Sulle tracce di Calimero

Ripensando a Giancarlo Grassi, al ghiaccio, all’arrampicata, alle grandi passioni e a quell’attesa che, a volte, quando meno te lo aspetti, paga. Elio Bonfanti ricorda l’uomo, la Guida alpina e il maestro del “cascatismo” che, insieme a Gianni Comino, dalla seconda metà degli anni ’70 ha esplorato e rivoluzionato la scalata su ghiaccio.
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Giancarlo Grassi, Ghiaccio dell'Ovest - CDA Vivalda
Planetmountain.com

Istinto e programmazione sono alla base di ogni realizzazione. Perché, quando si è sotto alla grande parete, dentro a quella piccola capsula creata dalla bolla di luce della frontale, siamo soli e nudi davanti alle forme spettrali che i raggi di luce si divertono a disegnare per inquietare ancora di più il nostro spirito e per minare maggiormente le nostre certezze di riuscita. Quello è il momento topico, quello in cui le incertezze lasciano il posto all’azione, ed il ritmo del cuore distrae la mente dall’oggettività del momento. Ci si spegne un attimo e tutto appare più chiaro: la linea bianca che si dispiega verso il cielo si presenta chiaramente e ci sancisce che salire è esattamente la cosa per cui siamo qui.

Chissà “Calimero”, quante volte li ha dovuti fare questi conti prima di diventare Giancarlo Grassi; Prima di poter essere seriamente preso in considerazione come alpinista, Giancarlo dovette fare quella che si dice una lunga gavetta e a poco gli valsero le grandi classiche dell’epoca inclusa la Walker a 19 anni. Per diventare “qualcuno” dovette inventarsi un nuovo mondo, fatto di ricerca, di attese, di lunghe ombre e di defilati profili che celavano quelle linee bianche pregne di dubbi ed inquietudini.

Con una poco attenta lettura, si potrebbe dire: quante ore di marcia, quanta fatica e quale prezzo ha pagato per diventare Giancarlo Grassi. Certamente, Giancarlo, voleva riscattarsi dalle facili ironie fatte sul suo modo di essere e magari anche sul suo aspetto, ma certamente non aveva un premeditato disegno per cercare di diventare “qualcuno”. Lui “andava e faceva”, guidato da una sorta di demone che presiedeva la sua passione e che, solo in un secondo tempo, gli permetteva di voltarsi indietro e di vedere lo spessore delle sue realizzazioni.

Ricordo come se fosse oggi, il giorno in cui Spiro dalla Porta Xidias, nella splendida cornice dell’Abbazia di Novacella lo fece entrare nel “G.I.S.M” (gruppo scrittori di montagna), fu proprio in quel preciso giorno che quell’impertinente e contagioso demone si palesò con tutta la sua forza e nel breve volgere di 24 ore ci portò, da una bagnata alba alla base del diedro Mayerl al Sass d’la Crusc, ad un altrettanto bagnato pomeriggio nei Cerces, sino a farci approdare in una nuova alba finalmente asciutta alla base delle Rocce Meano al Monviso. Che viaggio! Fortuna che Giancarlo si rifiutava sistematicamente di guidare altrimenti, oltre alla stanchezza del viaggio, il mio sistema nervoso avrebbe dovuto fare i conti anche con la sua guida…

Dopo alcuni anni di scalate insieme, all’atto di battezzare un itinerario di poco conto, mi sorprese proponendomi come nome “Un’attesa che non paga”. In questo nome c’era tutto. Tutto il suo spirito, le sue insoddisfazioni e, insieme alla sua ritrosia subalpina, un’iniziale consapevolezza di aver segnato in modo indelebile venticinque anni di alpinismo.

La sua traccia collega molteplici esperienze vissute e lette con il fanciullesco occhio del poeta. E’ in questa chiave che il suo lungo e solitario rientro dal tentativo alla cresta ovest dell’Everest, come pure l’osservare il lento cristallizzarsi dell’acqua, diventavano ricchi momenti di analisi ed interiorizzazione che lo avvicinavano maggiormente all’essenza stessa dell‘ uomo.
La sua poliedrica attività di ricerca lo portava a trattare con lo stesso spirito e quindi ad avvicinare le grandi salite in giro per il mondo alle falesie dietro casa, le cascate di ghiaccio con il boulder in un’entusiastica commistione senza soluzione di continuità.

In questa sua traccia se si fosse fermato un attimo avrebbe potuto chiaramente vedere di essere un precursore assoluto in tutto. Tuttora, e soprattutto all’estero, Giancarlo è ricordato per le imprese compiute su ghiaccio, elemento questo che gli era certamente più congeniale. Ma nella sua carriera di alpinista non dobbiamo dimenticare che fu (anche se con risultati non di assoluta rilevanza ) uno dei primi Italiani ad andare a Yosemite e che data addirittura 1982 il libro che, in seguito ad un meticoloso lavoro di ricerca e “ripulitura”, pubblicò sul sassismo. Attività che oggi, a 25 anni distanza, è diventata, per noi, popolo ormai di lingua inglese, “ Boulder” ed in cui i vecchi materassi di allora, si chiamano “Crash pad “.

Ai suoi tempi o meglio a quei tempi, l’avventura era ancora totale anche a due passi da casa. Non eravamo ancora nell’epopea dell’informazione quasi preventiva: senza telefoni cellulari era difficile comunicare con “Tecnocity” (come aveva battezzato lui Torino). Quindi, in caso di ritardo, una sia pur difficile salita nelle valli di Lanzo poteva assumere toni di drammaticità assoluta. Le tecniche di scalata poi erano ancora del tutto da sancire, catalogare ed affinare. Paolo Caruso aveva forse le braghe corte, per cui chi era dotato arrampicava meglio di chi lo era un po’ meno mentre quelli proprio scarsi arrampicavano su ghiaccio…

Il Tooling poi, molto o poco dry che fosse, nelle goulottes era il pane quotidiano. Non esisteva una scala di difficoltà mista e quindi gli attuali M 4 – 5 erano valutati con un M… amma mia sono passato. Devo dire che anch’io ho personali buoni ricordi in merito alla maestria di Giancarlo sull’argomento. Ma basta rimandare la memoria a quanto scrissero lui e Gianni Comino di ritorno dalla prima salita all’Ypercouloir delle Jorasses per capire a cosa mi riferisco in merito al Tooling...

Grassi, formò cordate straordinarie ed incrociò carriere inimitabili come quelle di Casarotto, di Gabarrou o di Damilano. Scalò con i migliori del suo tempo, dal già citato Comino a Motti, da Bernardi a Manera per incrociare nel magico periodo del “Nuovo Mattino” lucentissime meteore come Danilo Galante che purtroppo non ebbero il tempo di esprimersi appieno. Pur non avendo un carattere facile, non era assolutamente affetto dalla sindrome del primo della classe e scalava volentieri sia con i clienti che con gli amici. E, aprendo vie nuove sia con gli uni che con gli altri, riusciva in qualche modo a far sì che fossero loro a sentirsi davvero i primi della classe.

In questi 16 anni dalla sua scomparsa la schiera degli amici o dei suoi discepoli è talvolta cresciuta a misura del tornaconto che questi potevano averne, chi per veicolare un proprio libro e chi magari solo per un po’ di pubblicità personale. Per non fare come il corvo che dice al merlo “come sei nero” nel novero di questi ultimi mi ci metto anch’io… Ma comunque pochi e veramente speciali sono stati quelli che si sono sinceramente stretti nella sua memoria e che, in questi anni, hanno operato nell’ombra affinché il suo nome potesse essere ricordato come merita.

Grazie all’opera di queste persone oggi pare concretamente esistere la possibilità che gli venga dedicata una cima non ancora battezzata nel gruppo del Bianco, e che gli venga addirittura co-dedicato uno dei più prestigiosi “ bivacchi “ dello stesso gruppo montuoso.

Ogni progetto ha un inizio e una fine, e il suo progetto lo ha finalmente riconosciuto grande tra i più grandi collocando, spero, il suo nome a guardia di uno dei luoghi più romantici del Monte Bianco dove tanti altri alla luce delle loro frontali inseguiranno quella sottile linea bianca che si dispiega verso il cielo. Finalmente ripensando a lui e a “Un’attesa che non paga“ sono felice di dirgli che aveva torto e che l’attesa paga, talvolta tardivamente, ma paga.

Elio Bonfanti

Due vie, una di ghiaccio e una su roccia, firmate da Giancarlo Grassi:
Ypercouloir delle Jorasses
Quota 3095 metri




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