Marco Siffredi, Everest e la prima discesa in snowboard

Intervista di Emilio Previtali a Marco Siffredi dopo la discesa con lo snowboard dalla cima dell'Everest. Il 23 maggio 2001 il francese raggiunge la cima della montagna più alta della terra in snowboard con l’utilizzo dell’ossigeno e, in circa tre ore, scende integralmente da solo e senza ossigeno lungo il Couloir Norton. Con questa discesa ha segnato la performance più ambita: prima discesa integrale in snowboard, prima discesa assoluta alla Parete nord.
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Marco Siffredi in snowboard sull'Everest
Jan Marc Porte

Chamonix, 23 anni. Con la discesa del Couloir Norton dell'Everest ha segnato la performance più ambita: prima discesa integrale in snowboard, prima discesa assoluta alla Parete nord.

Allora Marco, ti sei ripreso dalla fatica dell’Everest?
Sono un po’ stanco, ma ça va.

“Sulle Alpi” ti sei perso la migliore stagione per le discese ripide degli ultimi quindici anni questa primavera. Alcune discese estreme degli anni ‘80 come le Courtes o le linee all’Aguille du Midi sono diventate quasi delle classiche per quanta gente c’era.
Lo so, però non mi dispiace. Quando sono rientrato dalla spedizione ero appagato, non ero in grado di pensare all’impegno di nuove discese. Stare in spedizione ti svuota.

Cosa stai facendo ora?
Sto lavorando nel campeggio della mia famiglia, durante l’estate è quello il mio lavoro. Faccio un po’ di tutto, dalla manutenzione alle pulizie.

E d’inverno?
D’inverno nulla, vado in snowboard. È troppo duro lavorare a Chamonix durante l’inverno, con tutta la neve e le montagne che ci sono in giro. D’inverno non riesco a lavorare.

Non ti interesserebbe fare la guida o il maestro di snowboard? Con il curriculum che hai non dovresti avere problemi con la selezione.
Non mi interessa per ora. Portare la gente in giro è un’enorme scocciatura. E poi ho parecchi “ammiratori” qui a Chamonix che non vedrebbero l’ora di avermi come allievo al corso guide per farmi trovare lungo. C’è chi fa la guida solo per salire gratis sull’elicottero; non fa per me, almeno per ora.

Chamonix è probabilmente il luogo dove esiste la più alta concentrazione di guide e alpinisti di alto livello al mondo. Scendendo dalla strada del tunnel verso il paese c’è un cartello che recita, con il pomposo stile nazionalista dei nostri cugini francesi, “la capitale mondiale dell’alpinismo e della montagna”. Scoccia dirlo a noi italiani, ma probabilmente è vero. Marco ha molti amici a Chamonix con i quali divide le giornate d’inverno alla ricerca di canali sempre più ripidi, ma il fatto che abbia solo 23 anni e un curriculum di discese del genere dà fastidio a qualche altro gallo nel pollaio. È noto che tra lui e gli extreme rider più vecchi della Vallata non corra proprio buon sangue. Questione di rivalità e prime discese soffiate.

Beh, per ora probabilmente avranno da stare zitti per un po’. Raccontaci dell’Everest.
Siamo arrivati nella stagione più secca degli ultimi anni; la montagna ad aprile era un vero disastro per chi pensava di dover scendere con la tavola. Poi è arrivato il brutto tempo e continuava a nevicare. C’è stato da pazientare a lungo; a volte è noioso ma a me comunque non dispiace la vita del campo base. Verso la fine, quando tutti i campi erano allestiti, sono salito in cima.

E' stata dura?
Ça va. Succhiando ossigeno si viaggia abbastanza bene e non senti troppo freddo. Quel giorno è arrivata in vetta parecchia altra gente. Io sono arrivato in cima molto presto.

Lo dice con una semplicità disarmante. La descrizione della salita alla montagna più alta del mondo sarà durata venti secondi. A pensarci bene Marco era lì per la discesa. Mi immagino lui che arriva in vetta, e si prepara per la discesa, tra gli sguardi sbigottiti degli altri alpinisti. Proprio nel momento in cui qualcuno aveva raggiunto il punto più alto della sua carriera di alpinista, non solo metaforicamente, Marco si apprestava a scivolarci sopra in snowboard. Da solo, senza ossigeno e per un itinerario diverso da quello di salita: il temutissimo Couloir Norton.

Che tavola avevi con te? Che misura era?
Mmh, (ci pensa un attimo, nda). Una Elan; la misura non la ricordo, forse 158, ma non ne sono sicuro. Comunque molto larga, in modo che anche sul ripido i piedi non sbordassero.

Gli attacchi?
Erano soft con gli scarponi speciali della Millet. Un attacco si è anche rotto per il freddo, ma poi, con l’aiuto di uno sherpa, un po’ di american tape e fil di ferro, lo abbiamo sistemato.

Com’è il Couloir Norton?
Abbastanza buono, non ho mai dovuto levare la tavola. La neve era dura, specie all’inizio, e bisognava fare qualche traverso per trovare la linea giusta; ma non era male. Ça va. Davo Karnicar e Hans Kammerlamder dicevano che per il Couloir Norton era impossibile passare; parlavano di un salto invalicabile nel mezzo. Invece sono passato abbastanza bene. Ho trafficato per un breve tratto, ma è normale su quelle difficoltà. Ho impiegato due ore e mezzo per ricongiungermi con la via di salita alla base della parete e arrivare alla mia tenda.

Eri felice?
Sì.

Si legge nei suoi occhi la gioia di aver fatto qualcosa di grande, l’orgoglio di essere riuscito in quello che altri reputavano impossibile. Ma nelle sue parole, nei suoi desideri, non traspare nient’altro che un sincero desiderio di tornare all’Everest per un nuovo progetto.
Ho la sensazione che la prima discesa in snowboard dalla montagna più alta del mondo sia una questione che interessa solo il margine più esterno del suo mondo. Ho l’impressione, ed è raro in un mondo di rider costantemente in promozione della propria immagine, che Marco vada in snowboard soltanto per se stesso. Alla ricerca del confronto con la vera difficoltà, senza scorciatoie, solo per sua soddisfazione. Jacopo e io saltiamo sulla sedia quando ci dice che sta tentando di organizzarsi per tornare all’Everest in autunno.

Ma nell’autunno di quest’anno?
Sì, vorrei partire a inizio agosto. Voglio fare il Couloir Hornbein, ma questa volta salendo dal versante sud.

Riesci a trovare i soldi in così poco tempo?
Adesso vediamo, c’è il progetto di avere Renè Robert come fotografo e un cameraman che riprendano tutta la discesa. Costa un sacco, ma il Couloir Hornbein è il mio prossimo obiettivo.

Marco vede la Dea Madre delle Montagne, la cima più alta del pianeta, esattamente come tutte le altre montagne che ha scalato. Un posto perfetto per esprimere la sua arte di snowboarder intento a tracciare curve sul ripido. Proprio come se fosse in cima alla Aguille du Midi da lui a Chamonix, oppure al Mont Fort a Verbier; lo spirito è lo stesso. La sua concezione di snowboard per me e Jacopo è vero freeride. Ne discutiamo a lungo sull’interminabile strada del rientro. Davanti a lui vediamo progetti di discese grandiose che probabilmente saprà realizzare.

Ci sono altre montagne che ti attirano?
Mi attira l’Himalaya e le montagne di 8000 metri. In fondo ne ho fatte solo due, Cho Oyu ed Everest. Me ne restano altre dodici. Ci sono discese grandiose da fare, come al Nanga Parbat in Pakistan che ha la parete più grande del mondo, con 3500 metri di dislivello.
Oppure il versante sud dello Shishapangma, dove ci sono un paio di couloir che ho visto molto belli. Certo è che su queste montagne, per pensare a discese che siano realmente impegnative, bisogna pensare di salire per la via normale. In Himalaya c’è energia per fare solo una cosa bene, per cui se vuoi fare bene la discesa, devi salire dalla normale e scendere da una parete che non hai percorso prima. È un rischio che devi accettare.

E delle gare di freeride cosa ne pensi?
Le gare di freeride non mi interessano, quello non è il mio modo di fare snowboard. E poi il ripido continuo in gara non esiste.

Però l’invito degli organizzatori della Red Bull X-streme quest’anno l’hai accettato visto che eri nell’elenco dei sedici concorrenti invitati.
(Ride, nda) Ils ont de l’argent...




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