Piolet d'or 2006 a Prezelj e Lorencic per il Chomo Lhari

Il 26 gennaio 2007 a Grenoble a Marko Prezelj e Boris Lorencic è stata assegnato il Piolet d'or, l'ambita "Piccozza d'oro" per la nuova via sul Chomo Lhari. A Pavle Kozjek è andato il Premio del pubblico per la nuova via aperta in solitaria sul Cho Oyu. Questa è la 16a edizione del riconoscimento alpinistico istituito dalla rivista francese Montagnes magazine destinato alla migliore realizzazione dell'anno appena trascorso.
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Marko Prezelj e Boris Lorencic (Slo) Piolet d'or 2006 per la nuova via sul pilastro nord ovest del Chomo Lhari (7326 mt - Tibet).
Giulio Malfer

Foto di gruppo per il 16° Piolet d’or
Si può partire da un’istantanea per raccontare questo Piolet d’or appena concluso. Naturalmente, nella foto ci sono Marko Prezelj e Boris Lorencic che alzano il Piolet d’or 2006 per la loro bellissima via sul Chomo Lhari. E, proprio accanto, c’è Pavlev Kozjek, ancora incredulo di aver ricevuto il Premio del pubblico per il suo sprint solitario sul Cho Oyu. Lì vicino, poi, spunta anche un vivavicissimo Denis Urubko che applaude convinto i vincitori. E, solamente un po’ più in là - ma è come fosse su un altro pianeta con quella sua espressione, un po’ così, che sa di bontà e forza - si nota pure Serguey Samoilov, suo partner sulla nuova via del Manaslu. Nel mezzo risplendono più che mai anche i sorrisi di Tim Emmet e Ian Parnell che hanno regalato al Piolet lo “spirit” (leggi entusiasmo e nuova creatività) della loro via sul Kedarnath Dome. Come non passa inosservato il baffo, e la verve, di Igor Chaplinsky che, con Andrei Rodiontsev e Oret Verbitsky, ha disegnato una bellissima linea sul Shingu Charpa e ha insegnato a tutti che l’alpinismo (anche quello delle idee) non ha età. Il sonoro, che l’immagine non regala, sono gli applausi del pubblico. Ciò che la foto non può restituire sono le storie che stanno negli occhi dei protagonisti di questa 16a edizione degli Oscar dell’alpinismo. Ed è forse questa la parte più bella. Sicuramente quella da raccontare.

Storie di uomini, montagne, pareti e sogni.
Quelle del Piolet 2006 sono storie sognate, inseguite e poi realizzate su una montagna lontana (quest’anno c’erano solo salite in Himalaya) e su una nuova via. Naturalmente sono tutte storie diverse e difficilmente comparabili, perché in alpinismo si vive l’attimo (irripetibile) dell’azione mai uguale a se stessa. Tutte, però, hanno in comune una passione e una direzione, o meglio una ricerca chiamata “stile alpino”, vera e propria, e non solo da ora, chimera dell’alpinismo. Prima di tutto c’è l’idea (la montagna, la parete, la linea) che s’insegue e si sogna lungamente. Poi, quando finalmente il “gioco” inizia davvero, si parte per arrivare in cima, naturalmente senza mai ritornare alla base. E’ un viaggio da affrontare sempre in pochi, pochissimi o addirittura da soli perché il fine è salire leggeri e veloci ricercando sempre nuove strade, nuove montagne, nuove pareti e nuovi limiti per se stessi e per l’alpinismo. Anche gli ingredienti per il successo sono comuni: idee, grande voglia d’avventura e grandissima voglia di mettersi (in tutti i sensi) in gioco. Dev’esserci anche una buona dose di fortuna… o meglio di consapevolezza nel prendere le decisioni giuste e riuscire a comprendere, accettare e superare le infinite variabili che la montagna riserva (soprattutto in queste salite da Piolet). Infine, conta l’interpretazione, il come, che deve essere quello più giusto nel contesto del quadro: montagna, via, alpinisti, mezzi utilizzati devono fondersi in un’esperienza perfetta. E, si sa: la perfezione si può solo inseguire…

Chomo Lhari una montagna perfetta per Marko Prezelj e Boris Lorencic.
Nella storia i grandi momenti ritornano, anche se nulla può essere come ciò che è già stato. E’ successo così anche venerdì sera, a Grenoble, quando Marko Prezelj e Boris Lorencic hanno alzato la Piccozza d’oro del 16° Piolet d’or. E’ stato solo un attimo. Un flash per immaginare quel giovane Marko, quella volta insieme ad Andrei Stremfelj, mentre alza la piccozza della prima edizione del più prestigioso premio alpinistico. E poi ritornare all’oggi, su quegli occhi profondi e seri che hanno visto molto, e molto hanno vissuto, di un alpinismo sicuramente più “fatto” che parlato. Allora, in quel primo Piolet del ’91, Marko fu premiato per una fantastica nuova via sull’immenso pilastro sud del Kangchenjunga. Ora, dopo 16 anni, quella piccozza è ritornata tra le sue mani per un’altra nuova via, quella sul Chomo Lhari, la montagna perfetta che aspettava solo un’interpretazione perfetta: appunto quella che i due sloveni le hanno dato lo scorso ottobre.
Ritorno al passato, dunque? No, se si pensa alla quota (7326m) del magnifico Chomo Lhari. Alla difficoltà (VI di “engagement” e M6+ ad altissima quota). E alla lunghezza (1950m) della via. Decisamente no, se si guarda alla leggerezza, alla velocità di realizzazione ma soprattutto alla perfezione e alla bellezza del tutto: della montagna, del paesaggio che le sta attorno (l’immenso deserto tibetano) e di quella immateriale linea che ora è stata disegnata sul suo pilastro nord-ovest. Difficile sfuggire al fascino del Chomo Lhari. Impossibile non farsi catturare dalla via che Prezelj ha sognato per 10 anni e che, alla fine, insieme a Lorencic, ha realizzato in 4 giorni di salita e 2 di discesa. Marko, presentando venerdì mattinata la via alla Giuria, agli altri alpinisti e ai giornalisti ha detto che era venuto per raccontare la sua storia. Una storia, ha aggiunto con un sorriso, che come tutte quelle degli alpinisti è in gran parte vera… A me è sembrata una storia molto bella. Come quella del suo compagno che l’ha incitato a proseguire quando lui (il capo cordata) stava quasi gettando la spugna. Va da sé, poi, che è un “duro” Prezelj. Uno che non te la “indora” mai troppo. Conta la salita per lui. E per me conta anche la frase di Denis Urubko dopo la premiazione: “I respect Marko!”. Ma anche quella di Pavlev Kozjek che ha aggiunto: "Conosco bene Marko, se ha impiegato 4 giorni per salire la sua via vuol dire che non se ne possono impiegare di meno”. Queste parole, il rispetto che tutti gli altri alpinisti gli dimostrano, dicono tutto.

Cho Oyu speed per Pavlev Kozjek
Quando pensi ad una via nuova sugli 8201 metri del Cho Oyu (per)corsa, in solitaria e in meno di 15 ore partendo dal campo base, riducendo a meno del minimo l’attrezzatura, ti aspetti una sorta di maratoneta prestato all’alpinismo. Ma poi guardi alla difficoltà (VI di “engagement” e 4+ a 7200m) e allora capisci che c’è dell’altro, che c’è un alpinista vero. Ne sei sicuro quando incontri Pavlev Kozjek. Un gigante con due spalle così. Un alpinista con all’attivo nuove vie sul Cerro Torre, sullo Shisha Pangma e solitarie sulle grandi pareti della Cordillera Blanca. Ti accorgi, insomma, che davanti hai un grande alpinista ma anche un uomo di grande spessore. Se ti parla del Cho Oyu, per esempio, la prima cosa che ti racconta è la tragedia di cui è stato testimone proprio prima di iniziare la sua incredibile corsa. L’uccisione da parte dell’esercito cinese di tre tibetani che stavano passando il confine con il Nepal l’hanno letteralmente sconvolto. E’ lui che ha trasmesso le foto di quella tragedia (e di quell’assassinio) al mondo. “Dopo è stato difficile partire per la cima della montagna… l’ho fatto con la morte nel cuore”, aggiunge. Ma Kozjek l’ha portata a termine quella sua grande salita. E, insieme, ha messo a nudo ciò che si può fare sulle più alte cime della terra. Il tutto, particolare non irrilevante, a 47 anni (!). Anche questa volta, dunque, il premio del pubblico è stato assegnato davvero bene. Piccola curiosità: quest’anno i due Piolet (Giuria e Pubblico) sono andati entrambi ad alpinisti sloveni. E, ci ha spiegato Pavlev, la Slovenia fa due milioni di abitanti…

Il bis di Denis Urubko e Serguey Samoilov sul Manaslu
Dopo la loro (grande) nuova via sulla sud del Broad Peak (8047m) nel 2005, Urubko e Samoilov si sono ripetuti anche nel 2006 con un nuovo itinerario sulla nord-est del Manaslu (8163m). Due itinerari nuovi in stile alpino in due anni, sugli 8000 sono quasi un record... Non a caso per questa ultima impresa i due kazachi sono stati insigniti del primo Piolet d’or Asia e, per la seconda volta, sono stati nominati al Piolet d’or. Se domandate a Denis quale differenza ci sia tra le due vie, vi dirà che il Broad Peak è più difficile tecnicamente ma che il Manaslu è stato sicuramente più pericoloso. E basta dare un’occhiata alle grandi seraccate che “impestano” tutta la prima parte della montagna per credergli sulla parola. In compenso la parte rocciosa terminale ha opposto difficoltà non proprio banali, visto che sono state gradate con un bel 6a+ che a quelle quote vale doppio. Quattro giorni di salita e 2 di discesa per il tour, invece, danno l’idea di quello che possono fare Denis e Serguey. Se poi si dà un’occhiata alle foto e ci si accorge di quanto era alta la neve, e a questo si somma che i due avevano con loro meno del meno dell’attrezzatura necessaria (1 solo sacco a pelo, 1 solo duvet, pochissimo cibo ecc.)… Beh, allora si ha solo una pallida idea di quali livelli di fatica (infinita) possano sopportare quei due. Resta da dire che Denis ha spiegato così il suo alpinismo: “Da ragazzo leggevo i libri di Messner. Così l’alpinismo che ho sempre sognato è salire sugli 8000 in stile alpino, a vista e per una nuova via”… Non c’è che dire: sta proprio mantenendo fede ai suoi sogni di ragazzino, e alla grande!

Ian Parnell e Tim Emmett, il futuro sul Kedarnath Dome
Tim Emmett ha una passione, pardon ha molte passioni. E’ uno dei climber più conosciuti, e la sua attività spazia in tutte le dimensioni della roccia: dal deep water, alla falesia, all’hard grit… basti pensare che spessissimo fa coppia con Leo Houlding. In più, come il suo amico Leo, si diletta con il base jump. Ma non disdegna neanche l’alpinismo. L’ha dimostrato quando Ian Parnell, forte delle sue 10 spedizioni in Himalaya, gli ha proposto (erano ad una festa, naturalmente) di far cordata sui 6830m del Kedarnath Dome. Detto e fatto: i due inglesi si sono lanciati sul pilastro sud-est e in sei giorni hanno trovato la strada (più logica e più facile, spiega Tim) per superare quei 2000m di via. Nella parte finale Tim ha superato una lunghezza di 6c. Ma, a suo dire, la parte rocciosa iniziale di 6a “molto friabile” è stata quella più impegnativa. Ian, dal canto suo, ha condotto nelle zone di ghiaccio e misto. Tim, commentando la via ha detto che un momento particolare l’ha vissuto quando s’è reso conto di aver superato il punto di non ritorno… E pronta è arrivata la risposta di uno Steve House sorridente e rilassato nella veste di giurato: “Benvenuto nell’alpinismo, Tim…”. Sì, davvero benvenuto Tim: il tuo entusiasmo e la tua allegria (ma il “ragazzo”, si sa, è anche molto forte) non possono che far bene a tutti.

Igor Chaplinsky, Andrei Rodiontsev, Oret Verbitsky e il (bel) Shingu Charpa
Igor, sei un mito! ha detto dal palco Tim Emmett. E sì, lo pensiamo anche noi. Gli ucraini Igor Chaplinsky, Andrei Rodiontsev e Oret Verbitsky hanno aperto una bellissima via (logica ed estetica) su una gran bella montagna come il Shingu Charpa (5600m). I tre hanno affrontato difficoltà fino al 7a+ su roccia, M5 sul delicato misto sommitale e un “engagement” di VI, in 5 giorni di salita e due di discesa. Ovviamente il tutto in stile alpino. “La cordata a tre è la migliore” ha detto Igor dal palco. “E se ci sono da prendere delle decisioni importanti basta usare la democrazia. Anche se poi… comando sempre io” ha aggiunto subito con una gran risata. Eh sì, perché pare che anche questa “leggerezza” possa far bene allo stile alpino.

Arrivederci al prossimo Piolet, sicuramente con altre (grandi) storie!

Vinicio Stefanello

Un personale e speciale ringraziamento va a tutta la Giuria con cui ho avuto l'onore di lavorare: Yuri Koshelenko (super presidente, già Piolet d'or 2003), Michel Piola (un mito, e Piolet d'or 1992), Steve House e Vince Anderson (Piolet d'or 2005), Christian Trommsdorff (già nominato al Piolet 2005), Im Duck Yong (fondatore dell'Asian Piolet d'or) e la redazione di Montagnes Magazine.





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