La Gusela di Cismon, l'arrampicata tra storie e memorie in Valbrenta
La falesia la Gusela di Cismon un angolo di mondo della Valbrenta (Vi) da sempre regno dell'arrampicata, raccontato con parole, foto e video da Giovanni Spitale e Matteo Mocellin. Da leggere, vedere e... frequentare.
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Marco Savio su Eagle, progetto ancora da liberare
Matteo Mocellin
La Statale 47 della Valsugana, la domenica pomeriggio, è una croce. È la principale via d’accesso alle montagne del Trentino per chiunque arrivi dal trevigiano o dal vicentino, è male asfaltata, ha un’orrenda strettoia all’altezza di Valstagna. La domenica pomeriggio, tornando a sud, si resta quasi sempre impacchettati in code eterne. Chi perda del tempo ad osservare il fluire lento del traffico, però, non può non notare come spesso i rallentamenti inizino all’altezza di Cismon, dove lo stradone corre ancora gagliardo su quattro corsie. Come mai? Colpa degli scalatori.
Cismon è uno dei posti che, in questa valle, sono stati la culla dell’arrampicata: quasi tutte le pareti circostanti sono segnate da innumerevoli vie, aperte soprattutto dagli anni ’70 in poi; chi le conosce e ci passa sotto in macchina immancabilmente rallenta, le segna a dito, racconta a chi condivide il viaggio di questa o quella salita.
Poi c’è la Gusela. Salendo a nord quasi non la si vede, mimetizzata contro la parete del Saccon. Scendendo a sud, invece, eccola svettare come un Cerro Torre, ma formato bonsai, quindi molto più appetibile. Ci corrono un paio di vie, di cui una (via Paolo de Tuoni, aperta nel 1976 da Berto Marampon) richiodata di recente ad opera di Ermes Bergamaschi e Mario Carollo. Se sei uno scalatore e ci passi sotto, beh, devi per forza rallentare e buttarci un’occhiata, e chissenefrega del traffico.
La Gusela nasconde qualcosa, un po’ per la sua capacità di calamitare l’attenzione dei climber distraendoli dal resto (incluso il paraurti dell’auto davanti) e un po’ perché ci sta fisicamente davanti. È una fetta di dolomia compatta, gialla, con qualche striatura grigiastra: bisogna proprio impegnarsi, per notarla.
Giulio Abrate, bassanese, classe 1976, bazzica la Valbrenta da vent’anni suonati. La nuova ed irriverente generazione di climber in segno di rispetto (e un po’ per coglionarlo) lo chiama “il nonno”. Gli scalatori gli devono molto: è il suo silenzioso ed infaticabile lavoro di chiodatore che ha prodotto alcune delle più belle e frequentate falesie della zona. Giulio è il genere di persona che nota sempre la bella roccia e se ne fa incuriosire, è una specie di esploratore del domestico: pochi conoscono la valle e le sue pareti come lui. Provare per credere: con lui ogni discorso iniziato con «sai, ho visto un posto dove si potrebbe chiodare qualche tiro» finisce immancabilmente per diventare un suo racconto: quando c’è stato la prima volta, quanti camosci gli soffiavano dietro mentre si calava, i fossili che ha visto, i residuati bellici che ha raccolto, le birre che si è bevuto dopo. Forse anche questa attitudine alla narrazione ha qualcosa a che vedere con il suo soprannome. In ogni caso, in valle è praticamente impossibile trovare buona roccia dove non ci siano uno spit, un vecchio chiodo oppure un cordino abbandonati da Giulio.
Date le premesse, questa fetta di dolomia compatta dietro alla Gusela di Cismon non poteva non fargli gola. «Era il 2007» racconta, mentre si infila l’imbrago ed un paio di improbabili (e nonnesche) babbucce pelose. «Era un autunno particolarmente piovoso, tutte le placche dei dintorni erano bagnate. Un giorno, scendendo da Trento, butto l’occhio dietro alla Gusela. Mi pareva di aver intravisto un pezzo di roccia tendenzialmente verticale ed incredibilmente asciutta, praticamente una manna dal cielo». Giulio inizia a preparare il suo materiale: controlla i rinvii, li conta, li appende all’imbrago con cura e in ordine. È salito quassù in buona compagnia, a godersi quella specie di miracolo che è l’arrampicata riscaldata dal sole di dicembre. «Ci ho messo un po’ a capire come arrivare: la prima volta che sono salito qua in cima mi è toccato girare i tacchi e tornare indietro». La ragione? Il tiro più facile della falesia è l’avvicinamento, ora attrezzato con corde fisse e scalette, ma decisamente ostico.
Del resto questa non è una falesia per merenderos: una cengia sottile, poco più di due metri, inclinata, isolata, inospitale. «Bellissima. Non è solo la roccia, questa spettacolare dolomia ruvida, segnata da tacche, liste e buchetti, che mi ha conquistato. Questa solitudine, questo isolamento, questa lontananza dalle cose del mondo hanno decisamente fascino». Le falesie non solo hanno un loro stile, ma col tempo si costruiscono anche un carattere, uno spirito che condiziona quello di chi ci scala: questa suggerisce contemplazione, ed incute rispetto. Giulio le ha dedicato parecchio tempo, negli ultimi anni: chiodare e liberare, liberare e chiodare. Il primo tiro è del 2008: First line,un bel 6b+ lungo e continuo, ed è il terzo tiro più facile della falesia (il primo è l’avvicinamento, ovviamente). Poi sono venuti gli altri: Galaxy, Stargate, Eutonia, Chupacabras... Sono tutte vie molto lunghe e molto tecniche; una scalata delicata, precisa, elegante.
«Questo posto sta diventando il riferimento per l’alta difficoltà in Valbrenta», racconta Giulio, non senza un po’ di orgoglio. Del resto qui ci sono 24 vie, con difficoltà concentrate attorno al 7b, e dieci superano l’8a. «Sono passati di qui Manolo, Silvio Reffo, Guido Dal Fovo, Rolando Larcher, Gigi Billoro, Valdo Chilese, Marco Savio...»
Marco Savio, pochi metri più in là, si sta scaldando sul primo tiro della giornata. È un habitué di Cismon: nei primi tre anni di vita della falesia ha liberato tutti i 24 tiri, salvo uno, Eagle, a cui anche oggi dedica qualche giro. La scalata di Marco, così delicata, ha qualcosa di ipnotico; si potrebbe restare a guardarlo per ore.
Il tiro più bello? Giulio quasi non pensa, prima di rispondere. «L’ho chiodato da poco. Si chiama Silvianne, come mia figlia, che è nata pochi giorni fa. Ho pensato che fosse un modo in più per darle il benvenuto. Poi magari un giorno, se deciderà di scalare, potrà tirarsela con gli amici: non sono tanti ad avere una “propria” via prima ancora di venire al mondo!»
Giulio ghigna di gusto mentre Marco, poco più in là, si fa calare dalla via che ha appena concluso. Qualcuno ripassa la corda, qualcuno mangia un frutto, qualcuno parte per un tiro.
Lontano, in fondovalle, un’automobile rallenta.
©Raixe Contastorie 2015 | Foto di Matteo Mocellin – testo di Giovanni Spitale
Nota dell’autore (che in questa valle ci vive e spesso ci deve passare in auto): rallentare il traffico della Statale e rischiare di entrare (peraltro sicuramente non invitati né tantomeno graditi) nel veicolo davanti non è il modo migliore di conoscere le vie e la roccia della Valbrenta, giuro! Piuttosto:
1. leggetevi “Valsugana e Canal del Brenta”, scritta da Ermes Bergamaschi e “Dal Brenta al Piave”, di Angelo Battaglia. La prima guida riguarda le vie lunghe, la seconda le falesie della nostra valle; entrambe sono pubblicate da Idea Montagna.
2. mollate la macchina da qualche parte e venite a farvi un giro per conoscere di persona il nostro calcare e la nostra dolomia. Garantisco che ne vale la pena.
Climbers: Marco Savio su Eagle, progetto; Diego Toigo e Stefano Lorenzon su Hurricane, 7c; Giulio Abrate su The Bee, 8a+; Diego Toigo su Diesis,7b
Cismon è uno dei posti che, in questa valle, sono stati la culla dell’arrampicata: quasi tutte le pareti circostanti sono segnate da innumerevoli vie, aperte soprattutto dagli anni ’70 in poi; chi le conosce e ci passa sotto in macchina immancabilmente rallenta, le segna a dito, racconta a chi condivide il viaggio di questa o quella salita.
Poi c’è la Gusela. Salendo a nord quasi non la si vede, mimetizzata contro la parete del Saccon. Scendendo a sud, invece, eccola svettare come un Cerro Torre, ma formato bonsai, quindi molto più appetibile. Ci corrono un paio di vie, di cui una (via Paolo de Tuoni, aperta nel 1976 da Berto Marampon) richiodata di recente ad opera di Ermes Bergamaschi e Mario Carollo. Se sei uno scalatore e ci passi sotto, beh, devi per forza rallentare e buttarci un’occhiata, e chissenefrega del traffico.
La Gusela nasconde qualcosa, un po’ per la sua capacità di calamitare l’attenzione dei climber distraendoli dal resto (incluso il paraurti dell’auto davanti) e un po’ perché ci sta fisicamente davanti. È una fetta di dolomia compatta, gialla, con qualche striatura grigiastra: bisogna proprio impegnarsi, per notarla.
Giulio Abrate, bassanese, classe 1976, bazzica la Valbrenta da vent’anni suonati. La nuova ed irriverente generazione di climber in segno di rispetto (e un po’ per coglionarlo) lo chiama “il nonno”. Gli scalatori gli devono molto: è il suo silenzioso ed infaticabile lavoro di chiodatore che ha prodotto alcune delle più belle e frequentate falesie della zona. Giulio è il genere di persona che nota sempre la bella roccia e se ne fa incuriosire, è una specie di esploratore del domestico: pochi conoscono la valle e le sue pareti come lui. Provare per credere: con lui ogni discorso iniziato con «sai, ho visto un posto dove si potrebbe chiodare qualche tiro» finisce immancabilmente per diventare un suo racconto: quando c’è stato la prima volta, quanti camosci gli soffiavano dietro mentre si calava, i fossili che ha visto, i residuati bellici che ha raccolto, le birre che si è bevuto dopo. Forse anche questa attitudine alla narrazione ha qualcosa a che vedere con il suo soprannome. In ogni caso, in valle è praticamente impossibile trovare buona roccia dove non ci siano uno spit, un vecchio chiodo oppure un cordino abbandonati da Giulio.
Date le premesse, questa fetta di dolomia compatta dietro alla Gusela di Cismon non poteva non fargli gola. «Era il 2007» racconta, mentre si infila l’imbrago ed un paio di improbabili (e nonnesche) babbucce pelose. «Era un autunno particolarmente piovoso, tutte le placche dei dintorni erano bagnate. Un giorno, scendendo da Trento, butto l’occhio dietro alla Gusela. Mi pareva di aver intravisto un pezzo di roccia tendenzialmente verticale ed incredibilmente asciutta, praticamente una manna dal cielo». Giulio inizia a preparare il suo materiale: controlla i rinvii, li conta, li appende all’imbrago con cura e in ordine. È salito quassù in buona compagnia, a godersi quella specie di miracolo che è l’arrampicata riscaldata dal sole di dicembre. «Ci ho messo un po’ a capire come arrivare: la prima volta che sono salito qua in cima mi è toccato girare i tacchi e tornare indietro». La ragione? Il tiro più facile della falesia è l’avvicinamento, ora attrezzato con corde fisse e scalette, ma decisamente ostico.
Del resto questa non è una falesia per merenderos: una cengia sottile, poco più di due metri, inclinata, isolata, inospitale. «Bellissima. Non è solo la roccia, questa spettacolare dolomia ruvida, segnata da tacche, liste e buchetti, che mi ha conquistato. Questa solitudine, questo isolamento, questa lontananza dalle cose del mondo hanno decisamente fascino». Le falesie non solo hanno un loro stile, ma col tempo si costruiscono anche un carattere, uno spirito che condiziona quello di chi ci scala: questa suggerisce contemplazione, ed incute rispetto. Giulio le ha dedicato parecchio tempo, negli ultimi anni: chiodare e liberare, liberare e chiodare. Il primo tiro è del 2008: First line,un bel 6b+ lungo e continuo, ed è il terzo tiro più facile della falesia (il primo è l’avvicinamento, ovviamente). Poi sono venuti gli altri: Galaxy, Stargate, Eutonia, Chupacabras... Sono tutte vie molto lunghe e molto tecniche; una scalata delicata, precisa, elegante.
«Questo posto sta diventando il riferimento per l’alta difficoltà in Valbrenta», racconta Giulio, non senza un po’ di orgoglio. Del resto qui ci sono 24 vie, con difficoltà concentrate attorno al 7b, e dieci superano l’8a. «Sono passati di qui Manolo, Silvio Reffo, Guido Dal Fovo, Rolando Larcher, Gigi Billoro, Valdo Chilese, Marco Savio...»
Marco Savio, pochi metri più in là, si sta scaldando sul primo tiro della giornata. È un habitué di Cismon: nei primi tre anni di vita della falesia ha liberato tutti i 24 tiri, salvo uno, Eagle, a cui anche oggi dedica qualche giro. La scalata di Marco, così delicata, ha qualcosa di ipnotico; si potrebbe restare a guardarlo per ore.
Il tiro più bello? Giulio quasi non pensa, prima di rispondere. «L’ho chiodato da poco. Si chiama Silvianne, come mia figlia, che è nata pochi giorni fa. Ho pensato che fosse un modo in più per darle il benvenuto. Poi magari un giorno, se deciderà di scalare, potrà tirarsela con gli amici: non sono tanti ad avere una “propria” via prima ancora di venire al mondo!»
Giulio ghigna di gusto mentre Marco, poco più in là, si fa calare dalla via che ha appena concluso. Qualcuno ripassa la corda, qualcuno mangia un frutto, qualcuno parte per un tiro.
Lontano, in fondovalle, un’automobile rallenta.
©Raixe Contastorie 2015 | Foto di Matteo Mocellin – testo di Giovanni Spitale
Nota dell’autore (che in questa valle ci vive e spesso ci deve passare in auto): rallentare il traffico della Statale e rischiare di entrare (peraltro sicuramente non invitati né tantomeno graditi) nel veicolo davanti non è il modo migliore di conoscere le vie e la roccia della Valbrenta, giuro! Piuttosto:
1. leggetevi “Valsugana e Canal del Brenta”, scritta da Ermes Bergamaschi e “Dal Brenta al Piave”, di Angelo Battaglia. La prima guida riguarda le vie lunghe, la seconda le falesie della nostra valle; entrambe sono pubblicate da Idea Montagna.
2. mollate la macchina da qualche parte e venite a farvi un giro per conoscere di persona il nostro calcare e la nostra dolomia. Garantisco che ne vale la pena.
Climbers: Marco Savio su Eagle, progetto; Diego Toigo e Stefano Lorenzon su Hurricane, 7c; Giulio Abrate su The Bee, 8a+; Diego Toigo su Diesis,7b
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