Tempo ai Tempi

Il racconto di Dario Bertoletti che lo scorso settembre, insieme a Edoardo Rovetta, ha ripetuto una della vie più famose delle Dolomiti, Tempi Moderni sulla parete sud della Marmolada aperta nel 1982 da Heinz Mariacher e Luisa Iovane. Un viaggio del tutto personale (com’è l’alpinismo) di due giorni nella storia dell’arrampicata moderna.
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Tempi Moderni, Marmolada, aperta nel 1982 da Heinz Mariacher e Luisa Iovane
Dario Bertoletti

Questa storia della nostra salita di Tempi Moderni non ha un solo volto, ne ha diversi, che cambiano da dove e da come li si vede; i più significativi sono due, neanche troppo sorprendentemente opposti l’uno all’altro; due volti apparentemente incompatibili, che in realtà, come due facce della stessa medaglia, coesistono in simbiosi e non possono fare a meno uno dell’altro. Due storie, vissute apparentemente sullo stesso piano dimensionale, se non fosse che si sono incontrate solo alla fine, al bar, davanti ad una bella Sixtus sulla strada del rientro.

Bianco
L’umidità penetra le ossa, le nuvole nascondono il sole, il vento non si risparmia: nonostante in Orco abbiamo trovato uno dei pochi pertugi asciutti del nord Italia, sembra proprio che l’estate sia bella che finita, e con essa le speranze per il progetto mio e di Edo.

Vabbè, la compagnia è ottima, la roccia è sempre amica anche quando bastona, l’ottimismo e il filosofeggiare non ci manca… poteva andarci peggio; rimangono i soliti rimasugli di dubbi: potevamo andare prima? Potevamo rinunciare a qualche impegno? Potevamo rischiare nonostante il meteo non ottimale? Naaa, sarà pure uno dei nostri sogni alpinistici, ma la roccia mica scappa… sarà per la prossima stagione.

Lunedì mattina, leggermente nervoso per questioni lavorative, cosa insolita per le mie normali mansioni… massì, diamo un occhio al meteo… BOOM! Meteo ottimo tutta la settimana! Temperature in lento ma continuo rialzo! Stabilità all’orizzonte! Entusiasmo infantile! Rivedo completamente il nervoso lavorativo mettendolo in secondo piano, mi attivo subito con la procedura standard: "Edo, il meteo è buono, ci sei vero questo weekend?" "Ovvio" "Puoi prendere venerdì" "Ri-ovvio", controllo con altri meteo: Ok; agenda degli "impegni": sgombra da affari inderogabili; pazienza e calma, siamo solo a lunedì, il meteo può cambiare nei prossimi giorni, ma almeno le premesse sono ottime.

Non esagero: anche se avrei preferito viverla meno intensamente, i giorni seguenti sono caratterizzati da un crescendo Rossiniano di emozioni e situazioni: la verifica e conferma dell’ottimo meteo, le colate createsi dalla neve caduta la settimana precedente che vanno via via sparendo, solite questioni socio-relazionali che mirano a distarmi e deconcentrarmi (uomini vs donne)… si arriva finalmente a giovedì! Rendez-vous da Edo dopo cena, "Ci siamo Edu. Ale!" "Teso?" "Direi, ci siamo, finalmente si parte!" "Sai che ti dico? Andiamo a smorzare il tutto… Due amari, grazie"

E via, viaggio tranquillo, i Montenegro sono stati utili, siamo entrambi a poco a poco meno agitati; il furgone di Edus non sarà all’ultimo grido, ma è il sogno di ogni malato di roccia e l’andatura è tarata sulla personalità del mio compagno di viaggio: pacata ma continua e senza sosta; di tanto in tanto ci ricordiamo con passione e felicità che stiamo affrontando il viaggio, che siamo in pista, che ci siamo!

Per un momento avevamo anche pensato di fare l’ascesa in giornata, ma siamo a fine stagione e le giornate sono più corte, siamo preparati per l’eventuale bivacco, abbiamo dalla nostra tre giorni di ferie, il meteo è buono e soprattutto vogliamo evitare di tornare col buio, su ghiacciaio, per un tempo decisamente più lungo rispetto alla funivia, come avvenuto l’anno prima: considerato l’impegno che ci aspetta, vada per la partenza tranquilla alle prime luci.

Caffè al rifugio, qualche chiacchiera col gestore "C’è qualcuno in parete? Qualcuno è già partito stamattina" "Ieri una coppia; oggi no, siete i primi": l’intera via tutta per noi, una delle sensazioni più egoisticamente belle che si possano provare: trovare la via, non avere riferimenti umani, caccia al tesoro continua, ogni volta mi ricorda perché amo così tanto questo elemento naturale e le emozioni quando si trovano le protezioni, le soste, la linea.

"Il primo tiro determina l’intera via" su qualche appunto ho letto anche questa nota, ed è vero: tecnicamente il più duro, primo di 28, all’ombra, da freddi, può decisamente compromettere fisicamente e mentalmente il tutto; quante giornate si ha sbagliato la partenza e ci si è ghisati e intristiti per l’intera giornata; ecco, in falesia si può dirottare il tutto sul riposo e/o sulla birra, ma qua bisogna pensarla bene, non siamo qua e non ci siamo preparati per "provarla" ma per "chiuderla", se sarà necessario ricorreremo all’artificiale, per quanto non siamo né esperti né estimatori di questa tecnica.

Cedo volentieri il posto a Edo per il primo tiro, tra i due ha più margine lui per quanto riguarda il grado; i primi movimenti sono più difficili di quanto si potesse pensare, la parete è verticale e i piedi continuano a scivolare, la roccia sembra quasi gommata, brutta sensazione, che è meglio togliere dalla testa il prima possibile. A fatica Edo riesce a raggiungere la prima sosta, non senza alcuni momenti di tensione e agitazione, ma sano e salvo. Un’ora, un’ora per 25 metri; un bel palo. Mi metto in testa che devo evitare di perdere troppo tempo, si va in libera fino a che si riesce, al massimo mi fermo e riparto; illusione vana, alcuni movimenti obbligano a tenersi, strizzare, spalmare più del desiderato e seppur più rapidamente arrivo anche io affaticato in sosta. Siamo comunque carichi il giusto, e alcuni istanti dopo riparto per il mio tiro; la roccia migliora quasi subito.

Sotto il cielo limpido e il silenzio della valle, un po’ per volta prendiamo velocità e scioltezza, alcuni tiri sono favolosi, placca pura con rare possibilità di protezione, roccia compatta, argentata, ruvida, movimenti goduriosi. Inseguiamo la bellezza della linea, le canne d’organo naturali, i buchetti perfetti, le fessure infinite, ogni volta che alziamo lo sguardo, un mare di roccia, e non ne abbiamo mai abbastanza, un mare calmo verticale. Siamo costantemente concentrati, non vogliamo fare errori di alcun tipo, ma ci sono anche momenti in cui riusciamo a divertirci spensierati; arriva anche il famoso tiro della rigola, che di fatto di rigola famosa ha solo gli ultimi metri grazie alla foto di Luisa; sono però i precedenti 20 metri quelli che richiedono una bella dose di concentrazione data la rara possibilità di protezione; siamo in ballo e caldi, e riusciamo a fare il tiro come volevamo, felici e armoniosi.

Dovremmo essere in prossimità dalla cengia, ma i giochi di prospettiva in quel mare non ci aiutano ad identificare la reale distanza che ci separa. Con piacevole sorpresa dopo un tiro che sembrava essere il penultimo prima della pausa mi trovo con Edo in cengia, accolti poco distanti da una bellissima e solitaria cascata, con i giochi di luce pomeridiani che ne risaltano la purezza. Finalmente possiamo rilassare corpo e mente, un ultimo sforzo per sistemare il materiale e i sacchi a pelo per la notte, poi finalmente ci godiamo il sentito pasto; nulla di che, abbiamo portato con noi solo pesi leggeri preferendo la soluzione del doppio zaino con il minimo indispensabile, ma quando la fame è tanta ogni cosa ingurgitata riesce ad esaltarsi e a farsi apprezzare. Una breve occhiata alla relazione, alla partenza del tiro del giorno dopo e alle vicine vie, e già ci sentiamo crollare sotto il peso della stanchezza.

Si temeva il freddo ma umidità e temperature sono buone, quasi piacevoli; la nottata è stupenda, in cielo nemmeno una nuvola, la luna piena, solitaria, illumina il paesaggio attorno. Una calma totale, unita alla stanchezza, concilia velocemente il nostro sonno. Fine primo tempo.

Secondo tempo: ci svegliamo col sole ancora basso, nel silenzio della valle e con le sfumature del cielo che piano piano mutano, a ricordarci i ritmi blandi ma sistematici della natura. Il tempo di una rapida colazione e si intravedono i primi raggi che irrompono sui bastioni vicini. Sarebbe solo questione di tempo prima di essere circondati dal primo calore mattutino, ma Edo in un impeto improvviso sfida la roccia fredda e parte, forse spazientito dall’attesa, forse perché veggente (si vedrà più avanti).

Il primo tiro rimette subito le cose in chiaro e si rileva un osso duro e impegnativo (per lo meno per essere il primo e da freddi), come a volerci dare la sveglia e ricordare dove siamo. Anche il sole piano piano si fa vivo, anche lui a volerci ricordare che, va bene tutto, l’impegno e la concentrazione, ma anche un po’ di tepore non è poi così male.

Dopo l’impatto iniziale, la parete subito ci regala alcuni tiri non troppo impegnativi che ci fanno piacevolmente carburare e prendere velocità: oltre agli ovvi obiettivi primari, a volte il pensiero va anche alla funivia e un po’ di margine è sempre gradito. Giusto un traverso a metà via su roccia un po’ rotta e con uscita fisica su spigolo dice la sua, poi altri tiri facili in questo mare di roccia superba.

Il problema dei tiri facili è che, se non sono caratterizzati da una fisionomia specifica (e queste placche sprotette non lo sono), è facile perdersi e si rischia di finire su soste intermedie non segnate, su tiri di altre vie vicine o su varianti improvvisate. È in questa situazione che a cinque tiri dalla vetta ci troviamo: due clessidre di sosta sulla relazione, due chiodi ravvicinati davanti a me e la corda quasi finita: sono fuori strada? Che sosta è questa? Della nostra via? Troppa placca, troppe soluzioni simili, sarò giusto? Di nuovo a guardare la relazione, gli schizzi "..nicchia a sinistra nascosta nel prossimo tiro..", perfetto, facilissima da intuire… Edo mi raggiunge e dopo un’analisi consultiva concordiamo per un punto che sembra corrispondere allo schizzo… poco sopra la sosta "..cordino!" "se fossimo giusti, ci dovrebbe essere un chiodo lì, non c’è?" "no, c’è il cordino su clessidra"…si fa viva l’idea che siamo fuori strada…"vabbè, speriamo" …passano diversi metri, sempre in leggero traverso puntando ad una fessura rovescia, la supera, sale, "…Nicchia!" "Ale Edus, mitico!" …parto, e con gioia constato che il cordino era in effetti frutto di un chiodo, quindi dopo un simpatico siparietto sulle rispettive capacità cognitive, ci si riconcilia e si capisce che abbiamo effettivamente saltato una sosta, inglobando un tiro a metà.

Lentamente comincia a manifestarsi la gioia in noi: sopra di noi gli ultimi, impegnativi, tiri, siamo in grinta e il meteo sembra ancora dalla nostra, giusto qualche nuvoletta si alterna al sole battente… le ultime parole famose si potrebbe dire: parto e supero un difficile strapiombino, mi si palesano a sorpresa quattro chiodi ravvicinati e in un punto scomodissimo, ma la relazione parla di "sosta scomoda con chiodi sul fondo di un diedro" e ho fatto troppi pochi metri… intravedo un diedro poco sopra, in leggero traverso, e decido per puntare a quel punto… quando finalmente raggiungo il punto trovo sì diedro e chiodi, ma sono nella peggiore delle posizioni possibili, a rovescio, la sosta è scomodissima e non trovo soluzioni di integrazione con i friends… Mi accontento, con ottimismo, ma nel frattempo il meteo è cambiato: dal basso sono salite nubi di vapore, siamo ora in mezzo alle nuvole e nel giro di pochi istanti la situazione si è capovolta. Edo arriva e parte, lo perdo quasi subito di vista, la visibilità come la temperatura sono calate rapidamente, e la posizione di sosta non aiuta; sopra si fatica a trovare la linea, tra visibilità e roccia compatta la faccenda si è fatta delicata, e il tempo improvvisamente sembra non passare più; quando finalmente Edo trova la sosta tiro un sospiro di sollievo.

Lascio rapidamente la sosta, congedandomi con gli amici chiodi rovesci che nella loro solitudine hanno svolto egregiamente il loro nobile compito… ri-entro immediatamente in modalità scalata, mi dimentico rapidamente della nebbia e delle nubi e posso godermi questo tiro favoloso, il terzultimo secondo la tabella di marcia. Raggiungo Edo su una sosta che è l’opposto di quella che avevo appena lasciato, e la felicità è doppia: assaporiamo la vicinanza della vetta e in lontananza un po’ per volta, si intravedono Punta Penia e, dal lato opposto, la funivia di Punta Rocca. Penultimo tiro dovrebbe essere, parto deciso su un passo difficile, che imposto veramente male e su cui faccio un micro volo, complice forse la stanchezza, da cui recupero immediatamente; riletta la situazione, riparto subito, passo, e immediatamente dopo le rocce si fanno facili, sempre più facili, fino finalmente a giungere in vetta!

Non c’è tempo nemmeno per gioire che subito il pensiero va all’orologio: 16:08! L’ultima funivia dovrebbe essere alle 16:30! O alle 16:15? Vale la pena provare a correre comunque! Recupero velocemente Edus, stretta di mano senza pensarci e via, di corsa verso Punta Rocca! Corriamo, come se non ci fosse un domani, la voglia di concludere in bellezza è tanta e non vogliamo farci sottrarre questo piccolo piacere tecnologico dopo due giorni pieni!

Arriviamo a 30m della funivia, che immobile sembra attendere il nostro arrivo, sono le 16:22 e sentiamo di essere puntualissimi quando… parte! Davanti ai nostri nasi! Con tutto il fiato in gola che ho mi escono delle naturali e non riportabili esclamazioni tipiche del lombardo-veneto ad una tonalità leggermente sopra lo standard delle conversazioni formali, seguite da richieste più consone al grido di "Ferma! Ferma!" Edo si unisce al coro, seppure urlare non sia la sua dote migliore, sembra tutto perduto per un battito d’ali quando… si ferma! La funivia si ferma! Per pochi attimi si congela a mezz’aria, dopo aver fatto 50m! Tratteniamo il fiato increduli del potere delle urla! Fa marcia indietro! Non ci crediamo, siamo quasi più felici per questo evento per che per le ultime 48h di arrampicata!

Accogliamo felicissimi gli operatori e finalmente deponiamo gli zaini, deponiamo le armi, ci abbracciamo, gioiamo, possiamo finalmente pensare; pensiamo ad ogni istante degli ultimi due giorni, al perfetto sincronismo tra ogni singolo evento di quel giorno che ci ha portato a prendere quella funivia, al fatto che abbiamo fatto una via mitica, che va aldilà del grado e che Heinz Mariacher era "un caxxo di drago"; siamo felici, finalmente le sensazioni sono puramente di gioia, è per questo che scaliamo; tutto il viaggio di ritorno "tiro secco Edo" ricordandogli ogni 5 minuti che abbiamo fatto la via, che abbiamo fatto Tempi Moderni.

Nero
Io sono un mediocre. In un mondo ambizioso fatto di sconosciuti che condividono ogni minima esperienza per un bisogno esasperato di apprezzamento e considerazione; in cui il successo è presentato e narrato sempre come un gesto eroico, accessibile a tutti e in cui bastano buoni propositi e tanta costanza; in cui puntare al massimo e oltre le proprie possibilità è insegnato come un bisogno vitale; il cui il tempo è vissuto come fonte di agitazione anziché di riflessione; e in cui comunque si omaggia ed elogia contemporaneamente ogni forma di pigrizia e comodità, come si stesse giocando con carota e bastone… insomma, in un mondo non esattamente perfetto, ultimamente anche un po’ troppo politically correct, forse perché annoiato, io sono un mediocre. Incostante, lunatico, casinista, egoista, stronzo (ma comunque meno stronzo di chi lascia lo sporco, a partire dai moccini di sigaretta, ovunque ed in particolare lungo le pareti); e mediocre. Mediocre nel senso più diretto possibile, nulla di particolare, una persona media con pregi e difetti. Non è un trattato di psicoanalisi né un’autodenuncia, è solo l’introduzione all’esperienza più bella cui potessi ambire, nella mia mediocrità, la realizzazione di un sogno fatto di dubbi, emozioni e condivisione.

Non sono un professionista, amo la roccia, amo le vie lunghe, e questa via per me valeva molto, come si usa dire, un giga-progetto, anzi IL progetto; per molti facile e antica, per molti altri impossibile; per me, per come sono fatto, per come ragiono, un sogno. Un rispetto dell’etica, del mondo, della natura, dei principi che la circondano. Considerati i pensieri poco sopra, non so bene perché mi sia venuto in mente di scrivere, è quasi un controsenso, ma dopo alcune esperienze mi viene sempre voglia di buttare giù due pensieri. Mi era capitato la prima volta dopo il Cervino; dopo essere scesi, di getto avevo scritto un mini racconto per gli amici, un lungo messaggio WhatsApp che narrava un po’ tutto, ciò che mi era passato per la testa; non che fosse richiesto, ma mi faceva piacere farli partecipi di una mia forte emozione.

IL progetto; la prima volta ne sento parlare da un’amica; eravamo in Verdon, dei suoi amici incontrati per caso in campeggio sono accolti con omaggi vari per la recente riuscita dell’impresa, descrizioni esagerate, tensione, gioia, moniti e avvertenze per la severità dell’esperienza. Sembra roba forte insomma; "in Marmolada i gradi sono un’altra cosa", concetto che mi viene ripetuto più volte, comunque siamo ben lontani da pensare anche solo di tentarla; pensiamo alle cose fattibili, lasciamola lì, in un angolino, è un sogno, per ora rimane tale.

Qualche anno dopo un amico esagera e mentre programmiamo un’altra uscita, me la propone all’ultimo come alternativa; mi sembra un po’ troppo audace e sproporzionata come alternativa, è ancora troppo presto per me, non me la sento, non mi va di affrontarla come fosse un compito per casa; mi piace fare le cose perché mi piacciono; ogni anno vado almeno una volta a ripetere Kundalini in Val di Mello e Il digiuno delle Galline a Rogno, ripeterei all’infinito le Messner al Sella e alle Pale, perché sono tutte vie che mi danno qualcosa, mi mettono a mio agio. E questo dovrebbe valere per ogni tipo di esperienza. Mi oppongo e fortunatamente convinco il socio, mantenendo fede al progetto iniziale che si rileva essere emozionante e di soddisfazione.
Passano gli anni, l’esperienza cresce, la passione anche di più, il grado quasi naturalmente si alza un po’; arrivano le occasioni di belle vie interessanti, in ambiente e non, che mi far capire che quel sogno e quella proposta a volte buttata lì per caso a qualche amico, cominciano a diventare un po’ per volta sempre più concretizzabile.

La mia e la personalità di Edo sono letteralmente l’opposto, timido e costante lui, esageratamente estroverso e lunatico io, ma ci si trova abbastanza in sintonia, più in via che in falesia, principale contesto delle mie proposte, quindi la cosa funziona.

Arriva l’anno della Marmolada, Vinatzer-Messner il campo di gioco; non so se capita a tutti, ma incute in me un rispetto totale e remissivo, anche senza averla vista, solo per i racconti e le storie che le aleggiano attorno. "Lì i gradi sono un’altra cosa" non capisco se queste frasi sono da monito per gli sprovveduti, se siano legati al tipo di roccia, o se effettivamente il contesto renda tutto più sospeso e difficile da leggere e interpretare; arrivati al cospetto di questa immensità, non possiamo che ammettere e accettarne il potere persuasivo; la partenza è un bello schiaffo al morale, più ostica di quello che sulla carta ci si aspetta, ma tutte le sensazioni ed emozioni, negative e positive, creano un cocktail vincente, che ci porta, passo dopo passo metro dopo metro, sempre più su; davanti a noi raggiungiamo un’altra cordata che già conosce il percorso, e lì le sensazioni cambiano e sono contrastanti tra loro: da una parte la sicurezza della strada battuta, dall’altra il rammarico per la mancanza di quel pizzico di imprevedibilità adrenalinico; non che stessimo in coda, ma avere sempre sott’occhio la retta via toglie quel qualcosa…farla in giornata e la consapevolezza che abbiamo gestito tutte le incognite dell’ambiente (tempi, fatica, orientamento, rapidità) ci sembra un buon risultato, sentiamo di aver passato il "test d’ingresso"; e sentiamo anche che forse con un po’ di impegno possiamo anche cominciare a progettare qualcosa di più.

L’anno che segue è un po’ strano, Edo spinge molto in falesia, mentre io farei solo vie a ripetizione. Le occasioni per vedersi e per allenarsi sono numerose ma in via, rispetto all’anno prima, si va insieme di meno. Ciò nonostante comincio a battere terreno, sento che posso contare su di lui. Indubbiamente il fatto che metta su un bel grado è d’aiuto e rassicurante mentalmente, poter contare sul proprio partner è fondamentale, ma la cosa è reciproca e più di tutti sono io che devo sentirmi pronto a gestire qualunque situazione. Il fatto che quando butto lì ad Edo la via non ne metta mai in dubbio la fattibilità mi fa pensare: si fida di me? È incosciente quanto me? Sono miei pensieri proiettati su di lui? Sono esagerato io o riduttivo lui? Il campo di gioco non è stupido, non è una partita di biliardo, la fiducia reciproca è una preziosissima arma, da trattare e coltivare con cura e rispetto.

Mi ricapita spesso sotto mano l’articolo di UP che riporta la storia della via narrata direttamente da Heinz… le ho divorate quelle pagine, e quelle immagini: che stile, che etica, che rispetto per la roccia! Con tutte le nuove tecnologie mi sento quasi fuori luogo a immaginarmi chi quella linea l’ha ripetuta negli anni passati, ma forse qua, su questo terreno, su questa via ancora cosi fuori dal tempo, il distacco diminuisce e la testa, l’intuito, l’esperienza saranno ciò che più conteranno… sono in grado? Sono in forma? Mi sto preparando? Sto sottovalutando qualcosa? Che cos’è Tempi? È soprattutto bella, richiede passione, impegno, allenamento - e anche un po’ di fortuna- ma saprò sicuramente ripagare tutto con gli interessi…

Cos’è Tempi al giorno d’oggi? Per me il frutto di una passione coltivata con pazienza negli anni; se non mi sentissi pronto non mi passerebbe mai l’idea di farla tanto per compilare un CV, l’idea di chiedere a qualcuno di trainarmi su non esiste, non trova alcun senso, accetterei serenamente i miei limiti.

A settembre si palesa l’occasione giusta; attimi in cui penso che sto osando troppo, ma poi tornano in mente tutti i pezzi del puzzle e capisco che sono solo forti emozioni; come sono messo? In caso di emergenza sono in grado di gestire il tutto? Comodo l’elicottero ma…sarebbe il risultato di una serie di sfortunati eventi o della sottostima di un gioco cui ho voluto partecipare? Quante volte, sentendo di recuperi assurdi, hai pensato della stupidità/sconsideratezza/leggerezza umana? Non voglio cascarci anche io, voglio rispettare montagna e me stesso.

Qualche dubbio non se ne va fin sotto la parete, anzi mi perseguita anche sopra, ma diventa più un compagno di viaggio che un peso, e si trasforma in un gioco con se stessi, intervallato da sconsiderata ed esagerata euforia (sono qui e ora!). Di fatto la via non me la godo tutta, è una via limite per me e, non volendo mai sottovalutarla la concentrazione a volte prende il sopravvento su tutte le altre sensazioni. Relazione alla mano, i gradi si rilevano allegri anche dove la descrizione dovrebbe acquietarci, non ci fidiamo mai più di tanto. È un misto di emozioni forti, indubbiamente; ovviamente in parete la dimensione emotiva cambia volto, il mondo scompare, non abbiamo nessuno attorno, siamo soli, siamo unici, siamo noi e questo elemento minerale che tanto ci attrae; e siamo così contenti di non trovare nulla di moderno attorno, un sentimento primitivo.

Nemmeno la pausa in cengia mediana muta lo stato d’animo, teniamo tutto dentro, conserviamo tutto per la vetta; il pasto, la notte, la sveglia, sono un tutt’uno, non ci rendiamo conto della dimensione del giorno, viviamo tutto come un singolo respiro, come un battito di ciglia.

Quando il pomeriggio del secondo giorno arriviamo in vetta ci sono frammenti di gioia sui nostri volti, ma il pensiero principale va alla funivia… con tutto quanto in sospeso, siamo concentrati sulla funivia! Non si tratta di sminuire quanto fatto, ma entrambi non consideriamo completo il tutto fino a che siamo tornati. Mi odio per qualche momento per questo mio cinismo, ma avrò tempo dopo per rompere le righe.

Fortunatamente la funivia è presa, e man mano che ci allontaniamo dalla vetta cresce lentamente la felicità; i pensieri di questi due giorni finalmente si trasformano in puro godimento, e per -diversi- attimi la scompostezza prende il largo; la funivia, il cambio abiti, gli zaini sistemati, la birretta, la cheesecake, il viaggio di ritorno, i saluti… anche in silenzio riusciamo a capirci in tutti questi momenti e basta un sorriso complice per intendersi.

Interpretare le emozioni di Edo non è facile ma credo sia felice anche lui. Siamo felici, e per oggi ci basta.

di Dario Bertoletti




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