'Oltre i confini del Pensiero' alla Parete Bahador in Val d’Adige

Il report di Walter Polidori dell'apertura di 'Oltre i confini del pensiero', una nuova via alla Parete Bahador (toponimo proposto) nel gruppo del Corno d'Aquilio in Val d’Adige. La via è stata aperta in più riprese insieme a Alessandro Ceriani, Gianmaria Romanò, Alessandro Pelanda e Said Taghipour.
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'Oltre i confini del Pensiero' alla Parete Bahador in Val d’Adige
archivio Walter Polidori

Durante la fermata dovuta alla pandemia, molti dei progetti che avevo in testa sono rimasti congelati, in attesa di tempi (e allenamento) migliori. Poi abbiamo tutti ricominciato ad andare in montagna regolarmente, ad allenarci, a riabituarci al mondo verticale. Però mi è mancato il mordente, qualcosa è cambiato. L’età che va avanti non aiuta, ma non è solo quello. Abituarmi a coltivare di più gli affetti, ad essere più presente in famiglia, dedicarmi alla mia amata casa, mi è piaciuto e ho deciso di non rinunciare a questa presa di coscienza. La passione però, per fortuna (?), se è ben radicata non se ne va, tanto che ho ricominciato realmente a pensare a nuove aperture. Come ho scritto molte volte, “aprire una via crea dipendenza” (cit. dell’amico Simone Rossin).

Una struttura in Val d’Adige, sulla sinistra orografica, mi incuriosiva da anni. La parte più bella di un progetto di apertura è, per me, quella di individuare la parete, il modo di raggiungerla, e la linea da seguire; è esaltante! E poi avevo voglia di studiare e esplorare una zona completamente nuova con l’amico e compagno di cordata Alessandro Ceriani, socio di tante arrampicate, ma con cui non avevo ancora portato avanti nessun progetto di apertura dall’inizio alla fine. Altri amici si sarebbero sicuramente aggiunti.

Dopo molto tempo in cui mi sono dedicato a raccogliere informazioni sul web, senza arrivare a nulla di concreto, sono arrivato per caso ad una relazione dell’amico Filippo Nardi. Lo spigolo che avevo puntato da anni era già stato salito, da diverso tempo, dal grande Nicola Tondini. La via si chiama Dulcis in fundo, alla Parete Incantata, sotto la direttiva del Corno d’Aquilio, montagna più conosciuta per l’escursionismo e la famosa Spluga della Preta, un abisso di origine carsica che si trova poco a nord della sommità del Corno d'Aquilio. Nel frattempo ho chiamato persone fidate e grandi apritori, come Roby Galvagni e Giacomo Damian, senza però riuscire a trovare altre informazioni.

Giuliana Steccanella, alpinista e compagna di uno dei miti della Val d’Adige, Sergio Coltri, mi ha invece messo una pulce nell’orecchio: Sergio aveva già puntato a quella zona in passato, ma il suo obiettivo era la parete giallo-grigia alla destra dello spigolo di Tondini. Non ci avrei mai pensato, non perché la parete non sia attraente, ma perché è chiaramente una parete difficile, verticale e piena di strapiombi e tetti. Ormai però la voglia di vederla da vicino si era concretizzata, tanto da organizzare un weekend per andare a toccarla con mano.

Sabato 10 settembre 2022, dopo aver studiato cartine, fotografie, tutte le informazioni trovate, siamo partiti verso quel vallone che parte da Borghetto e sale a Punta Rocca Pia, passando sotto la direttiva della parete. Alessandro, Pelo (Alessandro Pelanda) ed io eravamo gli “esploratori”. Non c’è un vero e proprio sentiero, ma il percorso è evidente e si trovano tracce di passaggio. Si tratta comunque di un luogo selvaggio, affascinante, dove in tutte le giornate descritte in questo racconto non abbiamo mai incontrato anima viva.

Salito un buon tratto di vallone, ci siamo fermati attoniti quando abbiamo sentito un verso selvaggio e potente, che abbiamo ipotizzato essere il bramire di un orso. Aumentando il passo, sempre avvolti dal bosco fitto, siamo infine saliti su terreno ripido fino alla parete, ed abbiamo cominciato a costeggiarla alla base, nella speranza di trovare qualche punto debole in quella muraglia. Passando per cenge esposte, tratti terrosi e saltini, abbiamo individuato un punto molto interessante, anche se evidentemente difficile. Purtroppo l’invitante roccia nera si è dimostrata inscalabile per la spessa patina lichenosa sulla sua superficie. Verso destra però si vedeva un pilastro, verticale e bellissimo, che forma un diedro, dall’apparenza molto ostica. Era l’unica possibilità evidente. Il diedro non arriva a terra, così abbiamo pensato di raggiungerlo da una cengia rocciosa, che porta sotto una parete con un diedro strapiombante e curvo, alla fine del quale, forse, sarebbe stato possibile arrivare al diedro principale.

Con il cuore a mille sono partito, attraversando la cengia e raggiungendo una cengia più piccola poco sopra, alla base del diedro curvo. La strategia di apertura, per una via di questo tipo, ha previsto anche l’uso del trapano, per posizionare dei fix. Non mi esalta questo tipo di apertura, è molto più gratificante salire con chiodi e protezioni veloci, ma il progetto ambizioso, su roccia compatta, lo ha reso necessario.

Iniziando a salire ho capito quanto fosse difficile quel tratto, e dopo essere caduto per un friend che si è sfilato da una fessurina, ci siamo fermati a riflettere sul senso di questa apertura. Però la curiosità di vedere oltre lo spigolo, alla fine del diedro ad arco, ci ha spinti a continuare. Ho deciso di affrontare quel tratto compatto utilizzando solo fix, cercando di piazzarli il più distante possibile fra loro. Dopo un tempo che non riuscirei bene a definire mi sono ritrovato stanco e provato, così da chiedere il cambio a Pelo. La parte successiva del tiro, sempre strapiombante, permette l’uso di qualche protezione veloce, e Pelo è riuscito a sbucare oltre lo spigolo. Un grido di soddisfazione e gioia ci ha fatto capire che, forse, avremmo avuto qualche possibilità. Un ampio terrazzo, invisibile nella luce del mattino, ci ha dato la possibilità di organizzare una sosta comoda, sotto il gran diedro, dall’aspetto meno repulsivo e probabilmente fattibile, almeno nel primo tratto davanti a noi. Per arrivare alla macchina col chiaro abbiamo però preferito calarci, lasciando parte del materiale in sosta per la volta successiva. Arrivati ai vigneti, è venuto spontaneo girarsi e guardare verso la parete. La linea di salita che avevamo intenzione di salire è meravigliosa, una specie di “s” nera in un grande muro giallo, un disegno della natura difficile a credersi.

Per la notte ci siamo riparati, in sacco a pelo, sotto una tettoia in un parco pubblico, per una pioggia inaspettata. Ancora più inaspettata però è stata la doccia causata da un impianto di irrigazione automatico partito nella notte. La mattina dopo, vuoi per la pioggia che aveva un po' bagnato le pareti, vuoi per la notte insonne, abbiamo deciso di rimandare il lavoro.

Passata una settimana, alle otto eravamo di nuovo in marcia verso il nostro progetto. L’avvicinamento ora era noto, ma partendo a camminare per primo ho fatto in modo di perdermi tra i vigneti… possibile che ci siano due vie con lo stesso nome in quel posto? Comunque siamo arrivati all’attacco conosciuto, e salito il primo tiro difficile, addomesticato dai fix e da cordoni aggiunti per essere più veloci. Ale è partito per quello che sembrava un tratto abbastanza facile, ma la roccia lì è di qualità scarsa e la parete si impenna subito, ancora verticale, ancora povera di appigli. Con un po' di artificiale su chiodi malsicuri ed una uscita su terreno instabile, destreggiandosi su un tiro non facile da salire, è arrivato ad una cengia, dove ha organizzato la sosta.

Ora toccava a me salire e, visto il tiro precedente, il cuore mi batteva a mille per la tensione. Raggiunta una piccola lista sopra la sosta, ho doppiato uno spigolo e raggiunta una spaccatura, punto debole per salire il diedro. In posizione innaturale ho piazzato un fix, ghisando il braccio con cui mi tenevo, poi un friendino, un altro friendino e poco sopra un altro fix. Mi sono reso conto di non essere carico. Avevo solo quattro fix con me, non sarei riuscito a terminare il tiro. La debolezza e la paura hanno preso il sopravvento, così mi sono calato. Valeva la pena continuare? Stavamo salendo molto in artificiale, ma con diversi passi scabrosi in libera. In alto altri muri verticali e tetti imponenti e spaventosi allo stesso tempo sbarravano la strada.

Siamo scesi, pensando di decidere se proseguire nei giorni a venire. La solita discesa, ogni volta in un punto diverso del bosco, ci ha portati alla traccia nel vallone, che sfocia nei vigneti assolati. Nel punto dove si incomincia a vedere la parete ci siamo fermati di nuovo ad ammirarla. È troppo bella quella linea… Il pensiero è andato a poche ore prima, ed ho condiviso con gli amici un sentimento strano: quando stavo lottando sulla parete non vedevo l’ora di scendere, di essere altrove, lontano da quelle rocce aggettanti e repulsive. Ora stavo già pensando di tornarci. Il nostro diedro è difficile da capire nelle dimensioni, la parete è strapiombante, con molti tetti, tanto da distorcere la reale fattezza di quelle rocce. La realtà, purtroppo, è sempre più difficile dell’apparenza.

È un po' che avevo in mente di provare l’esperienza di una apertura di una via sportiva, su difficoltà meno “classiche”, protetta a fix dove non si possono utilizzare protezioni veloci. In questo caso specifico la via ha una linea naturale, le difficoltà sono elevate, la roccia non è sempre ottimale ma soprattutto è spesso compatta e difficile da proteggere. Nella misura in cui non mi interessano i giudizi altrui, mi avrebbe portato soddisfazione aprire in questo modo? Ho pensato di sì, prevedevo una bella esperienza, per nulla facile o scontata.

Pelo, dopo qualche giorno di meditazione, ha deciso di uscire dal gioco. Più etico di me, ha considerato che non sarebbe stato appagato da questa apertura. Ma Ale ed io rimanevamo affascinati ogni volta che guardavamo le foto di quella linea, quasi soggiogati da essa. Siamo tornati dopo qualche settimana, il 29 ottobre. Questa volta con noi c’era Said Taghipour, amico e forte alpinista, interessato a questa avventura. Abbiamo ripetuto i tiri già saliti, con una consapevolezza differente. Ormai la via che stavamo aprendo era sportiva, quindi avremmo messo dei friend e chiodi solo se ritenuti sicuri; per il resto avremmo piazzato dei fix, sempre mantenendo la regola di non banalizzare la via piazzandoli troppo vicini. Finito il tiro che ho solo iniziato la volta prima, Ale ne ha salito un altro, arrivando finalmente alla base di una placconata dall’aspetto più bonario. Ancora una volta però è diventato tardi, così siamo scesi in doppia e siamo arrivati alla macchina col buio, con un “bottino” soddisfacente: due nuovi tiri erano nati.

Arrivato il lunedì, l’idea fissa per l’apertura si è di nuovo fatta strada nella mia testa, e così in quella dei soci, tanto che abbiamo deciso di tornare la domenica successiva. Un’altra levataccia e il solito avvicinamento nella jungla nostrana, ci hanno portato all’attacco. Questa volta con noi avevamo una corda fissa, perché abbiamo capito che ogni volta stavamo perdendo troppo tempo per ripetere i tiri già aperti, nonostante fossero già attrezzati. Said è partito con un nuovo tiro dalla base, che avevamo individuato in precedenza, evitando l’entrata dalla cengia laterale e raddrizzando la linea. Poi ha continuato a salire nei successivi due tiri, dove ha piazzato qualche fix aggiuntivo, per evitare delle protezioni precarie usate in precedenza. In particolare, il terzo tiro era protetto in una zona con due chiodi, ma questa volta quello superiore ha deciso di cedere, strappando anche quello sottostante. Said ha fatto un bel volo ed io che lo assicuravo ho sbucciato un po' le nocche delle mani; niente di grave per fortuna. Salito il quarto tiro, imprecando per la distanza tra i fix (ma come avevo fatto a metterli così lontani, in apertura?), sono arrivato in sosta con l’orario ormai stringente. Novembre non è il mese più adatto per avere luce a sufficienza. In questa puntata non abbiamo neanche raggiunto la sosta del quinto tiro, ma il primo tiro è stato raddrizzato, sono stati aggiunti i fix necessari, ed è stata messa in posto la statica, che ci avrebbe permesso di salire più velocemente la volta successiva. L’idea era di tornare a inizio della primavera successiva. Non sapevamo quanto avremmo tribolato per continuare, ma spiando la parte superiore tra le fronde del bosco sottostante, sembrava che avremmo avuto del filo da torcere, in mezzo a tetti intriganti quanto spaventosi.

Il 24 giugno 2023, dopo numerosi weekend rimandati per incastrare i vari impegni personali, Ale, Said ed io abbiamo ricominciato l’avventura, dopo i quattro tentativi precedenti. Questa volta abbiamo deciso di puntare a due aiuti supplementari: le lunghe giornate di giugno e la salita con saccone, preventivando un bivacco al termine della prima giornata. Siamo saliti verso la nostra bella parete appesantiti da zaini enormi. Salire la corda fissa piazzata la volta precedente ha aiutato, ma è risultato comunque faticoso, anche per la gestione del recupero del saccone. Lentamente però siamo saliti, fino ad arrivare alla sosta di L5, l’ultima lunghezza che avevamo raggiunto.

Alessandro è stato in gamba, ha guidato la salita fino a qui. Ora toccava a me continuare, su una lunghezza dall’aspetto meno repulsivo. Nel frattempo, erano le 16,00, il sole di fine giugno è arrivato alla parete. Con tanta fatica, sudando sette camicie e facendo attenzione alla roccia da verificare, sono riuscito ad arrivare al terrazzino che avevo individuato nelle foto, trentacinque metri sopra. Grandi blocchi giallastri mi hanno fatto notare quanto la parete superiore, sotto i grandi tetti, sia precaria nella zona dei gialli. Arrivati i miei soci c’era ancora tempo per continuare; io non ne volevo sapere di aprire, cotto come mi ritrovavo. Alessandro si è offerto di partire, ma dopo qualche metro e qualche trapanata è sceso perché anche lui stanco della lunga giornata. Rimaneva un grande dubbio: come arrivare al termine della parete? Sopra di noi il diedro continuava con una fessura friabile, fino a grandi tetti gialli che sbarravano la strada, con blocchi che non avrei neanche voluto sfiorare. Rimaneva a destra un muro compatto, sotto un altro grande tetto, e più sopra altri strapiombi. Ormai avremmo lasciato alla mattina successiva la decisione, ora era il momento di riposare, nel nostro terrazzino sulla Val d’Adige.

L’esperienza del bivacco, abbastanza confortevole, è stata molto positiva, abbiamo avuto modo di scherzare e affrontare la situazione per quello che poteva offrire. Quando capita di dormire in un posto del genere? La Val d’Adige era ben visibile, vicina, ma la sensazione di isolamento in quel posto è veramente forte, paurosa ed esaltante allo stesso tempo. La stellata, le luci dei paesi nella valle, il sorgere della luna e poi al mattino il cielo che si tinge di rosso; non dimenticherò quei momenti.

Il mattino però ha portato le prime incombenze: per prima quella di districare le corde stese sul terrazzino: due mezze corde, la corda fissa rimanente e il cordino per il recupero del saccone. Poi c’era da decidere come e se continuare. Alessandro è ripartito, arrivando in breve all’ultimo fix messo la sera prima. Un altro fix e poi? Il muro compatto avrebbe comportato la necessità di forare la roccia in maniera seriale, a distanza ravvicinata. Altrimenti avremmo potuto seguire una fessura orizzontale verso destra e raggiungere la parete di destra del grande spigolo, all’apparenza compatta e ricca di strapiombi. Lo sconforto ci ha raggiunto; se fino alla sosta 6 le difficoltà sono alte, ma propongono passaggi arrampicabili, ora si sarebbe trattato solo di arrampicata artificiale su fix? In questi casi, quando ci si ferma, rimane sempre il dubbio sulla scelta fatta, ma abbiamo deciso di non proseguire. Non sapevamo se la scelta fosse quella giusta; vedere il bosco sommitale a portata di mano, forse due tiri sopra di noi, e non raggiungerlo, mi ha lasciato parecchio amaro in bocca.

Comunque il sollievo, dopo quella decisione, è entrato subito nelle vene, non avremmo dovuto continuare a “lavorare” in parete. È molto più impegnativo, fisicamente, aprire con trapano che con protezioni veloci o chiodi, questo è sicuro. Abbiamo preparato il barattolo con il libro di via, con il nome già deciso: I Confini del Pensiero, da una idea di una persona cara ad Alessandro. Questo nome è uno sprono alla ricerca del nuovo, alla possibilità di andare oltre i confini che noi stessi ci costruiamo, senza vedere oltre. Rimaneva da dare un nome alla parete. Said, orgoglioso della sua origine persiana, ha proposto Parete Bahador, che significa coraggioso nella sua lingua. Pare che l’origine sia legata al nome di un antico e coraggioso guerriero persiano.

Ora bisognava scendere, rimuovendo man mano la lunga corda fissa che ci aveva accompagnato fin qui. In realtà un lavoro impegnativo, soprattutto nelle lunghezze strapiombanti e oblique. Abbiamo anche recuperato due mezze corde che si erano incastrate nel tentativo precedente, così che alla fine avevamo sulle spalle molto più materiale che nell’andata. Ma la via era fatta!

Durante la discesa, in quel vallone selvaggio, abbiamo incontrato una piccola vipera e due bellissime e grosse bisce nere, a testimoniare quanto il posto sia poco frequentato. Dopo il bosco, il sole di fine giugno ci ha dato il colpo di grazia, facendoci arrivare grondanti alla macchina. Era ora di sistemare e dividere il materiale, sembrava un mercatino con tutta quella roba sparsa per terra. Dalla casa di fronte al parcheggio proveniva una musica che mi aveva indispettito; avevo pensato che stonava con il silenzio della giornata. Poi da quella casa è uscito un ragazzo che, inaspettatamente, si è presentato davanti a noi con tre lattine di aranciata amara, giusto perché ci ha visti così stanchi e indaffarati. Mi sono sentito meschino e ho pensato che esistono ancora persone che sanno dare, senza chiedere nulla. Pensando alla via, ricorderò sempre con piacere, e prima di tutto, quel ragazzo buono e gentile.

Dopo la chiusura della via, ho passato mesi a guardare le foto della via salita. La decisione di terminarla sotto i tetti era accettabile, ma quella linea disegnata sulla foto della parete, in mostra nell’ufficio dove lavoro, continuava ad apparirmi monca. Una morsa di insoddisfazione mi prendeva allo stomaco ogni volta che ci pensavo. Poi un giorno, dopo una giornata di arrampicata con Said e Ale, siamo andati sull’argomento ed ho scoperto che condividevamo lo stesso disagio, e la voglia di rimetterci in gioco, per andare oltre e raggiungere la fine della parete. L’intenzione era di forzare l’uscita, cercando però di individuare lunghezze arrampicabili, magari troppo difficili per noi da salire in libera, ma non impossibili in senso assoluto.

Abbiamo aspettato il momento giusto, per essere liberi tutti e tre, e si è aggiunto anche il giovane Gianmaria, già compagno di salite di Alessandro. Ho proposto di approcciare la via dall’alto, per evitare di dover risalire con il materiale di apertura tutte le lunghezze fatte. Non sarebbe stato comunque facile, per l’avvicinamento pieno di incognite; ci saremmo immersi nelle grosse cenge boscose che si trovano sopra la parete. La cosa però ci affascinava. Trovato il punto dove calarci sulla via, avremmo raggiunto la sosta finale e avremmo ripreso a salire.

Il 14 settembre 2024 abbiamo lasciato la macchina al parcheggio di Tommasi, un piccolo paese che si trova sul bellissimo altopiano della Lessinia. Dalla Val d’Adige non ti aspetti che al di là delle montagne che la chiudono a est ci possa essere un paesaggio ondulato e bucolico così dolce. Dal parcheggio un sentiero porta verso Cima Rocca Pia, che si trova al culmine della Val Rocca Pia, il vallone utilizzato per l’avvicinamento dal basso. Poi il sentiero scende, e si biforca con un altro sentiero che probabilmente sale verso il Corno d’Aquilio. Non so dire se esattamente sia il Sentiero dei Contrabbandieri o un altro sentiero parallelo. Continuando per quel sentiero e seguendo le carte topografiche, anche con l’ausilio di una bella applicazione che indica dove ti trovi rispetto alla mappa che visualizzi sullo schermo dello smartphone, abbiamo cercato di raggiungere la posizione GPS che Ale aveva ricavato dalle ultime foto fatte in parete.

Abbiamo girovagato per sentieri sconosciuti e ripidi pendii boscosi, tornando infine sui nostri passi, fino ad individuare, finalmente, il giusto punto per scendere il pendio e poi traversare verso la cengia boscosa sopra la parete. Alcuni tratti sono stati impegnativi, poi inaspettatamente abbiamo trovato una traccia molto esile che procede proprio verso quella cengia. Lì c’è una fascia rocciosa, alla cui base abbiamo trovato manufatti di legno, probabilmente costruiti da cacciatori. Mi sono calato verso la parete, trovandomi esattamente sopra i tetti che chiudono il diedro. Vedevo anche il terrazzino del nostro bivacco. L’esposizione è da paura, bellissima, ti cattura a sé. Il punto dove mi trovavo era però troppo esposto per prevedere di uscire proprio lì, quindi mi sono spostato di una decina di metri, calandomi più a destra, dove ho preparato una buona sosta. Peccato che, passando dal bosco alla parete, mi sembrava di essere finito all’interno di una lavatrice, per il vento che soffiava in maniera micidiale. Arrivati in sosta anche i miei soci, per godere dell’esposizione spettacolare, abbiamo nostro malgrado deciso di tornare indietro, viste le condizioni proibitive, mantenendo il dubbio sulla direzione dove sarebbe stato meglio calarci. Tornare seguendo l’esile traccia dei cacciatori è stato più facile, così da evitare i tratti esposti percorsi al mattino. Abbiamo aggiunto molti ometti, per facilitarci nel successivo tentativo.

A distanza di una settimana, il 21 settembre siamo partiti di nuovo dal parcheggio di Tommasi, pronti per terminare la nostra via. L’avvicinamento, ormai conosciuto, è andato meglio, anche se ad una svolta siamo riusciti a perdere la direzione giusta. In 1h 40’ siamo arrivati alla nostra corda fissa, molto meglio delle 3h abbondanti della volta precedente.

Volentieri ho iniziato io a scendere in doppia, portando con me una corda fissa, che sarebbe stata l’assicurazione per eventuali necessità di ritorno. Scendendo qualche metro in direzione del diedro, per quella che sarebbe stata l’uscita diretta e spettacolare tra i tetti, purtroppo non ho trovato le fessure che mi sarei aspettato di trovare, ma solo roccia compatta e polverosa, oltre che bagnata. Rimaneva la possibilità di scendere oltre lo spigolo creato dal diedro, alla sua destra. Calandomi in obliquo, ho superato la direttiva dei tetti, così da trovarmi su una parete grigia molto bella, anche se visibimente difficile e ricca di strapiombi. Sono stato costretto a mettere qualche fix, con non poche difficoltà, traversando sempre più a destra, per poi scendere nella direzione del punto dove avevamo ormai deciso di partire con la prosecuzione della via.

Per arrivare all’ultima sosta de I Confini del Pensiero, si raggiunge una piccola cengia e da lì si sale qualche metro a sinistra, arrivando al terrazzino dove avevamo bivaccato al termine della via. Invece di andare a sinistra, se si segue la breve cengia verso destra, si arriva alla base dello spigolo che delimita a sinistra il grande diedro e alla sua destra si trova la parete grigia che ora avevamo deciso di salire. Quello sarebbe stato il punto di sosta, ben raggiungibile dalla via che avevamo aperto. Peccato che calandomi, per non mettere troppi fix, ho sottovalutato la distanza delle corde dalla parete, tanto da trovarmi nel vuoto, a circa due metri dalla cengia, senza riuscire a raggiungerla. Dopo molti tentativi, per evitare di risalire le corde per parecchi metri, ho deciso di scendere ancora e raggiungere una cengia più sporgente, presente circa venti metri più sotto, dove ho fatto sosta e avvisato i miei soci della situazione. Said è partito con la calata in doppia, gli ho fatto avere il trapano tramite la fissa, così ha aggiunto altri fix ed è riuscito a stare più vincolato alla parete e raggiungere l’agognata cengia, che poi anche io ho raggiunto risalendo la fissa. Ale e Gianma nel frattempo erano arrivati, con non poca fatica perché la doppia è davvero molto obliqua e tortuosa. Già arrivare qui è stata una avventura, ora bisognava finalmente salire il tratto finale della via; la fotografia della parete avrebbe avuto una linea senza interruzioni, non sarebbe più stata monca.

Ale aveva il conto in sospeso con il tratto superiore, così è partito aprendo in un solo colpo i due tiri rimanenti, aggiungendo dei fix a quelli già messi dall’alto (dopo venti metri ha piazzato comunque una sosta per spezzare il tiro e facilitare i ripetitori). Le difficoltà sono alte, ma ci sembrano arrampicabili; i gradi proposti sono comunque tutti da confermare. L’ultimo tratto risulta decisamente impegnativo, anche a causa del sistema utilizzato per la chiodatura.

Siamo arrivati alla fatidica S8, soddisfatti di quella via che, per noi, era una nuova via. I Confini del Pensiero finisce a S6, ha una sua logicità e, oserei dire, una propria anima. Proseguendo in toto la via fino a S8, abbiamo deciso che si sarebbe chiamata Oltre i Confini del Pensiero. Abbiamo superato le nostre titubanze, siamo andati oltre le considerazioni razionali che ci avevano fatto desistere l’anno precedente.

Per tornare abbiamo deciso di utilizzare la traccia superiore: scendere in doppia è decisamente complicato nella parte finale. Il ritorno a piedi è comunque impegnativo, quasi sempre in salita, anche ripida. Inoltre, avevamo poche ore di luce e quindi il timore di trovarci al buio su quei pendii boscosi, dove solo esili tracce indicano il percorso (e qualche nostro ometto). Invece abbiamo raggiunto il sentiero segnato giusto al limite della visibilità. Da lì, con la lampada frontale, è stato facile tornare, in meno di due ore siamo arrivati alla macchina.

Quali conclusioni per questa avventura? L’etica di apertura non è stata esemplare, ricca di passaggi in artificiale e con un tratto chiodato in buona parte dall’alto ma, secondo me, la linea è logica, la via ha una bella personalità ed è stata vissuta in pieno dagli apritori. Dal punto di vista personale, sono entusiasta dell’esperienza. È stato impegnativo salire, ma molto gratificante; dal punto di vista umano lo è stato ancora di più, perché se le persone con cui si condividono certe esperienze sono quelle giuste, il legame tra di loro non potrà che diventare sempre più grande.

Ogni volta che guarderò quella “s” nera nel muro giallo della nostra parete, so che mi torneranno in mente decine di istanti pieni di divertimento, tensione, paura, soddisfazione, incertezza, condivisione. Quegli istanti si chiamano vita. Quando arrivi in cima continua a salire…

- Walter Polidori, Rescaldina

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