Il bivacco e l'alpinismo che si ricorda

Roberto Iannilli e il racconto del bivacco di 9 anni fa sulla nord del Monte Camicia (Gran Sasso, Appennino) in occasione dell’apertura con Ezio Bartolomei della via "Vacanze romane".
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Tutta la grande Nord del Camicia
arch. A. Di Donato
Qualche tempo fa sul Forum di PlanetMountain è apparso un post di Roberto Iannilli sul bivacco: “Fare bivacchi in parete ti segna per tutta la vita” scriveva Roberto. La frase ci ha colpiti. Così gli abbiamo chiesto di scriverci la storia di un bivacco che l’ha segnato. Ne è venuto fuori questo ricordo della notte passata, tra il  21 e 22 agosto del 1999, sulla nord del Monte Camicia, la parete conosciuta anche come l’Eiger degli Appennini. In quell’occasione Roberto ed Ezio Bartolomei aprirono la via “Vacanze romane”.

Vi proponiamo questa lettura anche se non c’entra nulla con le notizie di attualità, perché ci sembra che sia perfetta non solo come ‘récit d’ascension’ ma anche, visto il periodo, come Storia di Natale dedicata all’alpinismo e agli alpinisti.


BIVACCO CON EZIO di Roberto Iannilli

Guardo l’orologio che porto nella tasca dello zaino e vedo che sono le 19, abbiamo ancora un po' di luce ma dobbiamo cominciare a cercare un posto per bivaccare, non possiamo sistemarci dove capita, siamo sulla nord del Camicia, una parete che fa spavento solo a immaginarla.

- Ezio, vedi qualche posto riparato, se sta a fa buio!
Il prossimo tiro tocca a me e inizio un traverso su una sottile cengia erbosa. Mentre la percorro penso che potrebbe essere la soluzione, anche se non completamente a riparo, ma poi scorgo un buco, basso, all’altezza dei miei piedi. Faccio sosta.

Arriva Ezio e gli chiedo che ne pensa; mi sembra piccolo, per tutti e due. Ezio si mette a quattro zampe e entra con la testa nel cunicolo.
- Così com’è, in due ‘n c’entramo!
- Porca mignotta, che sfiga, ce tocca dormì de fori, esposti a’ ‘e cadute dei sassi!
- La de sotto, su ‘a verticale del canale, ce sta ‘na specie de spiaggetta, ma rischiamo che viene giù ‘na scarica e bonanotte.
- Mejo er buco!
- Mo vedo de allargallo, è pieno de terra...
Ezio, armato di martello, entra come una talpa nel buco e comincia a martellare, scavare, allargare; io attrezzo una breve fissa per permetterci di spostarci sulla cengia senza rischiare di andare di sotto e scendo con una doppia alla spiaggetta, dove cola dal canale un rigagnolo di acqua. Riempio le borracce.
 
Siamo a metà via, ormai fuori dalla parte difficile e pericolosa della parete, quella che mette paura. Abbiamo arrampicato per tredici ore, praticamente mai un momento senza tensione, sempre concentrati, attenti a non sbagliare, prigionieri del posto più meravigliosamente orrido dell’Appennino, forse di tutte le montagne italiane. Dopo le titubanze, le indecisioni, i progetti, ora siamo qui, dentro la nord, noi siamo parte di lei, una grande madre snaturata che ci accoglie nel suo grembo fatto di rocce pericolanti e ciuffi di erba traditori. Eppure siamo felici, siamo noi due e “lei”, senza compromessi, disarmati, alla pari.

La tensione e la voglia di scappare ci hanno accompagnato per tutta la giornata, sin dal primo momento, all’attacco, quando abbiamo visto “dal vivo” per la prima volta il “mostro”. Al suo cospetto ci siamo sentiti piccoli e indifesi, in balia dei suoi capricci, ma questo non ci ha indotto a fare marcia indietro, avevamo voglia di misurarci con “lei”, vivere la nostra avventura in sua compagnia, avevamo voglia di far parte di questo piccolo mondo lontano dalla vita di tutti i giorni.

I primi mille metri sono stati un’odissea alpinistica, una continua ricerca dell’ appiglio giusto da tenete nel modo giusto e ogni appoggio è stato una lotteria, un possibile tranello pronto a cedere. Siamo riusciti ad essere leggeri, a non scalfire nulla, non muovere un sasso. Siamo stati discreti, delicati, educatissimi, non volevamo disturbare la regina che sonnecchia benevola. Niente urla tipo “Molla tutto!”, ma perfetta intesa, quasi un raccoglimento mistico. Già, infatti questa è una scalata mistica, bisogna avere fede e credere nel dogma della fortuna che aiuta gli audaci. “Audaci”? … insomma, per la verità ci caghiamo sotto dalla paura.

- Robbè, ora ci dovremmo entrà in due, se pure ‘n po' stretti; mejo de gnente.
- Porca miseria s’ è stretto, ma almeno semo coperti.
Ceniamo a base di barrette e tiriamo fuori i nostri sacchi da bivacco, che non sono altro che i coprisacco. Abbiamo preferito la leggerezza al confort ed ora speriamo di non aver sbagliato strategia. Dentro il buco, con le nostre teste nel fondo ed i piedi fuori, sulla cengia, ci stringiamo l’uno all’altro ed è bello condividere con un amico vero questa intimità assoluta, lontano dalle nostre certezze della “vita di sotto”. Minuscoli esseri, al pari di un rapace nel nido o di uno scoiattolo nella tana, persi dentro di “lei”, che silenziosa manda solo sporadici rumori di sassolini che cadono dall’ alto.

Dormire in parete è l’apoteosi dell’ alpinista che ama la montagna, che la scala per affinità, senza arroganza, con rispetto e passione, consapevole delle dovute misure, della vulnerabilità. Bivaccare è vivere forte, e mi sento vivo in un modo pazzesco. Il mio sangue scorre fluido, il respiro riempie i miei polmoni dell’ aria leggera della montagna, mi sembra di sentire ogni singola cellula prendere vigore, sdoppiarsi. E mentre la mia mente spazia da casa mia alla via ancora da salire, un sonno leggero ed interrotto si prende cura di me.

Tun tun tun… Mi sveglio ai colpi di gomito di Ezio.
- Che c’è, che vuoi?
- Gnente, c’ho freddo e mi scaldo; scusa nun m’ ero accorto che ti davo gomitate.--
- ’Azzo, c’hai raggione, ‘mmazza che freddo che fa!
Cerchiamo di riaddormentarci e ci ranicchiamo vicini.

Si sta facendo giorno, è appena chiaro e sento un vociare lontano, come un allegro discorrere di gente che passeggia. Dopo un attimo eccoli, sono una fila di escursionisti che trotterellano traversando sulla nostra cengia. Ma da dove cavolo arrivano questi, possibile che c’è un sentiero in piena parete? E noi che credevamo di aprire una via dura in un posto vergine, lontano da tutto. Poi ecco una gomitata, la raffica che la segue e mi sveglio. Fuori è ancora buio pesto, il freddo continua a tormentare Ezio ed io ho gli incubi.

In qualche modo il tempo passa e all’alba non ci sono escursionisti di passaggio, ma altri 1000 metri di via da scalare. Intorpiditi e affatto riposati usciamo dal buco come due lucertole alla ricerca del sole, che però su una nord si fa desiderare alquanto. Fuori è uno spettacolo, un mare di nubi delimita il nostro bivacco dal resto del “mondo di sotto”, siamo noi soli in questo qua di mondo, quello di sopra, sotto c’ è la vita normale, quella che scorre monotona e regolare, qui la nostra va a 200 allora e derapa in tutte le curve, qui la nostra è una vita fuoriserie. Il mare di nubi ci nasconde i primi mille metri di spezzatino di roccia, ci fa notare che ora siamo oltre, che ora possiamo iniziare a gustare il piacere della salita, la soddisfazione.

Ezio ed io ci leghiamo e ripartiamo per la nostra avventura, un’ avventura che avremmo voluto tutti e due far durare fino alla nostra vecchiaia, fino a quando ci saremmo trovati davanti ad un caminetto, con il plaid sulla gambe, le pantofole di feltro ai piedi e qualche tremolio alle mani, a ricordare queste meravigliose giornate di vita fuoriserie, di vita forte.

Ma Ezio ora non c’è più ed io ho perso un pezzo di me, vivo ancora fuoriserie, bivacco, scalo, ma di notte, in parete da solo, le sue gomitate tornano sempre a ricordarmi che le ferite del cuore non si rimarginano mai, resta sempre un vuoto incolmabile, che anche la più estrema della salite che fai non te lo fa dimenticare.
Ezio bivacca con me, anche dopo il 2003, non manca mai ad un appuntamento.

Roberto Iannilli, 14 dicembre 2008

"Vacanze romane" è la via aperta da Ezio Bartolomei e da me (Roberto Iannilli ndr) il 21 e 22 agosto 1999, dopo tredici più sette ora di arrampicata, con difficoltà massime solo di V+, ma in un ambiente difficile, sia per la roccia, difficilmente definibile come qualità, che per le dimensioni della parete. Le protezioni sono quasi nulle e quasi tutte le soste del primo tratto (1000 metri) insicure. Ho un ricordo chiaro dei tiri chiave, un tratto di circa 150 metri su una roccia assurda, piuttosto verticale, assolutamente improteggibile. Il grado che si usa normalmente per definire le difficoltà dell'arrampicata non ha senso utilizzarlo su questa parete, l'arrampicata è estrema, non tanto per la dimensione degli appigli, quanto per la precarietà assoluta. Scali sfiorando la roccia, senza mai tirare nulla, ma solo appoggiando. Eravamo come sospesi nel tempo, in un universo alternativo. Mentre nel tratto iniziale abbiamo trovato "frigoriferi" in bilico, nella parte prima del bivacco c'era una specie di triturame misto a ciuffi di erba. Le soste erano a 5 o sei chiodi, tutti sfilabili a mano e la sicura era in vita, non avendo nessuna affidabilità l' ancoraggio. Uno si chiederà perché scalare una parete del genere, dove sta il gusto… Non lo so, è una parete mitica, almeno per noi locali, una parete che pochi hanno avuto il coraggio di affrontare (eravamo la diciottesima cordata che saliva la nord, compresa la solitaria e le due invernali), una sfida con se stessi da affrontare con umiltà. Salire la nord significa essere montanari più che alpinisti, avere nei geni qualcosa del camoscio, sentirsi un po’ speciali e fuori dal tempo.
La nostra via è stata la seconda via della parete, dal '34. Nelle poche ripetizioni della Classica, erano state aperte solo varianti (lunghe anche 500 metri) nella parte alta della parete, dove la roccia cambia radicalmente ed è, in un paio dei 5 speroni che la compongono, anche ottima.
"Vacanze romane" è lunga 2070m con 43 lunghi tiri ed abbiamo dato una difficoltà complessiva di EX-, considerando la pericolosità, la complessità e i rischi che si corrono in caso di mal tempo. Nonostante qualche interessamento non ha ancora ripetizioni e sono certo che se Ezio fosse ancora vivo ci saremmo tornati insieme l' anno prossimo, per il decennale della nostra più bella avventura. Non posso che ricordare con un immenso piacere i momenti bellissimi dopo il superamento della parte dura, ci sentivamo felici, ed io non ho mai creduto alla felicità. Anche adesso, dopo quasi dieci anni, scrivendo queste parole sento un brivido di paicere ed un' astrema nostalgia di quei giorni e di Ezio.
 
Note: Ezio Bartolomei era poco più giovane di me, ed era approdato all'alpinismo da poco tempo, praticamente aveva iniziato con me, aprendo una via di 500 metri al IV pilastro di pizzo d' Intermesoli (1996). Da allora avevamo iniziato ad arrampicare insieme, sia in estate, in montagna, che nel resto dell' anno, in falesia. Era bravo e di talento naturale. Eravamo simili come statura (medio tappi), e ci accumunava la stessa voglia di fare, scoprire, giocare. Davanti ad una parete vedevamo linee immaginarie da salire e andavamo senza indugio. Nell' agosto del 2003 avevamo portato del materiale sotto la "Farfalla" (struttura particolare all'interno della parete nord-est della vetta Orientale del Corno Grande, il "Paretone"), avevamo intenzione di aprire una via in più giorni, utilizzando il portledge. Lasciammo nascosto una zaino con viveri e attrezzatura, con l'idea di tornare e attaccare la via. Il WE successivo Ezio non poteva venire e io andai da solo a ripetere una via in solitaria, mentre lui, lo stesso giorno, scivolava in moto ed era investito da un autobus, che passava giusto in orario con lui. Ricordo che quel giorno faticai molto, ero vuoto e non riuscivo a scalare; una giornata storta. Al ritorno alla macchina accesi il cellulare e trovai un messaggio, era di Luca Grazzini che mi avvisava che era accaduta una cosa grave a Ezio; telefonai…. Da allora, al Gran Sasso, scalo quasi esclusivamente in solitaria.

La Nord del Monte Camicia (Gruppo del Gran Sasso) è alta più di mille metri e larga di più, ha una forma convessa, e quando ci sei dentro capisci il significato della parola "universo". Non finisce mai è enorme. All'attacco c' è una valle stretta, con un nome particolare e dal significato intuibile: "Il fondo della salsa". La via "Classica" è la Marsili-Panza, un vero capolavoro dell'alpinismo, da pochi conosciuta e secondo me una delle massime imprse dell' alpinismo italiano. Aperta nel 1934, fu accolta con assoluta incredulità di paesani di Castelli, che consideravano la nord una cosa propria e inviolabile. Per questo motivo, due anni dopo, nel '36, i nostri due tornano sulla nord e ripetono la via, aprendo anche una variante diretta e lasciando in parete una vistosa giacca rossa, visibile dal paese, in modo da convincere i paesani. Da allora poche e rade ripetizioni, un'invernale durata vari giorni e terminata con un morto e un recupero in parete con l'elicottero (primo recupero al Gran Sasso con questo mezzo). In quell'occasione, il grande Mimì Alessandri uscì dalla parete da solo per una variante, andando a chiedere soccorso per il compagno ferito e partecipando alle manovre di aiuto. Recentemente c'è sta l'impresa di Andrea Di Donato in invernale free-solo, ma questa è storia fresca.

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