Cerro Piergiorgio 1985: Mario Manica e la prima assoluta della nord-ovest con Renzo Vettori 40 anni fa

Il racconto di Mario Manica della prima salita della parete nord-ovest del Cerro Piergiorgio in Patagonia, realizzata con Renzo Vettori esattamente 40 anni fa, il 22 novembre 1985. Il successo sulla 'parete perfetta', come era stata definita da Michel Piola, è avvenuto dopo un primo tentativo nel dicembre 1984 da parte dei Ragni di Lecco Marco Ballerini e Alessandro Valtolina.
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Renzo Vettori e Mario Manica sulla cresta del Cerro Piergiorgio in Patagonia, 1985
archivio Mario Manica

Fra le vie aperte qui e in altre parti del mondo, Greenpeace al Cerro Pier Giorgio occupa una parte speciale del mio alpinismo. Esattamente quarant’anni fa, a 23 anni appena compiuti, le verticalità inesplorate della Patagonia erano vastissime.

"La parete nord nord-ovest del Cerro Pier Giorgio è tra le più belle al mondo", commenterà anni dopo lo svizzero Michel Piolà. E un complimento così da lui, è stato un onore, oltre che un vero piacere.

Febbraio 1985. Il Cerro Torre ci aveva fatto sognare, ma a me e Fabrizio De Francesco era sfuggito per inesperienza. Il primo passo mettendo il naso fuori dell’Europa però era stato fatto. E ora non pensavo che a questo: dovevo trovare nuovi compagni di cordata e ripartire subito per quegli orizzonti.

Estate 1985. Incappo in D’Artagnan (alias Renzo Vettori). Lui sa che sono rientrato dalla Patagonia da poco. Ci siamo incrociati altre volte, ma non siamo soliti a fermarci a chiacchierare. Invece questa volta è lui a farlo: “T’andrebbe di tornare laggiù?”.  Ci conosciamo appena, mai arrampicato assieme io e lui; dieci anni più di me; un carattere taciturno e schivo, con quel suo pizzetto da moschettiere, sandali aperti e sempre a piedi nudi anche in pieno inverno.

Certo, sì che voglio partire! Non aspetto altro. Ci sarebbe una via alla Poincenot: uno spigolo incredibile”, gli faccio io entusiasta. Decidiamo di rivederci nei prossimi giorni con qualche altra idea. In tre mesi potremmo già essere in volo.

Nella Patagonia del 1985 quasi tutto è da fare. Nel gruppo Cerro Torre-Fitz Roy sono poco più di dieci le vie aperte (oggi trecento!).

Mario e Renzo non lasciatevelo sfuggire! Il Pier Giorgio è un grande muro di una diga. Ragazzi, una hermosura increible”. Cesarino Fava è al suo primo ritorno a casa dopo tanti anni di vita argentina. L’avevo visto a Buenos Aires nel mio viaggio al Torre. Ora tornavo da lui, nella sua nativa Malè, per raccogliere nuove idee e parlargli dei nostri progetti. Ed è grazie a Cesarino, che io e Renzo maturiamo quest’altra idea. Dobbiamo fidarci delle sue parole e di un’unica foto pubblicata nel meraviglioso libro Andes Patagonicos di Padre Maria De Agostini. La foto, peraltro, è presa lateralmente.

Con Renzo dunque è deciso. Cerro Pier Giorgio. Due mesi via dall’Italia tra le montagne, con quest’obiettivo. Ci vediamo un paio di volte per i preparativi: la Wildnis di Roberto Giordani (poi Montura) ci fornisce sacchi da bivacco con la parte superiore in Gore-tex; e sempre grazie a Roberto riusciamo a farci applicare delle ghette alle scarpette d’arrampicata. Renzo si procura due piccozze con le punte intercambiabili: un lusso, l’unica nostra attrezzatura d’avanguardia. Il resto è il medesimo materiale usato sulle Alpi. Per me ci sono anche i primi scarponi in plastica Koflach, di colore blu.

Parque Nacional Los Glaciares. Il tempo è splendido. El Chaltén è la casa del guardaparco e una sola Hosteria, ed è chiusa. Ci registriamo, poi via! "Tutta" la Patagonia è nostra. Raggiungiamo il campo base a Piedra del Fraile in due giorni: ci mettiamo parecchio, non c’è sentiero. Ci sistemiamo alla meno peggio poi, prima dell’alba, in marcia veloci, gli zaini stracarichi, verso la parete nascosta. Costeggiamo il Lago Elettrico, quindi saliamo cercandoci il percorso migliore lungo le crepacciate del ghiacciaio che scende dal passo Marconi.

Finalmente eccola! Ecco la parete che da settimane abbiamo cercato di immaginarci. Le parole di Cesarino mi ritornano più azzeccate che mai: la parete è davvero un muro di una diga. Liscia compatta bella e grande. Mai nessuno l’ha salita: solo un tentativo dei Ragni di Lecco nel 1984, terminato dopo 200 metri (M. Ballerini, A. Valtolina). Renzo è venuto a saperlo pochi giorni prima di prendere il volo. Ci fermiamo su dei grandi sassi nel mezzo del ghiacciaio e stiamo lì a godercela tutta. È così compatta, vista da dove sediamo noi, che ci sembra fin troppo difficile. Ci sentiamo troppo piccoli per una parete così, noi due soli a fronteggiarla.

Gli sci ai piedi consentono un’avanzata veloce e in breve siamo sotto i canali che ci condurranno all’attacco della muraglia. Italia-Base parete del Pier Giorgio in 5 giorni. Forse è un record di velocità per quegli anni. Piazziamo la nostra tendina nel punto più basso della big wall, poi di nuovo su, per la rampa di neve, gli zaini pesantissimi.

Siamo stanchi, ma non possiamo fermarci ora. La roccia è bella e ben articolata, qualche pezzettino di ghiaccio cade ogni tanto dalla cresta sommitale. Facciamo due tiri, poi sfiniti scendiamo.

L’indomani mattina, le frontali accese e altro materiale da portare su, siamo di nuovo in pista. Se il tempo resistesse ancora per un po’, potremmo addirittura tentare la cima! Ce lo diciamo mentre solleviamo i pesanti zaini. Intimamente, però, entrambi speriamo in un po’ di brutto. Qualche giorno di riposo aiuterebbe. Ma fermarsi con un cielo così limpido sarebbe da pazzi.

La parete è via via più verticale. Chiodo, friend, dado, e avanti, verso l’alto. Le difficoltà aumentano. Oggi è il mio turno, domani toccherà a Renzo. Alle nostre spalle il Cordón Marconi. A sinistra, passo Marconi: è da lì che viene il brutto. Sotto, il ghiacciaio. Tutto è nel più totale silenzio. Siamo in due, noi due e basta, in culo al mondo. Non faccio che ripetermelo. Noi due e basta. In culo al mondo.

Abbiamo salito altri 100 metri. Ma ora il vento è forte. Il Cordón Marconi si è coperto di nuvole, poi è la volta del Passo. Decidiamo di portarci nuovamente alla base della parete, per partire l’indomani. Io spero proprio di no. Siamo sfiniti, abbiamo davvero bisogno di ricaricare le batterie: 12 ore di sonno spalmate negli ultimi tre giorni non sono sufficienti. Se domani è bello, però, non ci resta che attaccare! Quattro o cinque giorni, tra salita e discesa, e sarà fatta!, ci diciamo.

Le nostre quattro corde sono in parete, come pure il materiale. Tutto è pronto per il rush finale. Ma il vento non molla e per di più ha iniziato a nevicare. Il bello tornerà, pensiamo. Qualche tempo dopo infiliamo tutto in un saccone e, appesolo a due bei chiodi in parete, ci apprestiamo a scendere al campo base.
Dai! Restano altri 40 giorni. Altri 40 giorni, dai!

Più di venticinque giorni consecutivi, invece. Di maltempo. In una baracca di quattro tronchi, piena di spifferi, con poco cibo, e il morale che via via scivola sempre più sotto le scarpe. Ancora oggi mi chiedo come abbiamo fatto a resistere.

Il cibo scarseggia. Dopo già ben due settimane d’inattività al nostro campo base, Piedra del Fraile, la parola d’ordine è razionare. Sei galletas, un trocito de queso, un pezzettino di speck. Una porzione scarsa di riso o pasta. Il “top” sono le buste Enervit “sperimentali”. Quelle di prima generazione, per intenderci, che ancora non sono state messe in commercio. Sono precotte, dal sapore orribile oltre che dal poco invitante color verdino.

Chi cucina, o prepara il tè, è il più fortunato. Almeno per un po’ è indaffarato. Siamo affamati come lupi. Renzo s’è portato del peanut butter dall’Italia. Due etti in tutto che mi fanno una gola bestiale. Lo guardo mentre se lo spalma su d’una galleta con la punta del suo coltellino. Non so come abbia potuto farlo durare fino a fine spedizione. Non me ne ha mai offerto una briciola, e forse per questo gli è durato. Tanto tempo dopo ho capito che ognuno di noi ha sempre qualcosa da tenersi stretto nella propria tenda al campo base. Peccato che il mio diario allora non fosse commestibile!

Il vento ulula. Di notte sembra impazzito. Lo senti arrivare, un treno in corsa senza fermate. Arriva e travolge. Frulla tutte le cose. Poi se ne va. L’attimo dopo è il silenzio. E di nuovo, quel treno ritorna, a raffiche sempre più frequenti. Per un’infinità di giorni ed un’infinità di notti. Il bosco però ci protegge. Le foglie piccolissime di questi verdi giganti ci riparano dal vento, che poche volte riesce a passare attraverso le alte e ingarbugliate chiome degli alberi.

Dopo le prime due settimane di inattività, quando neppure i denti di cane raccolti da Renzo nel bosco (un lusso poter mangiare insalata!) riescono a lenire i morsi della fame, decidiamo di tentare il tutto per tutto e di portarci all’entrata del Parco. Finora non l’abbiamo mai fatto per paura che il bel tempo possa sorprenderci lontani dalla parete. Speriamo nell’Hosteria aperta, e in qualche acquisto commestibile. In sei ore ci siamo.

Intanto, nel Parco sono arrivate tre cordate. Al Fitz ci sono già gli austriaci per ripetere la via Californiana; anche Ermanno Salvaterra è lì per tentare la solitaria. Poi c’è Marco Pedrini per la solo ascent al Torre (che realizza a pochi giorni dalla nostra salita al Pier Giorgio).

Purtroppo l’Hosteria è chiusa. Sul rio Fitz Roy, però, stanno costruendo il ponte e, non so come, il cuoco al cantiere ci prende in simpatia. Quando, verso sera, ci offre la cena assieme a tutti gli altri operai, non ci pare vero. Un piatto unico! stufato di pecora, patate. Birra, tanta birra! e un montón di pane che cucina lui ogni giorno con le sue mani e che si ripromette di prepararci anche per l’indomani mattina, da portar via con noi.

All’alba il cantiere è deserto, il cuoco si è scordato del nostro prezioso pane. Lascio dei soldi sul tavolo grati per quella cena. Di nuovo in marcia verso il campo base, uno zaino vuoto di provviste se non per quei pochi panini che ho arraffato dal tavolo prima di partire. A Rio Blanco, gli austriaci, anche loro vittime del brutto, hanno deciso di gettare la spugna. Mi regalano però un pezzettino di speck: sarà il mio segreto, il mio peanut butter personale!

In queste tre infinite settimane di attesa, il vento porta i rumori più strani. Ed è in una di queste sere, quando anche il puma si rintana e il vento e la pioggia sono i padroni incontrastati della foresta, che sentiamo delle voci in lontananza. Voci di donne! Il vento e la fame giocano brutti scherzi. Abbiamo le allucinazioni. Poi il silenzio, quello dei treni che passano veloci ma molto vicini. E booom! la porta scalcinata della baracca si spalanca. E due ragazze alte belle incredibili! fanno la loro apparizione. Cosa si potrebbe volere di più, in questo sperduto culo del mondo? Non parlano italiano. Riciclando le bustine del tè, potremmo a malapena offrigliene uno. Loro vogliono asciugarsi davanti al fuoco; noi pensiamo a come renderci appena appena presentabili.

Sono almeno 25 giorni che non ci facciamo una doccia, anche se ogni mattina, con dell’acqua scaldata sul fuoco (acqua che ha un odore di fumo bestiale), proviamo a ripulirci un po’.  Il sogno dura poco, purtoppo non sono sole! Sono svizzeri e vogliono provare una via nuova sulla Mermoz.

I nuovi venuti hanno portato il bello! La mattina partiamo per la parete. Siamo preoccupati per lo stato del materiale da arrampicata, se mai riusciremo a trovarlo, là, appeso tutto sull’ultima sosta. Se si fosse rotta o sfilacciata una corda in queste tre abbondanti settimane di brutto, saremo costretti a tornarcene a casa.
Neppure il tempo di arrivare alla base della big wall ed è nuovamente brutto. Decidiamo di fermarci ad aspettare sotto la parete. Chi ha voglia di ritornare in baracca? a questo punto la odiamo. Scaviamo una truna a un metro dall’attacco della via. Ci restano solo sette giorni, poi ci toccherà levare le tende perché non abbiamo più cibo.

La notte in truna passa bene.  Fuori può nevicare, piovere, tirare vento, che non si sente nulla. Solo il fornellino a gas che scioglie la neve per il tè rompe il silenzio. Tra di noi non c’è molto dialogo. Siamo tutti due stanchi: in un mese abbiamo fatto 160-180 metri, poco più di quattro metri al giorno. Con questo ritmo, ce ne vorrebbero altri 150 per toccare la cima del Pier Giorgio! Novembre-dicembre–gennaio–febbraio–marzo… con questo incubo m’addormento. L’indomani c’è molto vento e dallo Hielo Continental sono in arrivo minacciose nuvole.

Decidiamo di partire. Constateremo le condizioni delle corde. Una è praticamente da buttare, le altre non sono male.

È il turno di Renzo. Lo vedo motivato, concentrato e carico in tutti i sensi. Dalla sosta appesa nel vuoto la roccia color oro è d’una compattezza incredibile, come per altro nei prossimi 10 tiri. Renzo si deve leggermente alzare in placca: mette un chiodino rovescio; gli scatto delle foto che spero rendano la bellezza di questa salita: scarpette in aderenza, mani sul niente. Duro! esclama. Ma passa. Risalgo la corda, schiodo e tolgo i vari friend e nut. In sosta, Renzo mi dice: “Sicuramente ben oltre il sesto”. Poi riparte per una nuova lunghezza, un’altra ancora. Supera alcuni tiri molto difficili in fessura leggermente strapiombanti. La verticalità e la qualità della roccia sono perfette. Alla nostra sinistra uno scudo compattissimo, a destra una lavagna liscia. Il futuro, penso.

Bivacco. Ci fermiamo su uno scalino roccioso che cerchiamo di allargare scavando un po’ coi martelli. Resta comunque incredibilmente piccolo. Il vento, alzatosi nuovamente, è fortissimo ora. Allestiamo la nostra tendina da parete in qualche modo, e ci sediamo dentro (per così dire). Ora è una vera lotta contro l’aria che ce la vuole strappar via. Accendere il fornellino è impossibile. Mentre uno mangia quel poco che abbiamo, l’altro tiene la tenda; e così avanti per una due tre quattro, dieci ore. Il telo si gonfia, è un pallone pronto a esplodere; poi, di colpo, quando il vento si placa, il telo si svuota su di noi come una potente ventosa, schiacciandoci contro la roccia. Siamo nel cuore della parete. Il vento non trova ostacoli: solo quel millimetrico velo, prima di infrangersi su di noi con tutta la sua potenza.

Non deve strapparsi. Il telo non deve strapparsi! Ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta---- avere l’orecchio sulla canna di una mitragliatrice sarebbe lo stesso. Non riusciamo a parlarci, tanto è il fragore. C’è solo da aspettare che il vento passi. Per rendere la piazzola più comoda, sotto il culo, fuori della tenda, ho posizionato le nostre uniche due corde buone. Non ricordo se le ho fissate bene però. Fissate sì, bene non so. Perciò, con una mano tengo il telo, con l’altra le corde. Non credo si sia dormito più di dieci minuti a testa, ma l’alba arriva. E mai mi pare più bella. Anche il vento, dopo un’iniziale pausa, ha ripreso. E nonostante il sole, arrampichiamo con addosso tutto ciò che abbiamo.

Le fessure parallele splendide, ben visibili dal basso, ora sono sotto i nostri piedi. La roccia è sempre d’una compattezza incredibile, mentre il vento più intenso schiaffeggia le nostre corde appese in sosta: danzano nel vuoto, una volta orizzontali; un’altra sono rigide pertiche di ferro perfettamente tese sopra le nostre teste. Temiamo possano incastrarsi.

Lasciamo il pilastro, direttiva della nostra salita, per entrare in un camino diedro. Speriamo sia la soluzione giusta. Superatolo ci troviamo su una rampa di neve e ghiaccio di una settantina di metri. Riusciamo a scavare uno scalino per piazzare la tendina. La notte passa meglio della precedente.

La cima sembra lì a portata di mano, 200 metri circa. I tiri sono ora più facili. Riesco a salirli con gli scarponi. La temperatura si è abbassata notevolmente. Devo entrare e arrampicare in questo grande camino con alcuni passi ricoperti di verglass; poi un traverso bagnato duro che faccio con le scarpette. Sbuco sulla lunghissima cresta caratteristica del Cerro Pier Giorgio: una serie di vette come fosse la lama di una sega.

Di fronte a me l’immensa Nord del Fitz Roy, perfetta, e al centro la Supercanaleta. Con Renzo percorriamo gli ultimi metri e tocchiamo la “nostra” cima (cfr. Nota). Tutto attorno a noi è “tappato”: Cerro Torre, Hielo Continental, Cordón Marconi. Solo sul Fitz brilla il sole.

Bivacchiamo nuovamente in discesa: Renzo avvolto in quel che resta della tendina; io nel sacco da bivacco venti metri sotto, dopo aver malauguratamente perso nel vuoto una delle piccozze di Renzo.

L’indomani siamo fuori della parete. Non ci fermiamo alla truna; continuiamo a scendere nel diluvio e nel solito vento. Campo base a notte fonda.

Nei due giorni successivi, gli svizzeri ci aiuteranno parecchio. Abbiamo le mani levigate dal granito e dolorosissime. La seconda sera, per cena c’è una fantastica polentina di mais portata dall’Italia, con contorno di sponziole, le spugnole che Renzo aveva raccolto prima di salire in parete.

Mentre Renzo decide di fare il giro dello Hielo Continental, io riposo un altro giorno. Poi risalgo a recuperare l’ultimo materiale rimasto in truna. Il ghiacciaio è più crepacciato, devo cambiare il percorso dalle volte precedenti. A notte fonda sono di nuovo al campo base, per cena l’ultima busta Enervit.

La cordata svizzera (Vicent Banderet, Peter Maillefer), dopo un tentativo alla Mermoz per una linea nuova, firmerà in tre giorni in stile alpino la prima (e ad oggi unica ripetizione) della nostra via, salendola quasi tutta in libera con difficoltà fino al 7a.

Greenpeace
Parete Nord Nordovest Cerro Pier Giorgio, 700 m VII A1, Renzo Vettori e Mario Manica, novembre 1985.

- Mario Manica, Rovereto

NB: La prima salita del Cerro Pier Giorgio veniva erroneamente attribuita ai fratelli argentini Skvarca nel 1963, lungo la parete sudest. Nessuna delle vie esistenti ad oggi, incluse quelle sulla parete nord nordovest, raggiunge il culmine più alto del Pier Giorgio. La cima “vera e propria” verrà raggiunta da Rolando Garibotti e Colin Haley nel 2014 lungo la parete est.




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