Sean Villanueva al Trento Film Festival: 'Sul Moonwalk Traverse in Patagonia stavo vivendo un sogno'

Alla 73ª edizione del Trento Film Festival, Sean Villanueva, ben noto alpinista belga, ha incantato il pubblico con il racconto di The Moonwalk Traverse, la sua leggendaria traversata in solitaria dell’intera cresta del Fitz Roy in Patagonia, da Sud a Nord. Questa montagna attira alpinisti da tutto il mondo con la sua bellezza e le difficoltà che presenta, offrendo sfide tecniche e naturali. Una salita vissuta, per Sean, come esperienza totalizzante, quasi mistica, in cui ogni passo e ogni alba diventavano parte di un dialogo profondo tra uomo e montagna.
Parlando in italiano, con ironia e semplicità, Sean ha guidato gli spettatori attraverso immagini mozzafiato e video inediti: dal primo giorno in cui ha maturato il sogno di scalare il massiccio - "Mai avrei immaginato di riuscirci" – alle sfide quotidiane nella sua roulotte a El Chaltén. Un percorso fatto di quattro stagioni, freddo, solitudine e soprattutto una motivazione "pura e intrinseca", come lui stesso l’ha definita: "Non scalavo per arrivare, ma per sentire la vita".
In un’epoca in cui l’alpinismo si muove veloce, sponsorizzato e iper-documentato, Sean sceglie lentezza, silenzio e autenticità. E così, la sua traversata diventa molto più di una grande impresa alpinistica: è un esempio di libertà, presenza e leggerezza.
Dopo il racconto dal vivo della sua avventura, abbiamo incontrato Sean dietro le quinte per una chiacchierata. Ecco cosa ci ha raccontato, tra riflessioni profonde e quella manifestazione di equilibrio che lo contraddistingue.
Sean, da dove deriva la tua passione per l’arrampicata?
(ci pensa un attimo..) "È un fiume che mi arriva da dentro".
Portaci indietro al primo giorno della tua Moonwalk traverse. Che sensazioni hai provato quando hai raggiunto la prima cima?
"È stato incredibile. Solo il fatto che ci stessi provando, che fossi lì. Era un sogno che avevo da più di un anno, ma non pensavo sarebbe mai successo davvero. E invece sì, ero lì. Lo stavo facendo. Stavo vivendo un sogno".
Il Fitz Roy è considerato una montagna mitica. Dopo averlo attraversato, è cambiata la tua percezione del mito?
"No, per me resta una montagna incredibile. Ancora oggi quando la guardo da El Chaltén penso: "Wow, ho attraversato tutta quella catena". È pazzesco. Quando la gente mi dice "incredibile quello che hai fatto", lo penso anch’io. È una montagna potentissima, e la roccia è semplicemente incredibile. Uno dei maggiori ostacoli diventa il meteo, e allora se il tempo è brutto anche la via più facile diventa impossibile. È un luogo selvaggio, grezzo, potente".
Come una divinità….
"Sì, assolutamente. Quando tutto è perfetto, il meteo è perfetto, non c’è vento e le temperature sono buone ti sembra quasi una cosa facile ed è molto raro. Ma quando è così, sai che l’instabilità ed il brutto tempo potrebbero tornare e non puoi startene in giro a lungo. In Patagonia, quando il tempo è bello, sai che il brutto arriverà. Ma quando è brutto, non sai se il bel tempo tornerà".
Sembra che tu abbia maturato una capacità di ascolto della montagna, della sua natura e dei suoi elementi. Hai mai sentito che in qualche modo ti stesse parlando?
"Sì, totalmente. Penso che uno dei motivi per cui sono riuscito a fare la traversata del Fitz Roy è che ho vissuto lì per un anno. La Patagonia era dentro di me, io facevo parte di lei. Camminavo sotto quelle montagne, sentivo il vento, ero immerso in quel mondo. Non pensavo che avrei mai avuto l’opportunità di quest’avventura, fino a quando improvvisamente tutto si è allineato: sei giorni di finestra perfetta, io ero in forma, mentalmente pronto. Tutto, ogni piccolo dettaglio si è incastrato affinché potessi compiere la mia traversata. È stato sicuramente un momento di connessione magico".
La tua impresa ha un ritmo narrativo perfetto: solitudine, avventura e climax finale. Se potessi trasformarla in un film, chi vorresti come regista? O come attore protagonista?
"Non saprei, non conosco abbastanza il cinema. Ma di sicuro una delle cose speciali è stata che ero completamente solo. Se qualcuno mi avesse seguito, se ci fosse stato un drone o delle telecamere non sarebbe stata la stessa esperienza. Onestamente non mi importava se qualcuno l’avrebbe saputo, non avevo intenzione di dirlo a nessuno. Per me era qualcosa di così sentito, così profondo, che era davvero importante che fosse qualcosa che stavo facendo al cento per cento per me stesso, e basta. Non mi importava del resto. Eppure, dopo, vedere quante persone sono state ispirate da questa storia ed erano felici per me è stato bellissimo".
La tua impresa è sembrata senza tempo: in un’epoca in cui tutto viene condiviso subito, quanto è importante per te il silenzio, l’anonimato e l’attesa della narrazione nell’alpinismo?
"Molto. È facile cadere nell’idea che lo fai perché devi produrre contenuti, per essere riconosciuto, per "avere successo". Ma se ti fai prendere da tutto questo, perdi l’essenza. Perdi la passione, il fuoco, la libertà del cuore e anche la magia. È questione di sentirsi indipendente".
Intendi come una forma di distacco?
"Sì, esatto. Mi piace l’isolamento a volte, il distacco è necessario per centrarsi e ritrovare ciò che è realmente importante. Queste scalate non cambiano il mondo, ma se ti aiutano a crescere come essere umano, allora sì, sono uno strumento potente".
Qualche tempo fa hai detto di esserti dedicato a circa 15 minuti di silenzio e meditazione prima di ogni scalata. Come pensi ti abbia aiutato questa pratica nel successo della tua impresa?
"Mi aiutava a centrarmi, a restare presente, a osservare non solo i dettagli ma anche ad avere una visione globale e proprio per il fatto che stai osservando non reagisci di impulso. Molte volte reagiamo senza consapevolezza. L’osservazione, la meditazione ti aiutano ad ascoltare suoni, sensazioni nel corpo, emozioni a cui normalmente non riusciresti a prestare attenzione. E imparare a non reagire subito ti dà una grande forza. Durante una scalata puoi sentire paura".
Potresti lasciarti travolgere dall’emotività…
"Esatto! Ma se puoi riconoscerla (la paura) puoi osservarla senza lasciarti travolgere".
Hai vissuto oltre un anno in Patagonia, con uno stile essenziale, leggero e a basso impatto. In un’epoca di spedizioni ipertecnologiche e sponsorship, pensi che ci sia ancora spazio per un outdoor ‘selvatico’, personale, magari anche più sostenibile?
"Sì, credo che sia proprio questa, in realtà, l’essenza delle spedizioni. E penso che torneremo a renderci conto che queste spedizioni "fast food", dove si va di fretta, si vola, si scala e poi si torna subito a casa, fanno perdere molte cose. Si perde davvero l’essenza. Credo che prendersi il tempo renda tutta l’esperienza molto più significativa. E sì, penso che spedizioni con approcci lenti come camminate lunghe, trekking, oppure arrivare in kayak, in bici o magari in barca a vela richiedano più tempo, ma regalano esperienze molto più profonde. Se vai troppo veloce, ti perdi molte cose. E allora tutto diventa una sorta di consumo spirituale: lo usi e basta, ma non lo vivi davvero. Ecco perché penso che sia importante".
Non conta l’arrivo, ma il viaggio che si fa…
"Esatto. Non conta la vetta, ma la scalata. Quindi dobbiamo tornare a ciò. Dobbiamo tornare all’idea che la vetta non è importante, ma è solo una scusa per la scalata. Penso che sia un modo di agire molto più sano, anche perché, se metti la vetta prima di tutto, finisci per fare scelte sbagliate e ti perdi delle cose. Ti chiudi in una visione a tunnel e, sì, puoi prendere decisioni sbagliate. Solo per raggiungere quella vetta. Scelte sbagliate che possono essere pericolose, oppure che possono non essere corrette nei confronti dei tuoi compagni o di altre persone".
Sono d’accordo con te, è importante mandare questo messaggio a chiunque e alle future generazioni di alpinisti. Hai piani invece per il prossimo futuro?
"Ho lasciato la mia estate aperta a diverse possibilità, così magari se qualcosa arriverà la coglierò. Per me è molto importante nel fare questo tipo di spedizioni che io me lo senta dal profondo, che non sia qualcosa di costruito. Non mi piacciono le spedizioni pianificate da lungo tempo, perché non so come mi sentirò in quel momento. Quindi pianifico con poco preavviso, e quando sento "la chiamata" magari rispondo. Per il momento sono qui in Europa, partecipando a vari festival, scalando, allenandomi, divertendomi".
Andiamo all’ultima domanda Sean, che riprende il tema del manifesto della 73esima edizione di questo Trento Film Festival e cioè lo scioglimento del ghiacciaio di Kluane Park in Canada. Se potessi parlare a un ghiacciaio, cosa gli diresti?
"Questa è una domanda difficile. I ghiacciai rappresentano il mondo intero. Se continuiamo su questa strada del consumo cieco senza avere una visione globale, rischiamo di distruggere tutto. Spero che le persone diventino più consapevoli e inizino a vivere con più rispetto per l’ambiente".
- intervista di Debora Certo, Trento