I gradi… che casino!

Breve storia dei gradi e perché ci fanno tanto dannare. Di Andrea Giorda.
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Andrea Giorda su Ipogeo 7c+ alla falesia del Pulpito (Valle di Susa) 2019
Valentina Saggese

LIBRO DICE… GRADO E’… non è un vecchio proverbio degli indiani Sioux, ma a tutti noi sarà successo di stanare un grado a vista che non ci è mai riuscito, ma davanti agli amici increduli mostriamo la guida locale che dice 7b…!

Mai come in questi anni il grado di un monotiro è stato così importante e determinante, non è sempre stato così. E soprattutto il concetto di grado è cambiato nel tempo.

Per esperienza personale, quando ho iniziato a scalare, non nel Giurassico ma intorno al 1970, era in voga la scala la Scala Welzembach, che prese il nome dal fortissimo alpinista della Scuola di Monaco morto nel 1934 sul Nanga Parbat. Wilhelm "Willo" Welzenbach inventò, oltre al primo vero chiodo da ghiaccio (!) anche la classificazione dei gradi che arrivano fino al VI superiore, definito come "Il limite delle possibilità umane"! E bravo Willo, da te iniziano i casini! Chi stabilisce il limite delle possibilità umane? Che misura è?

Allora come adesso non vi è nulla di oggettivo nell’attribuzione di un grado di una via, un piccoletto grada sesto un passaggio che un lungagnone manco considera, arrivando alla presa buona da un marciapiede. E poi, messa così, chi mai si osava a scrivere VI o VI + sulla relazione di una nuova via? E’ il problema che avevamo noi negli anni ’70, quando la scala delle difficoltà era rigorosamente chiusa.

Quando si faceva un passaggio durissimo, al limite, si scriveva V+, perché anche se l’autostima non ci mancava, immaginavamo che qualcuno al mondo più bravo di noi ci fosse! Lui si, poteva mettere VI+ ma noi chi eravamo per farlo? Ecco svelato il primo mistero dei gradi… dati in lire, quelli degli anni ’70 e che tanto stupiscono gli attuali ripetitori. Non è che eravamo più bravi…avevamo la scala chiusa!

Chi ha compilato le guide in anni recenti ha pedestremente tradotto i gradi indicati dai primi salitori con quelli della scala francese. V+ è uguale a 5a ! Ecco compiuto il misfatto e spiegato perché uno che scala ora bene sul 6b si ribalta e casca a volte su un vecchio V+.

Non solo, ma perché i 5c o i 6a dei primi anni 80 sono terribilmente ostici, vedi quelli di Finale Ligure per esempio? Chi apriva quei tiri, aveva ben idea di quanto fossero difficili i vecchi V+ sui quali aveva imparato a scalare e quindi prima di dare un 5c che corrisponde al VI grado doveva pensarci bene. Ora un 5c è considerato un entry level che si concede appena la roccia, a generosi manettoni, si drizza un pochino. Si è persa la memoria!

Se andate in Dolomiti e fate i quarti, i quinti e non dico i sesti degli anni ’30 capite subito di cosa stiamo parlando. E se volete prendere mazzate e buttare le scarpette …cari signori del 6c lavorato... fatevi la Wiessner und Rossi alla sud della Fleischbank nel Kaisergebirge (Austria), anno 1925! Fidatevi e lasciate perdere…a nche perché quei signori mettevano se va bene un chiodo al tiro!

Gli anni ’30 del ‘900 sono il periodo in cui si mette a punto la scala delle difficoltà che durerà fino agli anni ’70. Conservo con grande cura una copia del famosissimo libretto di Domenico Rudatis del 1935 anno XIII dell’era fascista, intitolato "Il riconoscimento e il regno del sesto grado" con dedica a Vittorio Cottafavi che recita… "con alpinistica cordialità D. Rudatis".

Rudatis, personaggio complesso, esoterista e futuro pioniere della tv a colori, era un ottimo alpinista che si legò con i fortissimi dell’epoca e come un farmacista si mise a teorizzare cosa fosse il sesto grado. In estrema sintesi, il concetto di sesto grado non era legato ad un singolo passaggio, ma solo una via lunga, costantemente impegnativa, poteva essere data di sesto grado. Pietra di paragone era la mitica via Solleder - Lettenbauer del 1925 sulla "Parete delle Pareti", i 1150 metri della Nord Ovest della punta Civetta nelle Dolomiti bellunesi.

I tedeschi, avendo beffato gli Italiani a casa loro, lasciavano ad intendere che solo gente della loro razza potesse scalare pareti al limite delle difficoltà (di VI grado appunto), e mai e poi mai lo poteva fare il popolo del paese dei limoni e della pasta.
Dino Buzzati, grande giornalista, scrittore e alpinista, a proposito della Solleder in Civetta nel libro "I Fuori legge della montagna", scrive in virgolettato "Non è pane per i vostri denti" dicevano gli alpinisti tedeschi ai colleghi d’Italia.

Si aggiunga anche qualche ruggine, dal fatto che la prima guerra mondiale era finita da poco, e i tedeschi erano un popolo umiliato in cerca di riscatto. Di li a poco il Nazismo nascente, farà degli alpinisti i campioni della razza, emblematica è la corsa alla parete Nord dell’Eiger.

Rudatis oltre che a teorizzare il sesto grado, voleva dimostrare a sua volta la supremazia italiana e conclude il libretto con queste parole "Salvo tre, le conquiste di sesto grado effettuate fino al 1934 sono tutte italiane e ad esse si aggiunge ancora nel luglio del 1935 la dodicesima (via) Italiana ad accentuare il primato mondiale nel regno del sesto grado" ... e ringrazia gli scalatori bellunesi e agordini, tra tutti Attilio Tissi e i fratelli Giovanni e Alvise Andrich.

Rudatis, vecchissimo, a 96 anni, finì i suoi giorni in America a New York… lontano dalle sue Dolomiti, ma noi questa roba ce la siamo portata dietro fino agli anni 70! C’è da dire che il livello di quegli scalatori era a dir poco stupefacente, con il mio compagno Pietro Crivellaro, anche per capire la storia nel 1984 ho ripetuto la Solleder in Civetta con tanto di bufera, nevicata ad agosto e caduta costante di pietre. Il primo passo, quello chiave è dopo appena centocinquanta metri, una fessura larga e friabile, non proteggibile e resa scivolosa da una terra rossa. Immaginare di salirla con corde di canapa e scarpe di feltro lascia intuire che pelo nel 1925 avessero quegli alpinisti, tedeschi o italiani che fossero. Rudatis scrisse pure che sopravvivere a un temporale su quella parete era come scampare a un bombardamento della prima guerra mondiale. Io e Pietro confermiamo, l’abbiamo presa sottogamba partendo con il brutto in arrivo, noi campioni delle Alpi Occidentali e a momenti ci lasciamo le piume. Chi diceva che le Dolomiti son poco più che paracarri?

La mia formazione da ragazzino era basata su libri come quello di Aurelio Garobbio del 1956 "Uomini del Sesto Grado". Inutile sottolineare l’effetto che un titolo del genere poteva generare nella bacata ed esaltata testa di un adolescente. Divoravo quei testi, scritti con enfasi, con parole come assalto e conquista, quasi si narrasse di una guerra e non di gente che scalava.

Lo stile di Garobbio è ancora quello del ventennio fatto di eroi sprezzanti del pericolo. Nella controcopertina si legge "Aggrappati sul vuoto sovente coi soli polpastrelli delle dita, con un sapiente gioco di chiodi, cunei, moschettoni, staffe, corde doppie e triple, gli uomini del sesto grado conquistano pareti ritenute inaccessibili, muovendosi oltre la verticale su tetti e strapiombi, quasi sovvertendo le leggi di gravità. Nella ricerca della via più diretta, quella della goccia cadente. Ogni manovra è improntata da una superiore armonia, senza la quale fallirebbe: è la danza sugli abissi!"

Poi per fortuna, a salvarci da questo delirio, spuntò un libro rivoluzionario di Reinhold Messner con un titolo semplicissimo ed eretico … "Il 7° grado". Edito a Monaco nel 1972 ed uscito in Italia nel 1974, credo di essere stato uno dei primi ad averlo comprato….

Messner per la prima volta affronta la necessità di codificare le nuove difficoltà superate e ancor più importante pone la questione di separare l’artificiale dall’ arrampicata libera. Banale direte voi, increduli tiratori di prese di resina… ma nel mio libro di Garobbio il sesto superiore è chiaramente anche un tetto superato in artificiale (!), nel primo capitolo Tempo nuovo-Nuovo volto si legge "Ferraglia, tira molla, staffe, cunei, chiodi ad espansione possono anche dare il senso di una profanazione… Non scandalizziamoci: difficoltà estreme si vincono con estremi mezzi. Si può eccedere in buona fede. Il sestogradista non considera tali manovre fine a se stesse, ma il mezzo per portare all’amore dei monti il più gioioso tributo!"

Quando vi appicciate e tirate uno spit, secondo Garobbio è per amore (Santuomo)….saremmo stati tutti assolti se Messner e il vento del "by fair means" (come già disse Albert Mummery fermato sul Dente del Gigante) non avesse persuaso i giovani della nuova generazione a rimettere al centro un gioco leale tra roccia e uomo.

Ma non si creda che il percorso sia stato semplice, molti gradi dati negli anni ’70 sono dubbi, perché a volte tirare un chiodo con le mani non era considerato artificiale, personaggi come Gian Carlo Grassi e coetanei non ne hanno mai fatto mistero. Si aggiunga che organi ufficiali come l’UIAA, non ne volevano sapere di aprire in alto la scala delle difficoltà.

Enrico Camanni, mi raccontò che quando alla Rivista della Montagna arrivò scritto a mano il testo di Ivan Guerini sul Precipizio degli Asteroidi in Val di Mello, ci volle l’intervento diretto di Gian Piero Motti per pubblicarlo con scritto "settimo grado" per il tiro chiave, nel mondo paludato e bacchettone degli alpinisti sembrava una eresia, ed era il 1977! L’altro ieri.

La mia generazione è quella che già nella seconda metà degli anni settanta ha incominciato a distinguere la scalata libera da quella artificiale, considerando tale anche solo l’aiuto di un chiodo senza staffe. Salire una fessura della Valle dell’Orco coi cunei e le staffe o con le mani incastrate mettendo due nut al volo era cosa assai diversa. Per poi arrivare ad una vera e propria codifica con la nascita dell’arrampicata sportiva, resa possibile dalle protezione fisse, gli spit. Il concetto di resting non fu subito adottato da tutti, ma già alle gare di Bardonecchia del 1985 era ben chiaro che riposarsi su un chiodo era un aiuto che alterava la prestazione. Aimè ci han tolto anche quello, rassegnatevi.

Nel Nord Ovest, negli anni ’80 hanno preso piede i gradi francesi 6a, 6b ecc, in Dolomiti e paesi di lingua tedesca spesso si usa ancora la scala Welzembach aperta… con VII, VIII grado ecc.

Gli inglesi restii agli spit hanno introdotto una scala che tiene in conto l’ingaggio, il rischio complessivo di un tiro di qui i famosi E1, E2… E9 associato al grado massimo della via espresso in gradi inglesi (da non confondere coi francesi). Esempio E2 6a…avendoli sperimentati durante un meeting di arrampicata Trad in Galles vi assicuro che è meglio non sottovalutare quei numeri! Su un misero E1 ho pregato tutti i santi di non cadere…

Veniamo ai nostri giorni, dove il grado è diventato il motivo principale di conquista, non importa se il grado è farlocco o se il tiro è brutto e sotto il viadotto di un’autostrada. Come i pescatori a fine giornata elenchiamo i gradi fatti. Taciamo dove abbiam preso mazzate… o diciamo che si ci siamo appesi… ma il tiro l’ abbiamo capito (!?). Frase sibillina che lascia aperte tutte le ipotesi.

La discussione sul grado è l’argomento principale di conversazione, dimenticando che il grado ha ben poco di oggettivo ma è dato a senso. Frasi come "su quel 6b cascano quelli che fanno il 7a a vista" che significato hanno? Se non che il grado è sbagliato.

Se voi chiedete a chiunque nel mondo chi è sceso per primo sotto i 10 secondi nei 100 metri, a qualsiasi latitudine vi diranno due parole... un nome e un cognome, non vi è interpretazione o discussione. In qualsiasi città o valle se chiedete chi è stato a fare il primo 6a, vi indicheranno per ogni luogo un omino diverso di cui mai nessuno ha mai sentito parlare e diamo per scontato che ognuno è in buonafede e valuti il 6a allo stesso modo. Ma la stessa Storia dell’alpinismo "universale" ha una base dubbia per sua natura, e spesso campanilistica. Se leggete una versione Italiana, francese o tedesca sono nettamente differenti e troverete in ognuna personaggi chiave… che nelle altre non sono neanche citati. La stessa storia delle scalate è in fondo un elenco di autodichiarazioni, spesso veritiere… frequentemente opinabili e a volte palesemente false. Poi ci sono personaggi che han fatto cose straordinarie ma nessuno le ha mai raccontate.

Oggi se non altro nelle attuali gare indoor chi è il più forte si vede ed è senza discussione. Se era più forte Cassin o Gervasutti non lo sapremo mai, possiamo discuterne all’infinito.

Ho scritto questo pezzo perché molti giovani che incontro in falesia credo non sappiano da dove vengano i gradi che tanto li fanno dannare. I gradi non sono un valore assoluto, ma pur sempre una interpretazione.

Dopo questo discorso penserete che sono ormai in climaterio immune dal tarlo del grado? Beh anche io e i miei amici ci danniamo lavorando tiri per strappare il numerino da esibire. E’ un gioco divertente è inutile negarlo.

Nessuno sport ha avuto una accelerazione come l’alpinismo/arrampicata negli ultimi 50 anni. Nel 1972 quando facevo le prime vie René Desmaison ci mise una settimana a scalare il Linceul alle Grandes Jorasses, 10 anni dopo nel 1982 Jean-Marc Boivin impiegava 2 ore e 45 minuti. Mio padre è nato nel 1926 epoca d’oro del VI grado e ha smesso di scalare nel 1976 per lui nulla era cambiato. Io ho iniziato a scalare con il VI grado negli anni ’70 e ora siamo al 9c, il XII+.

Ma quello che è più difficile far capire ai giovani ora, è che fare un tiro di 8a adesso è forse molto più semplice di certi V+ fatti negli anni ‘70. Un giovane istruttore candidamente mi ha chiesto che gradi facevano alle gare di Bardonecchia nel 1985 e quando ho detto, intorno al 7b, mi ha detto deluso… ma allora potevo farle anche io… ho pensato che quelle gare sono state vinte da Stefan Glowacz e Catherine Destivelle e chi cazzo era lui… ma mi sono ravveduto, gli ho sorriso e gli ho detto… probabilmente sì! C’est la vie.

Andrea Giorda CAAI – ALPINE CLUB UK




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