Ritorna Arrampicarnia. Intervista ad Attilio De Rovere

Intervista ad Attilio De Rovere, guida alpina e protagonista di assoluto rilievo dell'arrampicata in Carnia a partire dagli anni ’80, prima del meeting Arrampicarnia (13-15 luglio 2018) e il 150° anniversario della Prima salita della Creta della Cjanevate
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Durante il primo meeting di Arrampicarnia
archivio Arrampicarnia

Attilio De Rovere è stato un protagonista di assoluto rilievo della scalata in Carnia, terra di confine dura e spigolosa, affusolata tra rocce nuvole e boschi. A lui si deve, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, la chiodatura di itinerari che hanno contribuito a scrivere la storia dell’arrampicata in luoghi di estrema bellezza e carichi di suggestioni storiche, come non potrebbe essere diversamente in Alpi Orientali: Pal Piccolo, Passo Monte Croce Carnico, Avostanis: falesie caratterizzate da roccia fantastica e gradazioni severe, fiorite in una stagione forse irripetibile che troverà, proprio nei raduni non competitivi di Arrampicarnia di quegli anni, il contesto espressivo ideale.

Dopo quell’intensa stagione di pionieri scapestrati, uniti da una rinnovata concezione dell’arrampicata (da Manolo a Mauro Corona, da Heinz Mariacher ad Andrea Gallo, da Beat Kammerlander a Luisa Iovine a Gigi Mario) complice forse anche una colpevole disattenzione delle autorità dell’epoca, l’entusiasmo dei primordi iniziò a scemare fino ai nostri giorni, in cui i protagonisti della vecchia generazione di climbers, insieme alle nuove leve dell’arrampicata carnica, hanno pensato di unire le forze per dare vita ad un evento che pare destinato a segnare un nuovo inizio, tanto nel mondo dell’arrampicata sportiva in Carnia, quanto in quello più vasto degli appassionati di montagna in generale - e che ha trovato, questa volta, un positivo riscontro da parte delle istituzioni locali preposte alla valorizzazione del territorio.

Insomma, come emerso anche da questo lungo e proficuo scambio con Attilio De Rovere, Arrampicarnia 2018, nata per celebrare il 150° anniversario della prima salita di Paul Grohmann sulla Chianevate, è qualcosa di più di una semplice rievocazione storica o di un meeting di arrampicata. È la realizzazione di una comunità operosa che quando riesce ad unirsi può decretare cose importanti. E, d’altra parte, è un fatto che stiamo assistendo ad una vera e propria rinascita del movimento arrampicatorio in questa regione, con una nuova attività di apertura di vie anche di elevatissima difficoltà da parte di giovani fortissimi, testimoni e protagonisti di un’attività sotterranea e silenziosa, incessante, che non è mai venuta meno, solo si era messa al riparo da occhi indiscreti. Non dimentichiamoci, appunto, che siamo in Carnia.

Attilio, come nacque l’idea di Arrampicarnia negli anni ’80?
L’idea venne ad un gruppo di arrampicatori udinesi, tra cui il sottoscritto. Proprio nel momento in cui cominciavano a venire organizzate, qua e là, le prime gare di arrampicata sportiva, noi, da autentici ‘bastian contrari’, pensammo di dar vita sì ad un raduno di arrampicata, ma di segno opposto: assolutamente non competitivo, proprio per demarcare una sostanziale differenza di approccio.

Riuscimmo a coinvolgere alcuni arrampicatori di Erto, prima di tutto Mauro Corona, Sandro Neri, Icio Dall’Omo ( i cosiddetti “ragazzi dello zoo di Erto”, ndr ) poi anche altri, meno noti, di Pordenone, che vennero a chiodare diverse vie dure sul Passo, anche perché il loro livello era molto avanzato per i tempi. Vi fu una notevolissima partecipazione di pubblico, attirato anche da nomi importanti che intervennero, come Manolo, Patrick Berhault, Beat Kammerlander.

Ci inventammo anche una “Cuccagna Climbing”, sorta di estrazione goliardica di premi che poi ci fu copiata anche a Cortina e altrove. Insomma, cose semplici, ma carine, e che soprattutto riscossero un grande successo in termini di affluenza, partecipazione e gradimento. Certo, va detto che nonostante questo successo, costruito praticamente dal nulla, con un coinvolgimento di tantissime persone anche da fuori, gli enti pubblici non sostennero in nessun modo queste nostre iniziative, basate tutte esclusivamente sul volontariato.

Non si può fare tutto per la gloria e quindi, dopo tre edizioni di Arrampicarnia, fummo costretti a mollare. A distanza di tempo ritengo che sicuramente fu un altro treno perso per la Carnia, in quanto era veramente un ‘treno’ che, trenta anni fa, rischiava di rivelarsi interessante, forse molto più di altri su cui successivamente si è puntato, qualcosa di particolare e qualificante, anche dal punto di vista turistico, per la zona.

Cosa ti aspetti dall’edizione del 2018?
E’ un esperimento. E’ nata come un accumulo di varie cose e inizialmente non vi era che l’idea della rievocazione della prima salita di Grohmann, sulla Chianevate, centocinquanta anni fa. Ma l’anno scorso vi sono state in Carnia alcune manifestazioni di successo, importanti segnali da cogliere. Potrebbe essere senz’altro interessante creare una sorta di ‘contenitore’, con il nome di Arrampicarnia, nome volutamente non in inglese, e che però piace e riscuote ancora simpatia e interesse. Siamo stati dei precursori negli anni ’80 vogliamo continuare a dare ancora il nostro contributo oggi. Abbiamo parlato con Promoturismo FVG e abbiamo potuto apprezzare un sincero interesse, che si concretizzerà nella pubblicazione di depliant con le cartine delle vie. Arrampicarnia, nel tempo, potrebbe diventare un contenitore itinerante in grado di avvicinare all’arrampicata, far conoscere il territorio e ricevere quei contributi dell’ente pubblico da impiegare virtuosamente per la risistemazione e la valorizzazione di falesie e bivacchi, la pubblicazione e la diffusione di cartine dei vari siti di arrampicati in modo da fare conoscere il più possibile l’elevato potenziale della zona, insomma per valorizzare il territorio. Forse i tempi sono davvero cambiati, vedremo.

Parliamo però anche un pò di te e della tua attività in montagna. Hai iniziato ad arrampicare quando una grande tradizione alpinistica iniziava a tramontare ed una nuova concezione dell’arrampicata si faceva strada…
Ho iniziato a scalare in tempi in cui l’arrampicata iniziava ad essere intesa in maniera diversa dal semplice raggiungimento di una cima, tempi in cui, parliamo di metà anni settanta inizio anni ottanta, altrove venne coniato il termine Nuovo Mattino proprio per indicare un approccio all’ arrampicata che si orientava maggiormente sulla scelta scelta degli itinerari in parete in base alla difficoltà e alla bellezza più che alla conquista fine a se stessa: noi arrampicavamo per il gusto dell’arrampicata, lo stesso tipo di pareti che attiravano il nostro interesse erano diverse da quelle classiche.

Anche in Carnia giunse quindi il nuovo Mattino di Gian Piero Motti. Cosa ti è rimasto di quella stagione?
L’approccio iniziale era molto legato all’arrampicata libera, quindi al superare in libera difficoltà che prima venivano superate in artificiale, spesso in realtà senza nemmeno l’uso di chiodi: In molti posti oggi molto noti, e che ultimamente abbondano di spit, le prime esplorazioni venivano eseguite esclusivamente con i dadi e gli eccentrici (non c’erano ancora i friends), un modo di vivere l’arrampicata che oggi qualcuno definirebbe trad: per esempio in uno dei luoghi più famosi in Scogliera ( luogo simbolo dell’arrampicata in Carnia sito sul Passo Montecroce, ndr) Polvere di Stelle l’aprimmo, era il 1979, con l’uso di sole protezioni veloci, in maniera totalmente pulita.

L’aspetto mentale ed ‘engagé’ era quindi ancora piuttosto importante, nonostante ci si fosse nominalmente discostati dall’alpinismo tradizionale…
Si, assolutamente. La nostra arrampicata era comunque ancora caratterizzata da un approccio mentale marcato, che rifletteva i legami non del tutto recisi con una tradizione alpinistica classica. Noi continuavamo ad arrampicare su vie di montagna, vie che portavano alle cime, abbiamo tracciato tante vie nuove di arrampicata con lo spirito ancora influenzato dall’alpinismo classico nonché ripetuto in libera vie originariamente superate in artificiale. Lo spirito era quello di affrontare le difficoltà con meno chiodi e meno protezioni possibili, in certi casi Il rischio era deliberatamente ricercato, spesso anche portato all’esasperazione: i rischi che si correvano allora erano davvero notevoli. Forse oggi con l’arrampicata sportiva si è trovato un giusto mezzo tra il rischio e il gusto semplice di arrampicare.

Non era ancora arrampicata sportiva, non era più alpinismo classico: come definivate il vostro stile di arrampicata?
In quei primissimi anni di attività non si può assolutamente parlare di arrampicata sportiva, perché semplicemente non esisteva l’uso di chiodi a pressione. Vi fu un periodo di sette, otto anni di ricerca in parete in cui abbiamo tentato di aumentare le difficoltà senza introduzione alcuna di chiodi a pressione. Poi con l’arrivo dell’arrampicata sportiva si è passati ad un’attività che prevede l’uso di chiodi fissi nella parete e quindi la possibilità di alzare il livello tecnico senza rischiare troppo.

Spiro Dalla Porta Xydias, espressione alta dell’alpinismo tradizionale, rimproverava ad alcuni emuli di Gian Piero Motti e del Nuovo Mattino di avere abbandonato la concezione etica della scalata e della sacralità della vetta per inseguire record sportivi. Alpinismo classico/Nuovo Mattino: dibattito definitivamente archiviato o diversi modi di vivere ed interpretare la montagna?
Secondo me le cose negli ultimi tempi sono radicalmente cambiate, tutto è stato inglobato in una logica che risponde quasi esclusivamente ad interessi di mercato, commerciali, a logiche del tutto diverse da quei tempi, non so cosa sia rimasto di quei dibattiti appassionati e di quella stagione, quell’epoca mi è appartenuta intimamente, certo, ma le cose passano. Mi è capitato, tempo fa, di leggere in anteprima, per una presentazione ad Udine, l’ultimo libro di Manolo e, fatte le debite proporzioni, lo spirito da noi vissuto in quegli anni, prima dell’arrivo dell’arrampicata sportiva, è quello, quello descritto da Manolo.

Tu, cittadino udinese, come hai approcciato l’ambiente alpinistico carnico?
Grazie a Sergio de Infanti. E’ soprattutto con lui che ho iniziato a frequentare le montagne della Carnia, perché, all’epoca, era legato ad alcuni alpinisti udinesi con cui avevo cominciato ad arrampicare verso i quindici anni: mi hanno portato a fare da subito, già il primo anno, scalate molto impegnative - è in fondo un pò la storia che racconta Manolo ed è in effetti la storia di tanti che si avvicinavano all’arrampicata in quegli anni, un’epoca di transizione ancora legata allo stile tradizionale e caratterizzata dai materiali allora disponibili, le mie prime vie di sesto grado, fatte a quindici, sedici anni, le ho affrontate tutte con gli scarponi.

Io fui tra i primi, in tutta la regione, ad usare le scarpette lisce, le mitiche Super Gratton, che mi portò da Parigi un amico - e che venivano già impiegate dai francesi sui sassi di Fontainebleau. I triestini, invece, all’epoca arrampicavano in scarpette da ginnastica, Cozzolino arrampicava con le Superga in tela che avevano suole molto tenere: nella palestra di Prosecco, si facevano passaggi di boulder, che oggi nemmeno si fanno più perché troppo rischiosi, in scarpe da ginnastica.

Per quanto riguarda la tua attività di chiodatore, sei stato tra i primi ad usare gli spit. Come venne recepito questo strumento nell’ambiente arrampicatorio locale?
Dal momento che gli spit li usavamo solo in falesia fu una ‘rivoluzione’ indolore. Con un mio compagno di cordata, Roberto Mazzillis, chiodavamo in giro, per esempio nella falesia di Illegio, in stile tradizionale, dal basso. Del resto, vedevamo ancora principalmente l’attività in falesia come preparatoria all’arrampicata in ambiente. All’inizio si chiodava per se stessi, magari in sinergia con altri arrampicatori che avevano esigenze simili, allo scopo di realizzare itinerari sempre piu’ difficili e relativamente sicuri, dico relativamente sicuri perché non paragonabili certamente a quelli di oggi. Successivamente, con una chiodatura più sistematica, sono nati itinerari di arrampicata sportiva, sceglievamo linee che ci parevano difficili e belle e le arrampicavamo per il piacere di scalarle. In Pal Piccolo, zona che ha visto la mia evoluzione di arrampicatore, ho tracciato sul Panettone in stile tradizionale o addirittura senza chiodi, con mezzi di protezione removibili, invece sulla Scogliera ci siamo resi conti che le vie percorribili in quel modo erano poche e che si potevano aprire itinerari interessanti ma che necessitavano di mezzi diversi.

Ci sono tue vie, magari meno battute, che vorresti suggerirci?
Una delle primissime, forse la prima che abbiamo attrezzato in Scogliera, una via poco ripetuta perché non risponde ai canoni odierni: Dita di burro. Oppure tutte le vie in Avostanis, nella falesia di Pramosio: sono una più bella dell’altra.

Sei stato un forte "placchista" e questo fatto emerge anche dalla tipologia di vie che portano la tua firma…
Ci sono vie in placca selettive che rinviano ad uno stile di arrampicata oggi purtroppo poco frequentato in quanto la gente si è abituata ad arrampicare sulla plastica, dove la componente atletica è preponderante rispetto alle capacità arrampicatorie pure, dove in realtà la forza fisica non serve e dove le qualità più importanti risultano essere sapere usare bene i piedi più che le mani.
Un’arrampicata oggi considerata ‘difficile’, fatta di aspetti mentali non trascurabili, certo, ma alla fine, basata sull’abitudine: oggi semplicemente si è persa questa abitudine alla placca, anche se poi, uno che sa veramente arrampicare, di fatto riesce a muoversi su tutti i terreni.

Intervista di Mario Cecere

Programma completo su www.arrampicarnia.it




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