Per l'arrampicata del futuro. Di Massimo Malpezzi

Partendo dalla riflessione di Andrea Tosi sul 'nuovo' nell'arrampicata, Massimo Malpezzi propone alcune considerazioni sul presente e sul futuro dell'arrampicata sportiva; tra etica, sicurezza e responsabilità delle vecchie generazioni verso quelle nuove.
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Uscita estrema per Enrico Baistrocchi su Onix 8c aperto da Bock area fiume di Chironico
Massimo Malpezzi
Sull’onda del pezzo scritto da Andrea Tosi, che analizza con passione il tema futuristico dell’arrampicata e del suo mondo, soprattutto in un ottica di sicurezza, vorrei provare a fare alcune riflessioni generali sul tema.

Credo sia inevitabile che la massificazione, in ogni sport, porti con sé sintomi di degrado. Quando da poche centinaia si passa a migliaia di appassionati, spesso provenienti da fasce assolutamente ignare di regole, di etiche, di cultura e di storia, può capitare che si produca una degenerazione generale (credo in buona fede). Mi spiego, quando moltissimi giovani, e non solo, per moda, curiosità o semplice passione ancestrale per la montagna abbracciano l’arrampicata come momento di svago e decidono di farlo senza nessuna base culturale specifica di questo sport, dunque senza porsi nessuna domanda, è facile incappare in azioni spesso lontane da ciò che l’arrampicata porta con sé storicamente. Regole ed etiche spesso non si conoscono del tutto, inoltre, complice la mitizzazione, frutto della spettacolarizzazione mediatica di alcuni arrampicatori di punta, il neofita si concentra spesso solo sul grado come unico obiettivo tralasciando aspetti importanti, se non basilari, per raggiungere serenamente proprio quei gradi prefissati, che non neghiamolo, sono comunque l’essenza dell’arrampicata sportiva. Ma non è colpa loro.

Una premessa articolata per introdurre alcuni temi a me cari che credo siano artefici di un equivoco che genera colpevolezza proprio verso coloro che si affacciano verso l’arrampicata per la prima volta. Non sono loro il problema. Il problema siamo noi… noi arrampicatori esperti e scafati che da un ventennio scaliamo sulle rocce del mondo. Noi climber esperti, noi testimoni di una storia importante e che non riusciamo (o non vogliamo) trasmettere alle nuove generazioni, tanto che a volte sembra che non ci interessi farlo, preservando esclusivamente il nostro “piccolo mondo”. Vorrei quindi ribaltare la questione responsabilizzando gli addetti ai lavori, coloro che hanno fatto dell’arrampicata una filosofia di vita, ma che, ahimè, sembra vogliano farla rimanere una cosa privata a difesa di piccoli orticelli. E per questo vorrei partire proprio dalla sicurezza.

Alcuni ultimi eventi tragici accaduti ci hanno fatto “rinsavire” scuotendo non poco le nostre anime, scioccando quanti pensavano l'arrampicata sportiva come ad una normale attività senza pericoli, perché in maniera dozzinale ci dicevamo che “tanto non facciamo l’alpinismo”. E' un po' come negli stadi quando periodicamente succede che ci scappi il morto. Solo allora la società civile si indigna e vuole giustizia, richiamando alle regole esistenti. Ma dura poco. Così ci capita di fare nel nostro ambiente, con tutti a dirsi come si deve fare per evitare che capitino simili drammi nelle falesie. Sinceramente faccio fatica a rimanere tranquillo, quando nelle mie quotidiane frequentazioni di palestre indoor e di falesie continuo ad assistere ad azioni così lontane dalla sicurezza più elementare. Mi limiterò a citare i laschi di corda che scendono allegramente dal Gri-Gri, scivolano sul terreno per un paio di metri e si alzano dondolanti fino al primo spit, mentre il compagno lo ha appena superato, magari vibrando… oppure le mani che fanno tutt’altro al posto di tenere il freno meccanico autobloccante visto che, siccome fa tutto da solo, va bene così... Ma non vi tedierò con altri esempi, tengo per me le tante eclatanti ed indelebili visioni di un approccio men che approssimativo, anzi spesso del tutto superficiale.

Quel che è certo è che abbiamo il dovere di richiamare con forza chi ci sta di fianco in palestra indoor e in falesia in nome della nostra esperienza. Questo significa sensibilizzare tutti coloro che non sanno cosa potrebbe succedere a quel loro amico. Allora mi viene in mente un'idea, creiamo la giornata della sicurezza, in tutte le palestre indoor e nella domenica successiva nelle falesie più importanti d’Italia, organizziamo gruppi di arrampicatori esperti che si adoperino a sensibilizzare gli arrampicatori sulla sicurezza, sull’uso dei materiali, sulle conseguenze di certe azioni, dimostrando cosa potrebbe accadere. Decidiamo un giorno all’anno.

Un'altra riflessione, invece, parte dalla responsabilità che molti testimonial di primo livello hanno verso la comunità degli arrampicatori tutti. Da anni non esiste una presa di posizione vera, decisa, dura. Che rotta sta prendendo l’arrampicata oggi? Ho la netta sensazione che l'etica legata alle regole fondamentali si stia progressivamente perdendo, vale tutto, per poter raggiungere l’agognato grado. Alcuni climber di prim’ordine, che spesso leggiamo sulle cronache della libera, o che ammiriamo attraverso video, spesso scadenti, dovrebbero esporsi con forza e personalità prendendo posizioni chiare. Dando indicazioni etiche e di regole perché sono loro che di fatto possono influire sui giovani.

Quando pensiamo al neofita arrampicatore che si affaccia per la prima volta e inizia a scalare, non si può non farlo chiedendoci con sincerità chi sia stato a dargli i primi rudimenti. Sono stato testimone di lezioni a dir poco imbarazzanti, con arrampicatori “esperti” (li chiamavano qualche anno fa “focozzoni”) che legittimavano lo slungo a catena di due metri su una chiodatura normale per ovviare a quella poca decisione che si dovrebbe avere, la possibilità di scavo se la sezione non fosse provvista di appigli, di lanci alla catena, o l’assalto scientifico per mesi al tiro della vita, tralasciando la meravigliosa possibilità del viaggio itinerante in falesie diverse, là dove è possibile il vero confronto tecnico e l’accrescimento interiore. Va da sé che il “poveretto” crederà che scalare sia questo. Diverso è avere una impronta etica sostenibile, legata alla storia dell’arrampica, all’etica giusta ed equilibrata, al rispetto e all’umiltà necessarie per affrontare l’arrampicata seriamente. E chi, se non un professionista, può far cambiare questa pericolosissima direzione degenerativa stile parco giochi?

Sulle chiodature e la nascita di nuove falesie, tocchiamo un tema assai delicato per vari motivi, Tosi giustamente rimarcava la necessità di un maquillage necessario ancor prima di una ricerca sistematica di nuove falesie. E' vero, molti siti sono pericolosamente rimasti lì dall’epoca preistorica con le loro catene obsolete e i loro spit che potrebbero saltare via ad ogni volo. Credo però che la ricerca di nuove porzioni di roccia sia tuttavia legata inequivocabilmente al tentativo di trovare pietra intonsa e aderente, alla curiosità. Ma è altrettanto vero che in Italia esistono migliaia di pareti storiche e che spesso, ricollegandomi alla riflessione sul viaggio itinerante, molti giovani non prendano in considerazione le tante possibilità già esistenti, fossilizzandosi in maniera un po' oziosa sulla falesia più vicina a casa.
Spesso a sostenere questa “malavoglia” al viaggio e alla ricerca c'è anche la non accettazione di un confronto; la paura di esporsi porta l’arrampicatore a cercare la situazione più comoda, la nascita o la scoperta di falesie cosiddette “farlocche”, anche estere, ne sono un esempio.

Diverso è capire, al di là di fattori personali, quanto sia pericoloso creare aree di arrampicata accessibili a tutti in nome di un non meglio precisato nuovo movimento, quasi a cercare, per il mercato, sempre più arrampicatori di medio livello che possano scalare in massima sicurezza. Il retro pensiero è legittimo, si venderanno più scarpette, più imbragature, più rinvii… è possibile trovare una via di mezzo? O meglio è possibile creare una generazione di nuovi arrampicatori, eco solidali, che sappiano riconoscere attraverso la natura vera l’opportunità di vivere l’arrampicata come avventura nella migliore sicurezza possibile, non facendola diventare una scialba e triste sequenza di movimenti fin su alla catena? Possiamo davvero privarci di questa idea che l’arrampicata-gioco debba essere anche adrenalina, che comprenda cioè quel pizzico di paura necessario per ristabilire il corretto divario tra uomo e natura?

Quesiti ambiziosi, ma se vogliamo provare a dare un futuro all’arrampicata dobbiamo impegnarci per ritrovare ciò che l’arrampicata fu, ripercorrere le strade del passato che possono aiutarci a capire. Quel lontano “Nuovo Mattino” così esaltante, va in qualche maniera ripercorso per dare entusiasmo ad un mondo che sta diventando così deprimente. E’ necessario tornare a leggere non solo i gradi ma capire le problematiche attraverso le storie del passato, PlanetMountain spesso lo fa riproponendo la storia come fattore vincolante per la crescita personale di ogni arrampicatore, stimolandone la fantasia e prendendo spunti da essa. Non è chiodando, spesso anche male, mille falesie in più, non è cercando la performance attraverso piccole furbizie che si cresce.

Chiudo con un appello verso coloro che davvero hanno fatto dell’arrampicata uno stile di vita e di lavoro, ai professionisti, a coloro che hanno in mano il mercato, date un esempio e rilanciate l’arrampicata, ma non facciamola diventare degrado e parco gioco.

di Massimo Malpezzi

08/01/2014 - Duemilaquattordici. Il nuovo e l'arrampicata di Andrea Tosi
06/11/2012 - Fotografare l'azione dell'arrampicata, di Massimo Malpezzi




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