l’altro telo, in una zona un po’ più comoda, purtroppo non abbiamo una registrazione di tutta la notte, le perle e gli aneddoti che Max tira fuori me li ricorderò per sempre.

Durante la notte, tra il vento che fa sbattere i teli, Ema che ascolta audio a un volume tale da farsi sentire fin dai pescherecci al largo, e noi che cambiamo continuamente posizione, arriviamo finalmente al mattino. Facciamo una ricca colazione: due barrette e un gel in tre (due morsi e una ciucciata a testa).

Super carichi e motivati — anche perché alle 17 avevo l’autobus da Palermo per Catania, dove avrei preso il volo di rientro — ripartiamo spediti. Per quanto ci sforziamo di andare veloci, la friabilità della roccia ci costringe a mantenere alta la concentrazione e ci impedisce di correre. Ma tra risate e battute, ci avviciniamo sempre più alla cima.

Gli ultimi due tiri ci regalano un’arrampicata spettacolare: prima un diedro rosso a canne, poi una placca chiara, anch’essa con qualche canna, completamente bianca e davvero impressionante. Quando Ema urla sosta, capisco che siamo quasi fuori, scalo il tiro veloce con Max, ce la raccontiamo e arriviamo in cima, la felicità e l’emozione che ci sale in quel momento non è descrivibile ma è bastato un abbraccio per capire che tutto era perfetto, ero la, sulla cima con i miei amici.

Il papà di Ema ci recupera in auto, andiamo alla prima rosticceria che troviamo in strada, la saccheggiamo, e poi corriamo in stazione centrale a Palermo dove saluto i ragazzi, nel viaggio verso Catania ancora gasato dalla nostra avventura, guardo le nostre foto, video e penso che l’unica che mi viene in mente per riassumere la mia avventura è "Thanks Mountain", come dice sempre il mitico Max.

- Andrea Gremes, Calceranica al Lago, Trento

RESPECT THE NATURE di Emanele Andreozzi
Preso atto di come a cavallo tra ottobre e novembre le condizioni sulle Alpi per salire vie di ghiaccio e misto non promettevano niente di buono, con Max Faletti ci siamo regalati una settimana in Sicilia, dove entrambi eravamo consapevoli dell’enorme potenziale che c’è nei dintorni di Palermo per aprire vie “trad” su roccia. All’ultimo momento si è aggregato anche il nostro amico Andrea Gremes, prendendo un volo last minute per soli tre giorni, ovvero un weekend lungo da sabato a lunedì.

Nell’isola possiamo guardare ancora molte pareti come i pionieri dell’alpinismo guardavano le Dolomiti negli anni ‘30; un privilegio impensabile da noi, dove ogni parete di roccia è stata ampiamente sfruttata da oltre un secolo di attività alpinistica e il poco spazio rimasto si presta più ad itinerari moderni che classici. In Sicilia al contrario, dopo la morte di Roby Manfrè Scuderi nel 1994, ha preso piede perlopiù l’arrampicata sportiva, mentre quella tradizionale è stata quasi dimenticata o praticata da pochissimi (Luigi Cutietta è forse l’unico a non aver mai smesso di aprire numerosi itinerari classici), motivo per cui il potenziale è enorme.

La mattina del 2 novembre, carichi di entusiasmo(e materiale sulla schiena) entrammo nella Riserva Naturale di Capo Gallo dal versante di Barcarello, senza un obbiettivo chiaro. Come previsto, davanti a noi si stagliava un mare di roccia, guglie e pareti vergini, un vero paradiso. Avevamo l’imbarazzo della scelta e addentrandoci sulla strada forestale, individuammo subito numerosissime possibilità per quel giorno.

Dopo averle vagliate tutte, decidemmo all’unanimità per tentare la salita dell’enorme e strapiombante parete nord-ovest del Pizzo della Sella, ancora del tutto vergine. Nessun itinerario la saliva direttamente, solo nei pilastri che la delimitano vi correvano già delle vie. La parete, a forma di anfiteatro, nei due terzi superiori è caratterizzata da enormi e compatti strapiombi rossi che sembrano sbarrare totalmente la strada; ma sulla porzione di centro-destra avevamo individuato un possibile punto di debolezza.

Raggiunta la parete, Max diede avvio alle danze quando ormai erano già le 9.30 del mattino. Un grande pilastro di roccia grigia era il punto più logico dove iniziare il nostro tentativo e il primo pezzo non sembrava opporre difficoltà particolarmente alte e lo valutammo come il tratto più facile di tutta la linea da noi individuata. Invece già dal secondo tiro, in sosta con Andrea osservammo Max arrampicare più lentamente del previsto.

Quando fu il nostro turno il motivo divenne subito chiaro: era un tiro di sesto grado su roccia friabile e sporca di vegetazione, non di quarto o quinto come ci era sembrato da sotto. Andando avanti le cose non miglioravano, pur sforzandoci di cercare la linea più agevole possibile, le difficoltà non scendevano mai sotto il sesto grado, su roccia varia, a tratti infida e a tratti compatta ed entusiasmante.

Ogni due tiri ruotavamo al comando della cordata, Andrea ci condusse in cima al pilastro, poi toccò a me. Andando alla ricerca dell’unico passaggio possibile in quel labirinto strapiombante, la linea di salita tese sempre più in obliquo verso destra. Lo stile era quello dei grandi storici itinerari dolomitici e quando mi ritrovai a salire un tiro dentro un enorme e tetro camino, i miei pensieri andarono alle vie di Gian Battista Vinatzer o al Philipp-Flamm sul Civetta.

A fine giornata venne nuovamente il turno di Max, che guidò due tiri in netto obliquo verso destra che ci portarono ad una cengia alla base di un grande diedro strapiombante. Ormai erano le 17 e le ore di luce a nostra disposizione erano terminate. Eravamo pressapoco a metà parete, non avevamo con noi materiale da bivacco e la salita si stava rivelando molto più lunga e impegnativa del previsto; ma la temperatura era confortevole e quindi non avevamo alcun motivo valido per battere in ritirata.

Ci sistemammo al meglio sulla cengia stendendo le corde, pronti a trascorrere la notte, con la vista diretta sul mare. Per cena ci accontentammo di mezza barretta a testa, il cibo scarseggiava e dovevamo razionarlo. Prima di avvolgerci nei teli termici che fortunatamente Andrea aveva portato per emergenza, dovemmo metterci in contatto con i pompieri, che erano venuti a farci visita alla base della parete, allarmati dalla gente del luogo, non abituata a vedere degli scalatori sulle loro montagne. Avevano fatto decollare il drone e solo una volta rassicurati telefonicamente che non avevamo bisogno di alcun aiuto ci lasciarono addormentarci in pace.

La lunga notte trascorse serena, senza patire alcun freddo e la mattina eravamo riposati e pronti a ripartire. Il grande diedro sopra la cengia era completamente bagnato, così non potemmo fare altro che provare ad aggirarlo traversando ulteriormente sulla destra, sperando di trovare porzioni di parete arrampicabili per le nostre capacità e il materiale del quale eravamo dotati. Ci eravamo portati friends in abbondanza, nuts e una mazzetta di chiodi artigianali prodotti direttamente da Andrea.

Senza il trapano, l’unica strada possibile era quella offerta dalla natura, ovvero diedri, fessure, camini o muri comunque proteggibili con la nostra attrezzatura tradizionale. A proposito dei chiodi artigianali di Andrea, se l’idea era testare il frutto del suo lavoro su questa via, stava andando alla grande, davvero nessuno di noi notò alcuna differenza rispetto a quelli che si trovano in commercio.

Il più motivato a partire dopo il bivacco fu proprio Andrea, che salì un tiro in obliquo che ci condusse alla base di un piccolo diedro-camino rosso. Alla vista ci apparve piuttosto arduo, ma l’esile fessurina che lo solcava faceva ben sperare, forse avevamo trovato una via d’uscita. Piuttosto ormai era chiaro come non potevamo più tornare indietro, con quel continuo obliquare verso destra ci eravamo definitivamente preclusi ogni via di fuga verso il basso. Sotto di noi la parete era strapiombante e buttando giù le corde, sarebbero rimaste a penzolare nel vuoto, senza nessuna possibilità di entrare in contatto con la roccia, dunque non avremmo neanche potuto attrezzarci una linea di calate fuori dalla via di salita.

La nostra situazione si stavano facendo sempre più seria: un bivacco in parete già alle spalle, nessuna possibilità di tornare indietro e la netta impressione che il peggio dovevamo ancora affrontarlo sopra di noi. Toccò a me salire il diedro e per fortuna con qualche acrobazia riuscii a passare. Qualche tiro dopo tornò avanti Max, che alla ricerca di una via d’uscita da quel labirinto di roccia ostile, tirò fuori dal cilindro un tiro stupefacente, neanche a dirlo con un grande obliquo verso destra, scalando passaggi di settimo grado lontani dalle protezioni.

Una volta raggiunta la sosta, non potei fare a meno di constatare come verso l’alto avevamo guadagnato neanche una decina di metri, a fronte di oltre trenta in traverso, la cima di questo passo non si avvicinava, il che era frustante. Il tiro successivo fu ancora peggiore a causa della friabilità della roccia e la mancanza di strutture evidenti dove proteggersi, ma Max se la cavò egregiamente e una volta in sosta, la vetta appariva finalmente un po’ più vicina. Furono due tiri severi, guidati da un fantastico alpinista quale è Max Faletti. Presto ci ritrovammo sotto l’enorme diedro, l’unica via d’uscita che avevamo adocchiato il giorno precedente dal basso. Stanchi e provati, ci apparve orrido, bagnato e strapiombante, rabbrividimmo all’idea di salirlo. Fortunatamente notammo appena alla sua destra un diedrino più piccolo, asciutto e dall’aspetto più “potabile”. Toccò a me salirlo e fortunatamente funzionò, pur presentando una difficoltà intorno al settimo grado.

L’arrampicata fu da antologia su roccia rossa a canne, peccato che lo stato di spossatezza in cui ci trovavamo non ci permise di gustarcela come avrebbe meritato. Chissà, magari un giorno una cordata salirà l’enorme diedro principale, aprendo una variante della nostra via; chiunque dovesse farlo, sono sicuro che godrà di un tiro memorabile. Per noi però in quel momento era tassativo uscire dalla parete il più agevolmente possibile, tra l’altro il nostro diedrino rosso a canne non poteva certo definirsi brutto e nemmeno un ripiego, anzi la qualità dell’arrampicata era di prim’ordine, ma l’imponenza del diedro principale emanava un fascino impareggiabile.

Stanchi e provati, arrivammo in cima alle 15 in punto con un ultimo lungo tiro. Fu un sollievo e un momento memorabile: l’intera parete era finalmente sotto i nostri piedi e un forte vento faceva correre veloci le nuvole attorno a noi, mostrandoci e nascondendo il panorama ad intermittenza. Un vero ambiente alpino, se non fosse che la montagna si affacciava direttamente sul mare. Andrea alle 17 doveva a tutti costi prendere il pullman che lo avrebbe portato all’aeroporto di Catania, dove la sera partiva il suo aereo, così non facemmo in tempo a terminare la via che iniziammo a dirigerci in tutta fretta verso la macchina.

Per la cronaca, arrivammo appena in tempo per catapultare uno sporco e puzzolente Andrea nel bus e solo allora riuscimmo tutti quanti a tirare un po’ il fiato. Avevamo vissuto un’avventura memorabile, aprendo in due giorni una via di 580 metri lungo una parete ostile, la cui conclusione era rimasta incerta fino all’ultimo metro.

Le difficoltà avevano toccato l’ottavo grado inferiore, anche se l’impegno era dato più da alcuni tiri di sesto e settimo su roccia molto friabile ed anche dal presentare difficoltà continue e sostenute dal primo all’ultimo tiro, senza mai una porzione di parete realmente agevole. Dopo una salita così intensa, il legame personale con i miei compagni di cordata era diventato più forte che mai. Per tutti noi tre, i ricordi di questa salita ci daranno ancora molta soddisfazione nei mesi a venire.ù

Su proposta di Max, abbiamo deciso di chiamare la via Respect the nature, un titolo che racchiude molteplici significati. Il primo può essere globale, visto che in questo periodo storico ovunque nel mondo c’è un forte bisogno di rispettare la natura. Il secondo è legato direttamente alla parete che abbiamo scalato, perché qualche anno fa nella riserva naturale c’è stato un terribile incendio doloso, che non solo ha carbonizzato tutto il verde della riserva, ma la sua forza è stata tale da bruciare anche su tutta la parete.

Mentre salivamo la via, abbiamo trovato piante carbonizzate ovunque. Come sia possibile che qualcuno dia fuoco alla propria terra, sterilizzandola e desertificandola rimane qualcosa che va al di fuori della nostra comprensione. Infine ha anche a che fare col nostro stile di salita, abbiamo usato solo protezioni rimovibili, senza deturpare la roccia col trapano e lasciato la parete pulita come era prima del nostro passaggio, lasciando meno materiale possibile.

Emanuele AndreozziTrento

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