La bufera in Nepal e le tragedie: tanti i perché, non le colpe. Di Alessandro Filippini
Questa è la storia di vicende sfortunate avvenute in Nepal e che nel nostro Paese sono finite in un vortice mediatico per l’esito, purtroppo mortale, e a causa della (incolpevole?) disinformazione generale. Con in più un imprevisto e indegno epilogo.
SFORTUNA Anche se lo sport preferito in questi tempi (esageratamente) securitari è la caccia al colpevole, dichiariamo subito che ci schieriamo sull’altro versante: poteva finire tutto senza incidenti. Invece, tra il 31 ottobre e il 3 novembre, in due distinti episodi, abbiamo dovuto contare ben 5 connazionali morti sulle montagne nepalesi. Per i mezzi di comunicazione, improvvisamente interessati a quanto stava avvenendo in Himalaya, una “strage di italiani”. Dapprima sono arrivate le conferme dei decessi di Stefano Farronato e Alessandro Caputo, trovati nella loro tenda a campo 1 del Panbari Himal dai soccorritori guidati da Valter Perlino, loro compagno che si è salvato perché per problemi fisici era sceso a campo base subito prima dell’arrivo delle grandi nevicate che hanno accompagnato il passaggio del ciclone Montha sull’area asiatica a Ovest del Golfo del Bengala e fino al versante meridionale della catena himalaiana. Poi, in tempi diversi e da tutt’altra parte del Nepal, sono arrivate anche le conferme della morte dei tre connazionali che si trovavano al campo base dello Yalung Ri, travolto da una grande valanga: Paolo Cocco, Marco Di Marcello e Markus Kirchler. Mentre del primo è stata accertata quasi subito la morte, per gli altri due sono state coltivate per qualche giorno speranze, purtroppo destinate a restare vane.
MANCANZA E intanto, nella frenesia di recuperare un protagonismo che era mancato nei momenti più importanti, il nostro ministero degli Esteri arrivava a diffondere un falso allarme per un gruppo di altri 5 connazionali, dati per dispersi nella zona del Makalu quando invece, rispettando i programmi, erano semplicemente impegnati a traversare una zona dalla quale non potevano comunicare. Ennesima prova che, come invocato apertamente e ripetutamente da Simone Moro, visto il gran numero di connazionali che frequenta trekking e anche scalate in Nepal, ci sarebbe necessità di riaprire una ambasciata a Kathmandu. Al momento i nostri connazionali devono fare riferimento a quella della lontanissima Nuova Delhi, in India. Il che complica non poco le cose e sicuramente rallenta non poco ogni tipo di intervento diplomatico.
CONFUSIONE Notizie confuse e falsi allarmi sono andati a sovrapporsi a una situazione resa estremamente complicata su tutto l’arco dell’Himalaya nepalese da condizioni meteorologiche tanto insolite per il periodo (l’autunno, insieme alla primavera, è da sempre la stagione indicata come migliore per le spedizioni e i trekking in quelle zone) quanto estreme, con nevicate abbondanti e ripetute. Il tutto in Italia complicato ulteriormente dal fatto che la sempre maggior attenzione dei mezzi di comunicazione ha moltiplicato il rischio di gravi imprecisioni o, peggio, come vedremo, di false informazioni desunte dal mare magnum di internet.
PARADOSSI Una situazione climatica tanto estrema ha sorpreso soprattutto i gruppi avviati verso zone poco battute e poco abitate. Le dimensioni della tempesta dovuta al ciclone Montha, sono state ben superiori a quanto era previsto. E comunque in Nepal non esiste un qualcosa di simile al bollettino valanghe. Così ci si può affidare solamente alle previsioni meteo, se si trova un collegamento internet. Inoltre in Nepal non esiste neppure un soccorso alpino come lo intendiamo e conosciamo sulle Alpi, dove si effettuano interventi immediati anche nelle condizioni più estreme. Ma in Himalaya, e soprattutto in zone lontane dalle montagne più frequentate, i soccorsi, anche a causa della difficoltà nelle comunicazioni (spesso vi funzionano solo i satellitari), sono tutt’altro che scontati anche in caso di meteo favorevole. Paradossalmente, in Nepal la situazione è migliore sulle montagne più alte e che per questo vengono considerate più difficili da salire, cioè gli Ottomila, dove le grandi agenzie, che organizzano le spedizioni commerciali per facoltosi scalatori “imbombolati” e serviti di tutto punto dagli Sherpa, sono strettamente legate (quando non ne sono esse stesse proprietarie) alle aziende degli elicotteri che fanno la spola fino ai campi base e che sono in grado di volare anche ai campi alti (fin oltre i 7000 metri), sia per rifornirli sia per intervenire in caso di emergenze.
COLPE La ricerca di colpevoli per quel che riguarda le valanghe che nei giorni scorsi hanno provocato così tante vittime, non solo italiane, è una deriva di comodo. Come se questo potesse farci sentire da una parte più sicuri (per il nostro futuro) e dall’altra “innocenti”. Ma in montagna non esistono certezze. Nemmeno su quelle più vicine e più facili. Le dimensioni della tempesta che si è abbattuta sull’Himalaya nepalese sono state ben superiori a quanto era previsto. Così, proprio quel che doveva offrire sicurezza (appunto le previsioni meteo, peraltro generiche e non mirate a una specifica e ristretta zona come quelle che si garantiscono gli alpinisti famosi e le grandi spedizioni) può aver contribuito a trarre in inganno i gruppi che poi sono stati coinvolti negli incidenti e che si sentivano al sicuro. A maggior ragione allo Yalung Ri, dove gli scalatori vittime della grande valanga erano ancora al campo base (oltre agli italiani, sotto la valanga sono morti anche i nepalesi Mere Karki e Padam Tamang e il tedesco Jakob Schreiber). Ci sono state anche accuse di “soccorsi giunti in ritardo”, accuse portate anche da autorevoli personaggi, come il famoso Sherpa Mingma G. (tra l’altro autore della prima invernale del K2), il quale però si riferiva soprattutto al Rolwaling, la valle al confine col Tibet nella quale sorge appunto lo Yalung Ri. Per via di quel confine, infatti, ci vuole l’autorizzazione di ben due ministeri perché alla fine sia consentito agli elicotteri di alzarsi in volo dall’aeroporto di Kathmandu, dove tutti i voli sono stati accentrati. Così, come ha ben spiegato Simone Moro, raggiungere valli e montagne lontane è tutt’altro che semplice. Sia nella ricerca della rotta, slalomando fra le alte montagne da aggirare (più si sale di quota, più diminuisce la portanza e più aumentano i consumi), sia per evitare di arrivare alla meta senza più carburante a sufficienza per poter intervenire. Perché non ci sono eliporti né luoghi dove poter fare rifornimento, per cui i piloti devono partire portando il carburante di scorta sufficiente per l’intera operazione prevedibile. E soprattutto bisogna ricordare che i voli sulle montagne himalaiane sono fatti a vista e quindi necessitano di condizioni meteo buone. Quindi i soccorsi tanto immediati da poter salvare vite su quelle due montagne erano in ogni caso impossibili. In particolare per quel che riguarda il Padari Himal, dove Farronato e Caputo sono stati trovati nella loro tenda, nella quale giustamente si erano rifugiati per resistere alla tempesta che impediva ogni movimento e che l’ha sommersa con tre metri di neve.
SOCCORSI Allo Yalung Ri i soccorsi sono poi arrivati, anche se soltanto quando ormai purtroppo non si trattava più di salvare vite ma soltanto di cercare di recuperare i corpi dei dispersi. E c’è stata tanta Italia a contribuire, con il pilota Manuel Munari e i soccorritori e guide alpine Michele Cucchi e Bruno Jelk per AviA MEA-International Rescue Team. Hanno usufruito del supporto operativo di Simrik Air, agenzia che oltre all’elicottero ha messo a disposizione anche un pilota, un tecnico soccorritore e un ingegnere nepalesi. Le attività di ricerca sul luogo della valanga, a quota 5500 m si sono svolte nei giorni 6 e 7 novembre, con base operativa nel villaggio di Na, dove venivano svolte le operazioni tecniche sul velivolo, a cominciare dai rifornimenti. I sorvoli di ricerca sono stati fatti utilizzando il sistema RECCO SAR a bordo e il RECCO R9 per la ricerca a terra, con l’aiuto anche di guide Sherpa e di Heli Everest. Purtroppo, come noto, il manto nevoso eccessivamente spesso e che poggia su una zona crepacciata si è andato compattando sempre di più, il che ha presto reso impossibile sondare e spalare nella zona interessata dalla grande valanga.
SPERANZE VANE Questo ha spento definitivamente le speranze che i familiari dei dispersi non cessavano di coltivare. In particolare quelli di Marco Di Marcello, che continuavano a ricevere segnali dal Tracker del loro caro. Segnali che sembravano indicare degli spostamenti. Purtroppo dovuti non alla sopravvivenza del 37enne abruzzese (o del 29enne altoatesino), ma a un conosciuto difetto di precisione dell’apparecchio, che trasmette la posizione tramite triangolazione satellitare. Il che rende possibile, per esempio, che al passaggio da un satellite a un altro la posizione venga corretta erroneamente anche di varie decine di metri.
EPILOGO Sia AviA MEA, sia Simrik Air hanno dichiarato chiuse le operazioni di ricerca il 7 novembre e hanno abbandonato la zona del campo base ritirando tutto il materiale che avevano portato, purtroppo inutilmente. Ma in Italia alcuni mezzi di informazione e perfino alcuni TG della Rai hanno creduto alle false assicurazioni di un profilo internet dal quale, in nome di pretese fratellanze, si spacciavano ancora illusioni che potevano solamente far del male alle famiglie in lutto. Non c’era più in azione nessuno: né l’esercito nepalese né una squadra di Sherpa volontari. Fine. Per sfortuna anche cinque nostri connazionali si erano trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato e i corpi di due di loro ancora giacciono ai piedi dello Yalung Ri. Non ci sono colpe: avevano scelto una stagione in teoria favorevole e non stavano affrontando sfide superiori alle loro forze o alla loro preparazione. Non ci sono colpevoli. Semplicemente, come ha ben riassunto in poche parole un grande alpinista come l’altoatesino Hans Kammerlander, che in Himalaya ha perso carissimi amici (Karl Grossrubatscher e Friedl Mutschlechner, morti sotto i suoi occhi sul Manaslu nel 1991): “Bisogna anche essere fortunati, dato che la montagna porta sempre con sé alti rischi”.
- Alessandro Filippini, Milano


































