Valle dell'Orco - Generazione Sitting Bull: alle origini dell'arrampicata trad

La prima di tre puntate in cui Andrea Giorda ripercorre la storia dell’arrampicata in Valle Orco tra la fine degli anni ‘70 e l'inizio degli anni '80.
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Valle dell'Orco: Gianni Battimelli sul Caporal, 1982
Gianni Battimelli

Per caso emerge da un libro di Andrea di Bari, di recente pubblicazione, il ricordo di una Baita in Valle dell’Orco che è stata tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80 un laboratorio di giovani che scoprivano l’arrampicata moderna. Le star del momento da J.M. Trussier a Patrick Edlinger a Manolo, Roberto Bassi e Marco Bernardi sono tutte in Valle dell’Orco… questo è il racconto di quelle giornate e di quella generazione che negli anni ’70 aveva vent’anni e sognava la scalata libera.



La Baita di Sitting Bull riemerge dal passato
"Il fuoco nell’anima" è il titolo evocativo dell’autobiografia di Andrea Di Bari uscita nel 2017, dove racconta in modo avvincente il suo testardo riscatto dalle periferie romane attraverso l’arrampicata e la montagna. Vi è un capitolo incentrato sulla Valle dell’Orco, siamo nel 1982 e così narra…

"Le strade del quartiere mi furono sempre più indifferenti con le loro storie sempre uguali. Mi allenavo alla sbarra e arrampicavo tutte le volte che potevo. Facevo buoni progressi.
Mi giunse a puntino una proposta da Gianni Battimelli per scalare sul granito della Valle dell’Orco.
Avevo sentito parlare di questa valle valorizzata dal Mucchio Selvaggio piemontese, un gruppo di fortissimi arrampicatori… capivo che non sarebbe stato un viaggio nella geografia, ma in un pezzo di storia importante."


Di Bari racconta che in seguito ad un passaggio dato da Enrico Camanni i romani raggiungono da Torino la valle e si insediano in una baita isolata.

A volte la storia sonnecchia poi a caso fa capolino e ci induce a volerne sapere di più. La storia della Valle dell’Orco, in particolare, suscita a distanza di anni sempre un grande interesse. Sono vicende che ormai hanno quasi cinquant’anni e stupisce vedere sale piene di giovani quando mi capita di essere invitato a parlarne. Anche libri recenti come "Verso un nuovo mattino" di Enrico Camanni sono stati un successo non per vecchi nostalgici ma per giovani che vogliono sapere.

Dopo una rapida indagine con Gianni Battimelli scopro che la Baita citata da Di Bari è quella che era conosciuta da tutti come la Baita di Sitting Bull. Non solo, ma Gianni ha conservato le foto di quei giorni che rappresentano un prezioso documento perché la Baita non esiste più, distrutta per sempre per costruire una villetta. Con la distruzione della Baita e il dileguarsi dei protagonisti se ne era quasi persa la memoria.

Frequento la Valle dell’Orco da quando ero piccolo, mio padre lavorava all’AEM proprietaria delle dighe e quando alla fine degli anni ’70 scoprii e scalai la fessura di Sitting Bull me ne innamorai a tal punto che presi in affitto la baita a pochi passi dalla parete. Mi fu facile, perché per un caso fortunato il proprietario era Leandro Nigretti un dipendente AEM, mi conosceva da ragazzino e me l’avrebbe data gratis ma sua moglie fiutò l’affare e mi chiese una cifra alta per uno studente come me, quattrocentomila lire all’anno. Non mi persi d’animo e cercai soci che presto arrivarono Mario Ogliengo, Marco Degani ed Enrico Pessiva.

In particolare Mario ed io facemmo molti lavori per renderla abitabile, obbligavamo chiunque ci venisse a trovare a portare su almeno mezzo sacco di cemento a piedi perché la strada non arrivava, regola valida per tutti anche per le sventurate ma robuste fidanzate.

In breve divenne popolarissima e visto che dove mettevamo le chiavi non era un segreto, era sempre piena, anche a nostra insaputa. Sono passati scalatori di ogni dove, italiani e stranieri famosi, famosissimi e sconosciuti che ancora oggi si ricordano quella baita messa in un posto idilliaco, al sole anche in inverno, sopra una rocca, circondata dai prati e a due passi dalla mitica Sitting Bull. A vent’anni puoi desiderare di più?

Gli anni del mito 1972-1982
Torniamo al nostro racconto, Gianni Battimelli l’avevo conosciuto nel 1980 in Brenta sulla via Detassis alla Brenta Alta, lui era con Massimo Frezzotti, io con Piero Crivellaro. Gli parlai della Valle dell’Orco, delle fessure, della Kosterlitz e di Sitting Bull e quando venne gli misi a disposizione la mia Baita. Gianni è un po’ il Gian Piero Motti di Roma, figura storica e intellettuale di riferimento per più generazioni di laziali, ma anche ottimo scalatore, nel 1982 salì la fessura Kosterlitz davanti ad un incredulo Di Bari.

Sicuramente in moltissime zone d’Italia avveniva quello che succedeva in valle Orco. Cento nuovi mattini di Alessandro Gogna è una preziosa documentazione in proposito, ma una serie di fattori hanno contribuito più che altrove a creare il mito nella Valle di Ceresole. Tutti, italiani e stranieri, vogliono scalare ancora oggi le vie che sono state aperte nel decennio d’oro, 1972-1982.
Ognuno di noi è debitore alla prima generazione quella di Motti, Manera, Grassi che ha scoperto le pareti della Valle dell’Orco e ha aperto vie indimenticabili come Tempi Moderni, La Rivoluzione ecc. Motti per primo ci spiegò che non erano palestre di arrampicata, ma pareti vere, difficili, che semplicemente non portavano su una punta da conquistare. Finivano nei prati, così come El Capitan in Yosemite.

Ma a partire dal 1974 con l’arrivo dalla Valle di Susa di Danilo Galante e Roberto Bonelli inizia un nuovo corso, un nuovo modo di scalare. Nascono vie come La Fessura della Disperazione o il Diedro del mistero dove si metteva una protezione poi bisognava correre.

Il livello di alcuni giovani in tutta Europa era enormemente cresciuto e il desiderio di scalare il più possibile in libera su vie nuove o su quelle del passato era prepotentemente venuto alla ribalta. E’ significativo che anche uno scalatore famoso come Manolo, abbia scritto ora un libro di 400 pagine Eravamo Immortali tutto su quegli anni, i suoi vent’anni, e il racconto si ferma nei primi anni ’80 quando pianta un po’ riluttante il suo primo spit, all’alba della scalata sportiva.

Generazione ‘70
E’ normale avere una visione romantica ed edulcorata dei propri vent’anni ed occorre farci sempre la tara, ma è indubbio che chi come me ha avuto vent’anni negli anni ’70 si è trovato in un mondo che cambiava a velocità esagerata. Già ma cosa caratterizzava quel tipo di scalata?

Ecco, questo è il punto, non semplice da intendere oggi per chi è abituato a scalare con gli spit o i friend di nuova generazione. La storia dell’arrampicata non è un divenire lineare, ma è indubbio che in particolare nella seconda metà degli anni settanta, come spiega bene anche Manolo, quando non era possibile proteggersi, grazie al livello raggiunto, si facevano lunghi anche lunghissimi tratti sprotetti su gradi che rasentavano il 7a. D’altronde se si guardano le foto del tempo, anche quelle dei Cento nuovi Mattini, si vedono grandi laschi oggi inimmaginabili e possibili solo grazie alla grande padronanza del grado.

Il motivo per cui le fessure divennero così popolari negli anni ’70 è perché si potevano scalare in libera e davano un senso di protezione rispetto alla placca aperta. Ma fare 7, 8, 10 metri ansimanti in una fessura senza poter mettere nulla era la norma, i Friend non esistevano, i primi, pochi e rudimentali apparirono negli anni’80, cunei e bong non si volevano usare in nome del Clean Climb e restavano i nut e gli hexcentric, sezioni di tubi esagonali con cordone che però si incastravano solo se c’era una strozzatura e spesso si levavano nel più bello finendo in fondo alla corda. C’erano i chiodi per le soste, ma si cercava di non usarli in progressione, in favore dei nut.

I tiri di fessura dalla generazione precedente erano spesso superati in artificiale con cunei di legno, storica è la Via dei Cunei al Bec di Mea in Val Grande di Lanzo aperta da Motti, Grassi, Manera e soci. Mike Kosterlitz e il vento del modo britannico mutarono la visione e la valle dell’Orco era il luogo perfetto per misurarsi con quel tipo innovativo di scalata, che presentava comunque grandi rischi e azzardi.

Se vogliamo trovare delle similitudini con il Trad climbing britannico, questo tipo di scalata della seconda metà degli anni ’70 è quello che più gli si avvicina. Ho scalato in Galles a Llanberies, Tremadog e Gogarth con mitici personaggi come Pat Littlejohn e Steve Findlay e stando alle loro rigide regole ho avuto modo di capire che il nostro tentativo di evoluzione e le nostre rudimentali attrezzature, nut ed hexcentric, venivano proprio da lì, dal mondo anglosassone.

Certo il Trad Climbing moderno è rigidissimo sui resting, ma come dice sempre Manolo nel suo libro noi non ne conoscevamo ancora il significato, nessuno l’aveva codificato, ma avevamo ben idea che tirare un chiodo anche senza staffe non era scalare in libera e per noi della Valle dell’Orco mettere un nut era più puro che mettere un chiodo.

La Baita di Sitting Bull, un laboratorio avveniristico.
La Valle dell’Orco è stata per alcuni anni uno straordinario laboratorio. La Baita di Sitting Bull era il centro operativo, il riferimento per i local e per chi veniva da fuori. Una parte della Baita venne poi affittata anche da Rinaldo Sartore, per cui era un via vai di gente, di idee, con lo spirito e l’adrenalina dei vent’anni.

Si scalava, si discuteva e si sperimentava di tutto, si era informatissimi sulle novità, sui materiali sulle cronache alpinistiche, il primo otto o Clog (discensore) lo usammo io ed Enrico Camanni arrivato in prova alla Rivista della Montagna, tenevamo un diario della Baita dove ognuno poteva scrivere la sua, ne conservo ancora alcune pagine molto divertenti.

Si scalava con scarpe da ginnastica, Airlite ed EB Super Gratton. Sui massi intorno alla Kosterlitz e nel vallone del Carro si provavano passaggi al limite. Mario Ogliengo che era il più moderno e meno ortodosso, mise anche il primo rudimentale spit sulla placca del Cacao, io ero contrario, un talebano, ma feci le foto a lui e a Luisa Dusi. Sempre Mario ci trascinava a turno sulla via dei Califfi al Sergent, emulando l’artificiale estremo di Jim Bridwell, ma le nostra attrezzatura, chiodini piatti, era assai misera e così la progressione non era certo quella dei nostri miti californiani, Valerio Folco molti anni dopo farà progressi straordinari.

Si ripetevano anche le vie esistenti sfidandoci sui tempi di percorrenza. Con Giovanni Bosio, straordinario scalatore, che purtroppo seguì nel destino Gian Piero Motti scalammo la via del Sole Nascente a tempo record in meno di due ore, quando ancora aveva pochissime ripetizioni e Roberto Perucca, finito di scalare voleva spesso chiudere la giornata con una Fessura della Disperazione, come un digestivo, non so quante volte l’abbia salita, a volte io con lui. Era inguardabile, non metteva praticamente nulla tanto la conosceva, una volta lo seguii, vedevo poco a causa di una allergia agli occhi da graminacee, aveva unito due tiri per fare in fretta che veniva buio. La via come si sa è in traverso, se cascavo facevo il buco per terra, e chissà come e dove aveva fatto la sosta!

Anche le donne finalmente non erano più comparse, oltre a portare sacchi di cemento, Luisa Dusi e Anna Caudana erano buone scalatrici e Anna in fessura se la cavava molto bene. La più forte però era Paola Mazzarelli, che fece per prima la Kosterlitz davanti a tanti uomini pretendenti, Paola scalò poi anche in Gran Bretagna e credo fu la prima donna italiana a fare quella esperienza.

In Valle si incontravano scalatori noti, vicino alla fessura per P.A. vidi Jacopo Merizzi fresco delle novità in Val di Mello e gli chiesi cosa ne pensasse della Valle. Ne disse bene ma anche che in Val di Mello c’era ancora più roccia da scalare... ero stato più volte da loro e forse non aveva torto, ma lo stile era diverso, si sa che il livello dei Mellisti sulle placche era da paura.

Da noi ovviamente c’erano le fessure, erano come il Sacro Graal, ne eravamo sempre alla ricerca. Chiunque venisse alla Baita, dopo la benedizione sulla Kosterlitz veniva messo alla prova su Sitting Bull, era una giostra divertente dove ci si sfidava anche con grandi risate e nel contempo si progrediva nella tecnica

Si scalava in ogni dove, alla ricerca ognuno della via perfetta, la difficoltà era in secondo piano, lo stile e la bellezza dei tiri contavano molto di più. Per anni si son trovati e ancora oggi si trovano vecchi chiodi ovunque. Adriano Trombetta che molti anni dopo esplorava le pareti ne scovava e mi chiedeva chi poteva averli messi, era assetato di vecchie avventure.

Un caso emblematico, ma non unico, è la parete dell’Inflazione Strisciante, una parete apparentemente di secondo piano dove sia io che Gabriele Beuchod avevamo individuato un magnifico diedro giallo visibile dai tornanti di Noasca. Nel 1979 con un amico mi decisi ad andare a vederlo e lo raggiunsi ravanando per cenge. Ne venne fuori un unico tiro di grande difficoltà, la scalata più difficile in libera che avessi mai fatto con i miei pochi hexcentric e la chiamai in modo anonimo Diedro Maggiore. L’anno successivo scalai un altro diedro poco più in basso e poco più facile ma (ancora oggi) difficile da proteggere coi nut, il Diedro minore. In seguito denominai Diedro atomico quello principale. Gabriele scalò sulla parete altre belle linee rimaste sconosciute. Tutto si perse nell’oblio fino a che dopo decine di anni andai per curiosità a rivedere il mio diedro e lo trovai imballato di spit! Credo che proprio Adriano sia andato poi di nascosto a levare gli spit, era affascinato da quella linea e voleva conservarne la purezza originale. Grazie ad Adriano oggi il Diedro Atomico è uno dei tiri trad più significativi e ambiti della Valle, un riferimento per chi vuole provare il livello di scalata in libera della fine degli anni ’70, anche se per immedesimarsi del tutto bisognerebbe lasciare giù i Friend e armarsi di due o tre hexcentric! Altri scalarono il Diedro atomico dopo la mia apertura, di sicuro Gabriele Beuchod, Roberto Perucca che amava quel tiro, e credo Rinaldo Sartore.

Valle Orco chiama Verdon
Alla fine degli anni ‘70 inizio ‘80 le gole del Verdon erano il più importante teatro europeo dell’alta difficoltà, molti di noi ci erano stati cavandosela degnamente. Marco Bernardi e Manolo in particolare si erano confermati su quelle vie ai massimi livelli della scalata in Europa.

Grande fu la sorpresa della presenza di Jean Marc Trussier e Bernard Vaucher in Valle dell’Orco, per noi erano dei miti del Verdon di cui leggevavamo le gesta su Alpinisme e Randonnèe, rivista all’avanguardia nata nel 1978. Per capire chi erano e cosa capitava in quel canyon della Provenza, leggete il libro uscito qualche anno fa, I pazzi del Verdon.

J.M. Trussier venne in valle e fece un primo articolo "La Yosemite Italien" sulle prime vie classiche e basato sulla guida di Gogna e Motti del 1980. Incontrò Mario Ogliengo, che gli raccontò il nostro nuovo modo di scalare, e gli indicò alcune novità, Sitting Bull, l’Orecchio del pachiderma, la via dei Califfi al Sergent, il Cacao, le vie liberate da Marco Bernardi e tante altre. Trussier informò l’amico Philippe Macle che venne in valle e fece un secondo articolo nel 1982 su Alpi Rando con un report dettagliato ed entusiasta e la nostra Baita divenne in francese la Bergerie Retapee!

J.M.Trussier nel primo articolo facendo riferimento alla prima generazione della Valle dell’Orco nota che l’arrampicata libera non è la principale preoccupazione di chi apre, anche per la difficoltà di proteggersi nelle fessure. Ma solo due anni dopo il titolo del nuovo articolo è "Libre a l’Italienne", facendo entrare ufficialmente la Valle nel ristretto novero dei luoghi europei dove era in atto la rivoluzione dei giovani scalatori.

Per noi fu un bel riconoscimento, l’incontro casuale con Mario aveva fatto cambiare idea ai francesi, e ci aveva proiettati sulla grande ribalta internazionale. L’articolo riportava nei dettagli anche le nostre vie, Mario stesso era citato. In valle vennero anche Patrick Berhault e Patrick Edlinger per la pubblicità di una ditta di abbigliamento, Edlinger scalò la Fessura della Disperazione proteggendosi poco o niente, liberò il Totem Bianco e aprì la Fissure du Panetton.

In quei giorni del 1982 citati da Di Bari c’era un grande affollamento alla Baita oltre a noi titolari, ospitavamo i romani con Battimelli e Di Bari, Enrico Camanni, Gerad Sallette, Pietro Crivellaro, Roberto Perucca, Anna Caudana, Luisa Dusi, Lella Casalone e tanti altri, un porto di mare. Con i furgoni in Valle c’erano Alessandro Gogna, Annelise Rochat, Franco Salino, Marco Bernard , Manolo, Roberto Bassi!

Forse mai più la Valle dell’Orco ha conosciuto giornate così, dove il piccolo mondo di allora della scalata nazionale e internazionale si era ritrovato. Tuttavia, chi come noi era più informato, sapeva che quel modo di scalare aveva fatto il suo tempo, io già da due anni lavoravo alla palestra di arrampicata del Palazzo a Vela e il livello cresceva di mese in mese.

Luoghi come il Verdon lasciavano il posto a Buoux e da noi la vetrina delle novità era ritornata in Valle di Susa, dove Marco Bernardi sulla scia di Berhault aveva liberato nell’Orrido di Foresto i Nani Verdi e nel 1981 ha salito Strenuous, dato per pudore un 7c+ ma molto vicino all’8a. Di lì a poco le novità in Italia sarebbero arrivate da Finale, dalla Valle del Sarca e da tutti posti dove si piantavano i primi spit. Quel 1982 fu come una gran festa finale, i riflettori sulla Valle si spensero, continuò poi un’ attività interessante di scoperta, ma di respiro locale, il mondo ormai guardava altrove.

Quanto alla montagna vera avevamo già scalato l’Americana al Dru, ma gente come Berhault e Boivin la faceva di corsa in poche ore insieme al Fou, in giornata! Incontrammo i due che partivano col deltaplano biposto dal Rognon per Chamonix! Sereni come chi ha appena preso un caffè al bar.

Nel 1981 dopo quella esperienza al Dru pensavo che dovevamo tornare in montagna, a Noaschetta e sul Valsoera ad aprire itinerari moderni, come facevano i francesi su grandi pareti. Nacquero così vie come Aldebaran al Monte Castello e Filo a Piombo e Sturm und Drang con Alessandro Zuccon al Becco di Valsoera e ancora Diamante pazzo di Perucca e Sartore al Becco della Tribolazione. La bassa valle per noi perse di interesse. Con Ogliengo e Zuccon andai ad aprire vie anche a casa dei francesi sulle Aiguilles di Chamonix, sull’Eveque il Pilier Abel e sui Grands Charmoz, la voie des Italiens come l’ha chiamata Michel Piola nel suo libro… il mondo che contava era lì e volevamo misuraci.

Quale eredità
La scoperta e le prime vie della Valle dell’Orco sono state raccontate in splendidi "recit d’ascenson", da grandi alpinisti e maestri di stampo classico Motti, Manera, Grassi… ma Galante e Bonelli in quei racconti sono poco più che comparse, non emerge il loro valore tecnico e forse non lo si era del tutto compreso. Andrea Gobetti, più che alpinista è un Omero che racconta i suoi eroi ed è il primo che si accorge e che rende onore nei suoi scritti ai due fenomeni dell’arrampicata piemontese.

Grande merito infine va ad Alessandro Gogna, che pur essendo di una generazione precedente ha raccontato, da fratello maggiore, in Cento Nuovi Mattini e poi in Rock Story la rivoluzione in atto. Legandosi in cordata spesso ai nuovi arrampicatori. Di grande valore nei suoi libri è anche la documentazione fotografica. Sandro girava a 360 gradi, scalava e raccontava la Valle dell’Orco come la Val di Mello o le Dolomiti... ed inevitabilmente erano racconti parziali.

La generazione chiamiamola degli anni "70, era di una estrazione diversa, erano arrampicatori con pochissimo interesse a raccontare e fare relazioni di vie. Roberto Bonelli credo che abbia fatto con me, alcuni anni fa, la sua unica intervista e solo per antica amicizia. Non aveva voglia di parlare con nessuno, diceva che si scrivevano tante cose senza senso e lui si era stufato, un po’ come Massimo Demichela. Gli avevo proposto di scrivere insieme una storia della Valle, sarebbe stata una scoperta per tutti, sembrava interessato ma purtroppo, anche lui come Galante e Beuchod è venuto a mancare improvvisamente. Quando a distanza di tanti anni mi rividi con Gabriele si parlò di vie e di pareti defilate come la sua Parete delle Ombre, ma quante altre sono rimaste sconosciute?

Enrico Camanni, sulla base delle nostre scalate per primo aveva sdoganato da giornalista la Valle dell’Orco al grande pubblico. Raccontò su Scandere del 1978 come due ragazzi normali potessero ripetere quelle vie che erano ritenute inaccessibili ai più. Dava anche consigli tecnici che oggi fanno un po’ sorridere come "meglio usare scarpette a suola liscia", ma alla stessa Scuola Gervasutti le scarpette non erano viste bene, famosa è la frase di Manera che disse "se andiamo avanti così metteremo due preservativi per scalare!"

Nel 1988 venne a mancare Nigretti, il proprietario della Baita, mi fu offerta per 4 milioni di lire, non li avevo e poi il tempo del cazzeggio studentesco era finito da un po’e il lavoro mi prese. Fu venduta, costruirono una strada carrozzabile e la Baita fu abbattuta, si salvò solo il tavolo che tuttora è nella stanza da pranzo di casa mia, un bel ricordo, ogni tanto mi immagino ancora gli amici intorno.

Quella generazione che cambiò il modo di scalare, non lasciò molte tracce scritte. Da poco si è riscoperto il Diedro atomico o La fessura delle Pagine di Pietra in val Soana, una fessura di 60 metri che aprii nel 1980 con Isidoro Meneghin o I massi del Carro…e la stessa Sitting Bull, nelle guide moderne, appare ancora avvolta nel mistero!

Va detto che questo tipo di scalate brevi a fine ’70 inizio ’80 non interessavano nessuno, anche una fessura come Incastromania al Sergent sulla guida della Valle Orco appare senza una data! Sembra impossibile oggi per una fessura così bella ed evidente! Già perché non portava da nessuna parte, finiva su una placca inchiodabile e i monotiri non esistevano. Io l’ho vista tante volte e ho fatto sempre quella considerazione, così come l’hanno fatta sicuramente Bonelli o Beuchod... Quindi anche Il Diedro atomico o Sitting Bull o i massi del Carro erano frutto di una ricerca che non aveva riconoscimento all’epoca.

Se non era per Gogna che immortalava Bonelli alla prima italiana anche della Kosterlitz si sapeva poco, così come di Beuchod sull’Orecchio del Pachiderma. Anche il ripetutissimo Nautilus per un puro caso è noto, perché alla rivista Monti e Valli del CAI Torino volevano un articolo con una via di arrampicata. Raccontai così per caso l’ultima avventura con gli amici della Baita, il nome Nautilus lo coniai per l’occasione.

Tra noi c’erano Roberto Mantovani ed Enrico Camanni, redattori alla Rivista della Montagna, ma anche quella stava per finire in favore di Alp che avrebbe dato più spazio alle nuove visioni. Se ne accorsero prima i francesi, più avanti di noi, con l’articolo di Philippe Macle su Alpi Rando nel 1982. Riportava tutte le novità, e in un riquadro "Les plus belles voies" citava tutti tiri brevi e intensi, oggi diremmo i tiri Trad, tra cui Sitting Bull. Macle scrive "35 metri di purezza ideale, a metà strada tra falesia e blocco. Solo un chiodo nel mezzo. Sopra il passaggio è strapiombante ma i nuts si mettono senza problemi. Molto sostenuto e difficile uno dei più bei passaggi della Valle". Philippe Macle è uno degli scopritori di Ceuse, amico di Edlinger, ha aperto in Verdon dei capolavori assoluti, per estetica e stile, come il famosissimo Ange en decomposition o Rêve de Fer. Insomma non uno qualsiasi, una leggenda.

È evidente che i francesi su consiglio di Mario l’hanno scalata. Il chiodo citato l’avevo messo nel 1979 in apertura dal basso, avevo solo gli hexentric e se mettevo il dado non potevo mettere la mano per fare il tetto. Gli hexcentric o i nut non sono come i Friend che si possono mettere ovunque, hanno bisogno di strozzature. Fu una bella e dura impresa nel 1979! Nonostante oggi diremmo un resting. Rischiai anche di arrivare a terra, ero in affanno senza protezioni sull’ultimo tratto.

Nel 1983 con mio grande stupore uscì la foto a piena pagina di Manolo su Rock Story, che consacrò Sitting Bull e la fece conoscere in Italia. In moltissimi mi chiamarono... hai visto su Rock Story! Anche gli amici Enrico Camanni e Battimelli, io ero felicissimo. Manolo star mondiale sulla mia fessura. Risultò però con stupore mio e dei miei colleghi della Baita che non si conosceva l’apritore! Sul libro c’era anche una mia foto ai Denti di Cumiana…..ma per Sitting Bull "Nemo profeta in patria…!"

Dopo tanti anni Manolo è venuto a Caprie in Val di Susa a presentare il suo bel libro Eravamo Immortali e simpaticamente ha sanato la ferita… mi ha chiesto come si scrive Sitting Bull, io gli ho detto come si legge e lui sorridendo con lo spirito dei grandi mi ha fatto la dedica del libro…Ad Andrea Sitting Bull, Manolo.

Andrea Giorda Caai - Alpine Club UK




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