Islanda Bike-Ski 2010

Il racconto del viaggio insolito e avventuroso di Serena e Matteo Menardi. 17 giorni per 630 km e 7640m di dislivello percorsi in mountainbike e sci addentrandosi “fuori stagione” tra i fiordi, le piste, la neve dell'Islanda, mentre più in là il vulcano erutta le sue polveri...
“… Non aveva più senso restare, triste e gelido come era sempre stato s’ incamminò verso sud, tossendo cenere sull’Europa, senza nemmeno voltarsi una volta verso quella giovane, ribelle principessa …” Poche parole alla volta, buttate lì sul diario velocemente con le mani che spesso reclamano una pausa al caldo nel sacco a pelo. Ma anche questa favola ha avuto il suo finale. E non poteva che essere l’elfo del vento il protagonista della trama inventata durante questa lunga giornata in tenda, assediati dalla tempesta.

Siamo partiti il 13 aprile dal porto di Seydisfjordur con due bici, due carrelli carichi di viveri e materiale alpinistico, tenda, sci, scarponi e due piccole pulkas costruite appositamente per l'avventura, in questo momento avremmo dovuto essere in procinto di attaccare l'enorme ghiacciaio del Vatnajokull, ma evidentemente l'Islanda aveva altri programmi per noi. Rallentati dalla neve e dal forte vento contrario ci trovavamo ancora, in realtà solo per poche centinaia di metri, entro l’area di copertura del cellulare, quando il contadino dell'ultima isolata fattoria nella valle dello Jökuldalur ci ha rincorso con il suo quod per fermarci.

Solo qualche accenno ai cambiamenti dell’eruzione vulcanica che sapevamo essere in atto più a sud, ma serie, forti e preoccupate parole riguardo alla terribile tempesta in arrivo; in ogni caso quella l'avevamo messa in conto quindi, pur facendo tesoro delle sue parole, eravamo decisi ad affrontarla. Complici la pausa e la generosa merenda nella casa di questo ospitale e premuroso fattore, si era fatto tardi ed era meglio non aspettare che il vento rinforzasse troppo per montare il campo così, questa serie di imprevisti avevano fatto in modo che quella sera riuscissimo ad accendere per l'ultima volta il cellulare. Esplosioni, terremoti, intere aree ricoperte di cenere, allagamenti proprio nella valle che sarebbe stata la nostra uscita dal ghiacciaio, evacuazioni, polveri velenose nell'aria, voli bloccati in tutta l'Europa... l'eruzione del vulcano Eyjafjallajökull era improvvisamente mutata.

Proprio quella notte, a qualche decina di km dalla nostra piccola tenda, si era aperta una nuova bocca con effetti ben più devastanti rispetto alle spettacolari fontane di lava delle quali eravamo già al corrente prima di partire. Sotto questo bombardamento di SMS è silenziosamente crollata qualsiasi possibilità di addentrarci nella zona del ghiacciaio. Avventura nell’avventura, abbiamo dovuto ricombinare velocemente i mattoni del nostro progetto, tra tante domande e sempre meno certezze, ma con la giusta umiltà e un pizzico di ottimismo. Così, se pochi metri alla volta ci eravamo guadagnati la faticosa pista che tra fango e banchi di neve ventata si insinuava nelle highlands, così, alle 5:00 del 17 aprile, approfittando del terreno ghiacciato gli abbiamo ripercorsi nel verso opposto fino a questa stradina secondaria che ci ricongiunge alla Road 1. L'obiettivo è ora raggiungere la pista 864 e dirigerci verso l'estremità settentrionale dell’Islanda, tenendoci il più possibile informati sull'evoluzione del vulcano e soprattutto sulla direzione prevista del vento; fino a che la nube di ceneri punta verso l'Europa non dovrebbe creare problemi nei fiordi del Nord est.

Attraverso un sottile strato di neve sollevata dal vento la desolazione color stracciatella degli altipiani sfuma nel cielo. Ovunque i miei occhi sbircino dal passamontagna vengono subito messi in soggezione dall'immensità di quell'ambiente, così, non trovando né pausa né riparo dal severo sguardo delle highlands, tornano a concentrarsi sulla ruota davanti. Spesso la strada si trasforma in una distesa bianca fino all'orizzonte e se ogni tanto un gioioso scricchiolio sotto le ruote ci annuncia un sorprendente manto portante, altre volte non c'è altro da fare che prendere velocità e sprofondare nella crosta di neve pedalando tipo "Kamikaze" per rubare più metri possibili in sella.

Non possiamo concederci pause, in queste condizioni basta fermarsi per mangiare una barretta che ci si congela all’istante, non è scontato nemmeno smontare e rimontare i carichi, allestire la tenda e preparare il cibo, ma che gioia poi, prendere a cucchiaiate una buona zuppa calda affondando nel piumino. Chiudo gli occhi e immagino un mappamondo, la posizione della nostra tenda… mi sento così leggera che mi scappa da sorridere, anche Matteo ha quello sguardo strano, quello di chi non ha bisogno di niente. La tempesta scuote la tenda così forte che ogni tanto smettiamo di parlare, di scrivere, di mangiare e restiamo immobili a guardare i paletti che si piegano; il vento si è scavato un passaggio ed ora spinge la neve sotto al primo telo schiaffandola in vortice sopra le nostre teste, l’orologio al polso di Matteo segna -13°, segna le 18.30…inesorabile il sonno mi prende e mi porta via.

Il canyon dello Jökulsá Á Fjöllum sonnecchia dietro ad un velo di nebbia, incurante del sole che combatte con un esercito di velocissime nuvole cercando di accendere un abbozzo di arcobaleno. Poi, sembra dischiudersi come uno scrigno quando, ormai prossimi al margine del burrone, scorgiamo Dettifoss… un frastuono d’acqua e spruzzi tra le gelide canne di un imponente organo di ghiaccio. Uno spettacolo che non lascia scampo, di fronte al quale non si possono trovare scuse, bisogna fermarsi e respirarlo, respirarlo profondamente.

Viti e Laki sono due bob che Matteo ha trasformato in piccole, leggere, tanto imperfette quanto insostituibili pulkas, senza il loro aiuto la mattina del 21 aprile non avremmo potuto né avanzare né retrocedere dal cuore della pista 864. Un mare bianco e increspato allaga lo spazio intorno a noi, la tenda è anche oggi miracolosamente entrata nel suo astuccio senza volare via, le borse da bici sono nei bob, i carrelli e le bici … sui bob! Pelli di foca, sci, scarponi congelati, un sorriso di complicità... e via! "Si parte! No, fermo! Casca tutto! Ok. Che dura! Occhio! Lì si sprofonda troppo! Attenta, ci deve essere un lago qui sotto... Crock! Acqua!" Mille peripezie e pochi chilometri, ma si procede.

Dopo un breve tratto per il quale ci ritrasformiamo in assetto da mountain-bike eccoci di nuovo ad annaspare nella neve. Troppo vento, troppo freddo per riorganizzare bene i carichi, leghiamo tutto alla meglio sulle pulkas senza neanche smontare le bici, e per fortuna, perché poco più tardi torniamo a pedalare senza nemmeno togliere gli scarponi da sci. Quando finiranno queste highlands…?

Le coste della penisola del Melrakkasletta compaiono come un miraggio al termine di un'incosciente corsa giù dagli altipiani; pochi minuti dopo arrivano anche le ramanzine di Matteo che dalle tracce sulla neve aveva intuito i salti ai quali sottoponevo il carrello nella mia fuga verso una temperatura più accettabile. La velocità non fa parte della mia condotta solitamente, soprattutto in discesa tra ghiaccio, neve e buche, ma premendo sui pedali la sensazione è di avere due sacchetti pieni di noccioline al posto dei piedi e il rischio di bucare sui sassi vulcanici tende a passare in secondo piano.

Solo 2,5 km ci separano dal Circolo Polare Artico, il blu dell'oceano si insinua profondamente nel bianco accecante di queste terre ed è magia quando rimane intrappolato nella loro gelida morsa ghiacciandosi in uno sterminio di brillantini. Qua e là un gentile, raro tocco di colore, una decina di casette che sembrano rotolate lì per caso, piccole, semplici, calorose senza fronzoli, belle, come la gente che vi dimora.

Del buio ormai solo l'ombra entra brevemente in scena nel cuore della notte, ma il sole non basta a stuzzicare il risveglio della natura, solamente il calore del mezzogiorno lo trascina nel cielo. Allora è un vortice d’ali, un crescendo di suoni, danze e colori dove il timbro di mille voci grida quell’unico, prepotente messaggio di vita. Eleganti rilievi dall’aspetto fiabesco degradano verso la sottile linea nera che divide la terra dal mare, la bellezza mi sorprende, mi confonde, sprofondo nell’armonia di questo quadro e per un istante mi dimentico persino di prendere fiato: “Roba da strangolarsi!” Dico a Matteo come se fosse caduto anche lui con me in quell’immagine.

L'Islanda ci riserva qualche carezza di sole e poco vento, la strada ci corre incontro più velocemente, ma è ora di lasciarci il mare alle spalle; qui, su questa morbida terrazza di mirtilli neri mai raccolti e conservati dall'inverno, scrutiamo dalla tenda le candide, nodose dita del fiordo che si aggrappano all'oceano; le bici fanno quasi tenerezza così incartate da un sottile strato di ghiaccio e noi, appesantiti da qualche consapevolezza in più, ci prepariamo ad affrontare un nuovo tratto di highlands.

L'asprezza degli altipiani non tradisce le nostre aspettative ed ora, mentre un velo di pioggia ghiacciata fa scrocchiare la mia giacca e sferzate di grandine ci prendono a pugni in faccia , ripenso alla frase ormai “celebre" dei primi giorni, urlata nella tempesta pedalando esattamente nel verso opposto: "Non può mica essere sempre contrario questo vento..."

Un supermarket, un bar, un panino da Subway, qualcuno che ci scatta delle foto..."Where are you from!? Italy? Crazy people in Italy!" Il "nostro mondo" ci tende la mano nei pressi di Egilsstadir e subito ci scopriamo già ingordi di lui. Con l'ultima corsa verso il porto di Seydisfjordur, verso la sicurezza, verso la comodità del nostro mitico furgone-casa da viaggio, scivola via tra le mie dita ancora un po' di quell’intensa, dolcissima illusione di libertà. Stringo il pugno forte e sorrido a Matteo. "Eccoci, adesso siamo di nuovo turisti quasi normali!"

La nave attenderà ancora una decina di giorni prima di portarci via. L’Islanda ha ancora diversi regali da farci… le foche, Geysir, meravigliose cascate, una balena, sublimi tramonti e tante calde piscine naturali; anche il signor vulcano che tanto ha condizionato la nostra esperienza merita una visita e, inaspettatamente ci inventiamo altri tre ultimi giorni di bici leggeri, carichi solo di tenda e borsoni, nei selvaggi fiordi dell’ovest.

Testo di Serena Menardi

Chi siamo: Serena e Matteo, di 27 e 33 anni, sposati da 3 anni, “viaggiamo” insieme da quasi 12; che sia in giro per il mondo o tra le vette della nostra Cortina d’Ampezzo, siamo calamitati dalle belle pareti, dalla neve fresca, dalla natura e dalle preziose occasioni di libertà, gioco e avventura che essa ci propone.

SCHEDA - Alcuni dati del percorso a nord-est
Distanze e dislivelli: 682km per un dislivello di circa 7640m. Ma il dato più significativo da tenere ben presente per chi volesse inventare qualcosa di simile riguarda l’imprevedibilità della velocità di marcia e dei chilometri al giorno. A seconda della velocità e della direzione del vento, delle condizioni dello sterrato o della neve, si andava infatti dai 2,3 km ai 65 km nell’arco di una giornata (circa 6/7 ore in movimento) con momenti in cui, pedalando, in discesa non si raggiungevano i 4km/h.
Giorni per chiudere il giro: Tra sci e bici, 17 gg dei quali uno fermi in tenda per la tempesta.
Peso trasportato: Più di 50 kg a testa più le mountain bike. Qualche kg è da attribuirsi a corda, ramponi e altri accessori da ghiacciaio che non abbiamo utilizzato.
Organizzazione e logistica: Organizzazione e logistica sono state studiate e concretizzate completamente da noi, calcolando di poter stare in autonomia totale per 25 gg una volta lasciato il furgone al porto .
Percorso: Abbiamo scelto strade poco battute dal turismo estivo, per lo più piste chiuse, deserte in questo periodo, a tratti impraticabili fino a luglio.
Alcuni dei luoghi attraversati: Seydisfjör?ur, Egilssta?ir, pista 923, F910, Grimstunga, pista 864, Dettifoss, Asbyrgi, Kopasker, Hraunhafnartangi (66°32’03’’ nord), Raufarhöfn, Thorshöfn, Vopnafjör?ur, strada 85
Cartina e i dati gps: www.matteomenardi.it, al link ISLANDA BIKE-SKI dove ci sono altre foto e dove verranno caricati anche i video-capitoli dell’esperienza.




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