Parete Fasana al Pizzo della Pieve (Grigna) discesa con gli sci da Andrea Carì

Esistono storie ambientate in luoghi esotici e lontani, che si sviluppano su montagne famose e blasonate del cui nome tutti sono a conoscenza, ed esistono storie più intime e personali, legate a pareti meno famose ma allo stesso tempo affascinanti. La storia che andremo a raccontare è ambientata proprio sulla montagna sopra casa mia, o meglio sulla parete che con quasi 800m di caduta si sviluppa a picco sull’abitato di Primaluna: la parete Fasana al Pizzo della Pieve. Il nome deriva da quello del suo primo salitore, che la salì esattamente 100 anni fa nel giugno del 1925, ovvero Eugenio Fasana. Per anni la parete è poi stata il banco di prova dei migliori alpinisti dell’epoca, specie nella ricerca della sua prima salita invernale. Oggigiorno questo alone di leggenda è rimasto ancora intatto e le sue vie di salita, che raggiungono sviluppi davvero considerevoli per le Prealpi, sono un prezioso palmares tra gli alpinisti. Il segreto di questo immutato appeal è sicuramente da ricercarsi oltre alla sua imponenza, anche all’asprezza dei suoi fianchi rocciosi e al suo ambiente iper selvaggio.
Ma per me la Fasana è qualcosa di molto di più. È appunto la parete di casa che ti toglie costantemente il respiro, così come le preziose ore di sole in inverno, è un tarlo che si è inserito all’interno della mia mente quasi 20 anni fa, quando mio padre era intento a scrivere la guida Calcare d’Autore, dove riportava tra i possibili progetti aperti una discesa con gli sci della via dell’Inglese. Un po' come avveniva nel film "Inception" con Leonardo di Caprio, dove un’ idea, una volta impiantata in profondità, diventava un’ossessione in grado di polarizzare il tuo essere e ciò che a distanza farai. Così infatti è stato, non è passato inverno che non mi fermassi con la macchina a Cortabbio a scrutare la parete munito di cannocchiale… sperando e cercando le condizioni giuste.
Ma la Fasana e nello specifico l’Inglese hanno una esposizione particolare. Nella parte alta la parete è un Nord Est, al centro Nord e Nord Ovest e nella sua parte terminale quasi Est… questo complica e di non poco la scelta della tempistica di sciata. Il freddo inverno l’ho scartato subito in quanto troppo pericoloso a causa delle slavine, specie nella parte alta della parete dove la presenza di molti buchi carsici e la conseguente uscita di aria calda, porta alla formazione di brine di fondo. La primavera, quando oramai grazie al caldo sole la neve si consolida, sarebbe il periodo ideale se non fosse che nei tratti più verticali affiora troppa roccia. Un’altra questione che da sempre mi ha attanagliato era capire l’orario in cui iniziare la discesa, aspettare che il sole riscaldi la parete nella ripida parte superiore, facendo diventare più morbido il duro firn, oppure presto la mattina per evitare che nella parte terminale esposta a est, valanghe di neve fradicia ti scorrano sotto gli sci? Beh tutto questo mi sembrava un enigma irrisolvibile e un po' per pigrizia e un po' perché davvero non trovavo risposta, liquidavo il mio tarlo con la dura sentenza: "non ci sono le condizioni…"
Ma come detto poc’anzi, più un idea viene "impiantata" nell’inconscio, più questa emergerà in superficie… e magicamente arriviamo all’inverno 2025, a 100 anni esatti dalla prima salita. L’inverno quest’anno non è stato, specie nella sua prima parte, generoso di neve, ma a me poco interessava, ero focalizzato su alcuni progetti di ghiaccio. Poi con febbraio e marzo e l’arrivo di tanta neve a sud, il tarlo ha ri-iniziato a farsi sentire. Ho preparato cosi un allenamento specifico per il mio "dream". Qualsiasi canale ripido che era in condizioni in Grigna e sui Campelli andava sciato, inventandomi improbabili discese come quelle parziale dalla Ferrata Minonzio ai Campelli degne del Conte di Ravanagè… Ho anche provato cambi d’assetto infiniti tra sci e ramponi e ramponi e sci sul canale Ovest della Grigna, così improbabili che se qualcuno ha visto le tracce, avrà pensato ad un alpinista ubriaco e indeciso sul da farsi! Ho inanellato curve saltate, "inversioni free ride" e scalette su esposti passaggi di roccia, anche quando a pochi metri di distanza, semplici coluoir conducevano a splendidi plateau di polvere immacolata. Ma ho anche sciato tanto (è un lavoro duro ma qualcuno doveva pure farlo…) e specie a marzo, quasi tutti i giorni con freerider americani davvero sul pezzo sulle nevi di Andermatt, chiudendo linee pazzesche, che mi hanno dato la motivazione giusta per credere in questo progetto. La notte le discussioni interiori con me stesso sulla gestione del materiale nello zaino, cosi come la scelta della picca e la tipologia di scarpone da usare, oltre a togliermi il sonno mi mettevano sempre più dubbi che certezze.
Ma la domanda alla quale facevo più fatica a dare una risposta era: salire dal basso con gli sci nello zaino e poi scendere, oppure arrivare in cima dall’altro versante? Entrambe le strategie hanno dei pregi e dei difetti. Una parete cosi ampia e ripida, implica che mentre si scia si sappia già che linea prendere, ma dall’alto non si vede nulla, tutto è bianco, ripido e apparentemente uguale. Ma in realtà non è cosi, in estate la parete è formata da lisce placche verticali, canali e speroni rocciosi, che in inverno a causa delle nevicate e delle abbondanti valanghe si uniformano tra di loro. C’è davvero tanta differenza di ancoraggio e di spessore della neve presente in un canale rispetto a quella su di uno sperone di roccia. L’ultima cosa a cui ambivo era ritrovarmi su lisce placche di roccia a 60° con sotto gli sci 2 cm scarsi di neve. Ma salire i quasi 1300 metri di dislivello dall’alpe Piattedo fino alla cima del Pizzo della Pieve e poi ridiscendere sci ai piedi i 600m di parete verticale, dal punto di vista fisico, comunque si sente. Non voglio paragonarmi ad Edmond Joyeusaz e alla sua discesa dal Bianco del "Seracco della Poire", effettuata con una salita in elicottero, ma come afferma lui che di sci estremo se ne intende: "fare certe discese stanchi non è certo una buona idea", specie con gli scarponi da freeride con cui avevo alla fine deciso di effettuare la sciata.
Ma allora che strategia usare? Beh, semplice, unire l’utile al dilettevole, il mio dream con il mio lavoro di guida alpina. Infatti era già parecchio tempo che gli amici Teo e Albi mi chiedevano di portarli a fare la Via dell’Inglese e, allora ecco le cavie perfette con cui andare a zonzo per la parete, mentre mi studiavo la linea di discesa e le eventuali vie di fuga in caso avessi voluto a metà ritirarmi. Eh già, perché OK avere un tarlo in testa che ti spinge oltre a ciò che credi impossibile da fare, ma sciare mi piace davvero tanto e spero di farlo ancora per tanti e tanti anni! Per questo motivo, in altre due giornate di lavoro solitario, ho studiato e preparato in alcuni punti delle linee di sicurezza con ancoraggi e corpi morti, che mi permettessero in caso di neve incerta o di "cervello in black out", di poter scendere con le pive e gli sci nel sacco, ma la vita ancora in tasca. Tutto questo lavoro l’ho effettuato cercando di dare meno nell’occhio, impedendo agli amici di postare le foto della salita effettuata su internet, sperando che nessun altro si decidesse a scalare per primo nella stagione la via e che non arrivassero "le odiate e amate", relazioni sui gruppi Facebook "Amici della Grigna ecc…" Tutto ciò perché sciare un linea come questa a forma di colatoio, inevitabilmente porta al crearsi di valanghe e l’idea che qualcuno salisse mentre io scendevo, non mi gustava nemmeno un po'. Sarebbe stato pericoloso per entrambi, ma in alpinismo si sa, questi elementi sono sempre costanti.
Giovedì sembra arrivare il grande giorno e la decisione è presa… si sale da Cainallo fino al Nevaio e poi da li ramponi ai piedi in vetta al Pizzo della Pieve. Cambio assetto con il sole che da Est mi scalda la faccia e le solette degli sci ben impiantati nella neve e poi giù per ben 3 curve e un totale di 5 metri, prima che uno zoccolo di neve sotto gli sci mi faccia uscire di colpo dalla "bolla" e tremare le gambe. Ho davvero tanta paura… Oggi sarà meglio scendere dal Passo del Zapel, per tanti una discesa ripida e comunque molto ambita.
Un errore così da beginner non ti lascia frustrazione, quanto una incazzatura enorme, che se sei in grado di trasformarla in determinazione, non può fare altro che portati nuovamente il sabato mattina, li dove si è formata.
Questa volta però già durante l’avvicinamento i pensieri fluivano in testa in un modo diverso, quasi come immagini di un film già visto che passano parallele a te senza toccarti, di cui conosci la trama e ne sei conscio, ma rispetto alle quali sei distaccato e freddo. Pensieri brutti e che dovrebbero fermarti come è giusto che sia, come lo sci che non prende gli spigoli e tu rotoli a valle oppure l’atterraggio da una curva saltata troppo sulle code e in rotazione di busto, che non riesci a recuperare. Ma anche pensieri splendidi dati dal paesaggio che ti circonda e di cui sei innamorato da quando sei piccolo e di tuo papà che con una improbabile attrezzatura da sci alpinismo ti ci ha portato a 8 anni con ai piedi un "Lange 130" da discesa a suola liscia. Forse il tarlo si era già inserito allora nella mia mente, ma io ancora non lo sapevo.
Cammino e cammino e sono in cima alla Parete Fasana, punto dove solitamente la tensione cala fisiologicamente dopo aver effettuato una scalata e dove invece per me che vado in contromano, dovrebbe essere massima. In realtà una calma surreale mi circonda e la canzone Sail di Awolnation è disturbata solo dal rumore metallico dei ganci degli scarponi che si chiudono: "This is how I show my love… i made it in my mind because… blame it on my ADD, baby… this is how an angel dies… Blame it on my own sick pride… blame it on my add baby… Sail!"
E sono prontp a navigare, le prime curve vengono facili, la pendenza non è troppa e la neve seppur con una leggera crosta da fusione e rigelo, mi dà fiducia. Sceso di poco cambia leggermente esposizione e uno strato di ghiaccio sotto gli sci mi porta a prendere la picca, metterla nella mano a monte e inserire uno dei due bastoncini tra lo schienale dello zaino e la mia schiena. Si procede ora impiantando bene la picca nella neve ghiacciata e con il bastoncino a valle sondo la neve davanti agli sci per capire dove sia più morbida. Mi sposto in laterale e la neve mi restituisce un buon feedback. Prendo il bastoncino dietro la schiena e lo impianto più che posso al contrario nella neve, creandomi un buon ancoraggio. La mano a monte è salda su di esso, mentre la mano a valle ripone la picca sotto lo spallaccio dello zaino. Si riprende in mano il bastone di monte, si inserisce il lacciolo (sì, io non sono Vivian Bruchez e sul ripido adoro sentire il laccio sul polso, quando spingo sui bastoni per fare la curva saltata) e via di compressione, distensione e rotazione degli sci in aria, calibrando ogni volta la giusta forza per staccarli dal terreno quando serve, ma mai troppo da perderne il contatto. Questa laboriosa operazione dovrò metterla in atto per tutta la sciata, che della fluidità del gesto dello sci ha ben poco, ma la neve su questa particolare via non è mai uguale, metro dopo metro. E’ un gioco continuo nel ricercare il punto migliore dove cambiare gamba, tra quella a monte piegata al massimo e quella a valle iperdistesa tramite una curva saltata. Prima e dopo ogni curva i respiri sono affannati. Mi sforzo di buttare fuori tutta l’aria svuotando i polmoni e riempiendoli nuovamente, eppure mi sembra di avere il respiro corto e di essere in affanno d’aria. Vorrei fare un urlo per respirare, ma la concentrazione tra la lettura del mondo esterno e di quello interno del mio corpo, totalmente concentrato sui feedback dei miei piedi, è troppa. Sono teso e le mie gambe sono pronte a reagire correggendo qualsiasi reazione sbagliata arrivi dai miei sci. Sicuramente alla fine di tutto, in fondo alla parete, un urlo lo farò… se sarà conseguente alla gioia della discesa o alla paura e all’impatto di una caduta, che durerà diversi secondi o forse anche eterni minuti, questo dipende solo da me e da quanto concentrato sarò. E’ un viaggio totale dentro la parete, ma ancor di più dentro di me. Il tempo scorre veloce, ma in un’ altra dimensione lontana da ciò che in questo momento sono e sto vivendo. Alcuni istanti sembrano lunghi e altri sono brevissimi. L’unico modo per mantenere la concentrazione è la ripetizione ossessiva dei gesti sopra elencati, intervallando momenti di scaletta con la picozza in mano, a curve dove la neve lo permette. Una volta, due volte, tre volte e avanti così fin tanto che metro dopo metro, seguendo le orme che avevo effettuato in salita i giorni precedenti, mi ritrovo in vista della parete del Dente.
Qui la pendenza accenna a diminuire un poco, si passa dai 45°/50° gradi della parte alta e ai 55° e brevi tratti di quasi 60° della parte centrale, a qualcosa di più umano, sui 40°. Ma siamo sempre su una linea che è una "no fall line", ossia una discesa dove la caduta ha una unica conseguenza, la morte e quindi se si vuole raccontare ciò che si ha fatto, non bisogna cadere.
Mi fermo comunque un momento, piantando bene la picozza nel terreno e mi assicuro ad essa. Voglio godermi per qualche istante ciò che ho lasciato alle spalle. Ho il tempo per farmi anche un video-selfy, so che riguardandomi poi negli occhi, mi metterò a ridere per la faccia da "stremì che avrò dentro (impaurito)". La restante parte in realtà l’ho già sciata la settimana prima durante un precedente tentativo dal basso, andato in fumo dal troppo vento e ciò mi dà sicurezza. L’ultimo ripido salto di roccia senza neve ai piedi del dente mi costringe questa volta, così come la precedente, a deviare dalla linea del canale verso un bosco pensile di mughi sotterrati dalla neve. Al mio passaggio la neve, oramai scaldata dal sole, slavina a valle alla base dei sottostanti salti di roccia, e i mughi tornano a raddrizzarsi in piedi, come liberati dal peso dell’inverno.
Ora il salto di roccia strapiombante che divide l’inizio della via dell’Inglese dalla via Fasana mi costringe a rientrare alla base del Dente. Sono nei pressi dell’attacco della via Il custode dei segreti, degli amici Lorenzo & Luigino, che quasi in modo telepatico senza sapere nulla, inaugurano la stagione delle salite alla via dell’Inglese e delle relative recensioni su internet il giorno successivo al mia discesa, recuperandomi anche uno dei corpi morti precedentemente posizionati e felicemente non usati. La successiva rampa inclinata di roccia di circa 20 metri non mi preoccupa più, è il momento di urlare forte e buttare fuori dopo 20 anni quel tarlo che abitava dentro di me… I successivi passaggi seppur facili sono pericolosi da fare con gli scarponi rigidi su roccia liscia, arrampicando all’indietro e con gli sci nello zaino, ma d’altronde il nome Via dell’Inglese, i suoi salitori lo diedero proprio per questi motivi: semplice e pericolosa. Il resto è incredulità e gioia. Incredulità per quanto fatto che nel mio piccolo è stato davvero grande e gioia nella telefonata e poi nell’abbraccio della mia ragazza. Lei era l’unica persona al corrente che quel giorno avrei disceso la parete Fasana al Pizzo della Pieve e che al posto di urlare e insultarmi, ha pianto di gioia con me…
NOTE TECNICHE
La discesa è stata effettuata salendo dal versante opposto, ovvero da Cainallo con gli sci e nell’ultimo tratto con i ramponi. Le foto "soggettive" sono del giorno della discesa ovvero il 5 aprile 2025. Le foto riprese da lontano e dall’alto sono state effettuate il giorno 11 aprile tramite l’utilizzo dell’elicottero e del drone.
La salita era stata precedentemente tentata sia dal basso che dall’alto, e sull’itinerario nei punti maggiormente esposti, sono stati predisposti precedentemente dei punti di eventuale calata (difficilmente predisponibili durante la sciata in caso di ritirata) non utilizzati però durante la discesa.
Durante tutta la discesa avevo un cordino in kevlar filato nello zaino e pronto all’utilizzo, gli etici dello sci estremo senza zaino e casco si staranno scandalizzando di ciò… poco mi importa ho ancora tanta voglia di sciare.
La discesa nella parte alta mantiene costantemente pendenze superiori ai 45° e per lunghi tratti tra i 50° e i 55°. In alcuni punti nella parte centrale si arriva a raggiungere pendenze di 60° verificate però solo col "metodo del gomito" e non con strumenti quali inclinometri ecc…
Ciò dal mio punto di vista cambia davvero di poco, in quanto la difficoltà della discesa non sta tanto nella pendenza, ma quanto nell’identificazione dell’itinerario tra i diversi passaggi di roccia, oltre alle letali conseguenze in caso di caduta da qualsiasi punto della parete.
Sulla stessa via sono altresì comunque effettuabili linee differenti per inclinazione (sia maggiore che minore) ma la scelta effettuata è stato frutto di una logica di discesa e ponderata dalla ricerca della neve migliore in quel determinato momento. Non è escluso che eventuali ripetitori, possano trovare linee migliori, a me è venuta cosi.
La discesa è stata effettuata tutta con gli sci ai piedi fino alla base del Dente della Fasana, dove per mancanza di neve l’ultima facile parte è stata effettuata in disarrampicata (circa 20m). Gli sci sono stati successivamente calzati per sciare il conoide basale, fino al sentiero nel bosco in direzione del "Pra del Giar".
Il grado proposto è di 5.3 forse 5.4… ma già i gradi in arrampicata lasciano il tempo che trovano e sono figli della soggettività e del narcisismo di chi li dà, figuriamoci sullo sci ripido dove le condizioni della neve cambiano da stagione a stagione e di giorno in giorno. Inoltre siamo sciatori non geometri… Il D4 come livello di esposizione al pericolo è indubbio!
Sulla maggior parte delle relazioni la salita viene data di grado alpinistico D. Ma le difficoltà poco mi interessano. Non ho sognato tutto ciò per 20 anni solo per il gusto di dire ho fatto questo grado, quanto piuttosto per rivivere ogni volta che chiudo gli occhi il viaggio che mi ha portato qui.
- Andrea Carì