Jumar Iscariota, l'incredibile via al Pizzo Badile di Ottavio e Tarcisio Fazzini e Livio Gianola

Jumar Iscariota sulla nord-ovest del Pizzo Badile è una via incredibile, che nelle parole di Matteo De Zaiacomo - uno dei pochi che l'ha ripetuta - "trova una logica sulla complicata placca compatta del ripido pilastro a goccia". Aperta nel 1986 con uno stile che "conferma la grande classe degli apritori Tarcisio e Ottavio Fazzini insieme a Livio Gianola. Mai uno spit di troppo a stravolgere la regolare logica suggerita dalla roccia. Il tutto in un ambiente tanto severo quanto spaziale." De Zaiacomo aveva ripetuto la via, tutta in libera tranne il tiro chiave, il 11 agosto del 2023 insieme a Chiara Gusmeroli. La lunghezza chiave di 7c (forse anche 7c+, ndr) era stata liberata nel 2023 da Caterina Bassi che si era calata dall'alto, dopo aver ripetuta a-vista tutti gli altri tiri due settimane prima insieme a Martino Quintavalla. La via, salita in solitaria per la prima volta nel 1995 da Luca Maspes, era stata richiodata nel 2019 da Simone Manzi e Riccardo Lerda e attualmente è la più difficile del Badile, alla quale manca la prima libera in giornata. Ecco intanto il bel racconto di Gusmeroli della loro giornata memorabile.
JUMAR ISCARIOTA
Buonanotte, mi giro sul fianco. Mi esce dalla bocca "che bella la vita”, in un misto tra pensarlo intensamente e pronunciarlo a parole. Sono sotto ad un sasso, nel mio caldo sacco a pelo, di fianco a Matteo; sopra al nostro naso la via lattea è interrotta da un’imponente sagoma scura, una prospettiva nuova da cui guardare un profilo famigliare, una montagna che sa di casa. La giornata che ci aspetta è costernata di incertezze ma non riesco proprio a sentirmi in soggezione, sto bene li.
Una di notte. Boato. Ci svegliamo di soprassalto, il Badile ci ricorda con autorevolezza la scala gerarchica ed una nuvola di polvere ci investe lasciandoci in bocca sabbia, disorientamento e timore. Rimandiamo le decisioni importanti alla mattina successiva, o meglio, di tre ore, e ci riaddormentiamo.
La notte prosegue tranquilla e dopo una breve colazione partiamo cercando di scacciare i dubbi; le placche appoggiate sull’avvicinamento sono piacevoli e noi leggeri raggiungiamo il ghiacciaio. Facendoci strada tra una voragine e l’altra ci sentiamo un po’ vagabondi e un po’ pionieri, sappiamo dove vogliamo arrivare, non sappiamo se e come lo raggiungeremo e non sappiamo cosa ci aspetterà dopo. Non ci si permette mai troppe certezze, sono le regole del gioco.
La via la attacchiamo dalla terminale, io mi incasso dentro e faccio sicura da lì, do un pugnetto a Matteo che parte canticchiando "mondo marcio resta a galla, oh che culo ho pescato il pesce palla”. C’è un buon mood, mi piace chi scala canticchiando. Linea cannata, qualche passo indietro e si riparte, "forse era meglio non cantare e concentrarsi di più” dice. Io rido.
Ingraniamo la marcia, azzecchiamo la rotta, e ci alziamo dal ghiacciaio. Ora la vista è impressionante: buchi sotto di noi, granito in mano (con rischio che resti letteralmente in mano) e passi di danza che ci portano da destra a sinistra seguendo una linea articolata e sempre da scovare. Mentre sono lì a sbalzo è impossibile non pensare alla banda Fazzini-Gianola che 37 anni prima si è buttata su questa parete, il pilastro a goccia, con il tipico ingegno alpinistico ed una temuta bellezza, che caratterizza le vie con la loro firma. Quel tipo di firma impossibile da ignorare, incisa sul granito, sui passi obbligati da equilibri precari, sull’intuizione che li rende veri artisti, sempre due metri sopra al filo del rasoio. E 7-8 metri sopra l’ultima protezione).
Ne parlo con Matteo, siamo entrambi estasiati, un misto tra l’ammirazione, l’adrenalina e la paura. Alterniamo le cazzate al rispetto reverenziale e dopo i primi tiri, su cui ci scaldiamo, mi ritrovo alla sosta precedente il tiro chiave: il temuto tiro dei pendoli, è di nuovo impossibile non pensare a come gli apritori abbiano interpretato e scovato questa lunghezza che traversa a sinistra una placca da scalare in discesa, follia.
Matteo è quello che si prende i veri spaventi, io mi diverto a leggere la linea sulla roccia, adocchiare i chiodi e concentrarmi sull’arrampicata. Penso solo a scalare ed un po’ mi sento parte di quell’angolo di terra; la sensazione di essere a casa ritorna. Per le 15 è cumbre. Un po’ urliamo, un po’ ci diamo il 5, un abbraccio, un pugnetto, beviamo quel che resta e scanniamo le barrette centellinate. Siamo lì, l’abbiamo conquistata.. ma cosa?
Non c’è croce, non c’è cima, non è questo che cercavamo. Come un cane che si morde la coda abbiamo conquistato questa piccola certezza: la certezza di quanto sia bella la vita trascorsa facendo ciò che piace, salendo per il gusto di salire, sapendo di aver dato il massimo, di aver ripercorso quello che fino a poco prima era solo un sogno. Salire per l’estetica della linea per la grazia del movimento, salire un pezzo di storia.
Ripenso alla frase che il Tarci sottolineó sul libro "Yosemite”: "La mente mi dice: «Tieniti stretto tutto questo nella tua memoria, ponilo sotto vetro nel tuo scrigno spirituale, questo è oro puro». E in questo attimo mi sento straordinariamente ricco.”
Mi sembra di capirlo per davvero, mi sento ricca, immensamente grata.
Grazie ai visionari! Grazie al Badile che si è concesso, (infinite) grazie a Matteo con il quale è stato bellissimo scalare e condividere questo viaggio, grazie (e mega complimenti) a Caterina Bassi e Martino Quintavalla per la scalata in libera della via, ed infine grazie a Simone Manzi e Riccardo Lerda per la richiodatura della via.
- Chiara Gusmeroli, Talamona