Mai dimenticare: le leggi razziali, il CAI e i soci ebrei

Nel dicembre del 1938 una circolare 'riservatissima' della presidenza generale del CAI inviata a tutte le sezioni indicava i criteri per l’epurazione dei soci di “razza non ariana”. Furono centinaia i soci a cui non venne rinnovata la tessera, colpevoli di essere ebrei. Accadde ai vivi, ma anche ai morti. Oggi il CAI fa mea culpa, perché ricordare è un obbligo senza tempo
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La circolare 'riservatissima' del 5 dicembre 1938 con cui il Cai applicò le leggi razziali
CAI

Il 27 gennaio 1945 i soldati dell’Armata Rossa si ritrovarono di fronte ai cancelli del campo di concentramento di Auschwitz. Di fronte a loro si dipanò il volto del più buio periodo nella storia umana. La follia di un uomo che in una manciata di anni segnò per sempre un’epoca. Un’atrocità che contaminò, in qualche modo, tutti gli ambienti, montagne comprese. O, meglio, provò a contaminare le montagne. Ma riuscì solamente a scalfire l’anima burocrate delle terre alte. Il cuore di quelle terre selvagge, al tempo più di oggi, rimase luogo di comunione, di aiuto reciproco e condivisione. Terra di partigiani, nascosti nella foresta, pronti a combattere per un ideale di libertà e giustizia.

"Tutti i dirigenti centrali e periferici del CAI (anche componenti di commissioni) devono essere esclusivamente di razza ariana pura". Apriva così una circolare inviata a tutte le sezioni CAI dalla presidenza generale. Era il 5 dicembre del 1938 e da pochi mesi il Consiglio dei Ministri aveva approvato le "leggi per la difesa della razza". La circolare continuava indicando i criteri per l’epurazione dei soci di "razza non ariana", precisando poi come "le presenti disposizioni hanno carattere strettamente riservato e non dovranno, in nessun caso, essere comunicate alla stampa o, per iscritto, agli interessati". Fu uno degli ultimi passi nella fascistizzazione del CAI, un percorso iniziato nel 1927 con l’inquadramento del club all’interno del CONI, portando alla totale perdita di democrazia all’interno del sodalizio. L’annessione nel Comitato Olimpico Nazionale Italiano portò infatti alla nomina dei vertici CAI con Decreto del Capo del Governo su proposta del Segretario del partito fascista. A questi era poi affidata la nomina dei presidenti delle sezioni. Regola comune a tutti, l’iscrizione al partito.

Poco dopo la sede centrale venne spostata da Torino, luogo di nascita del CAI, a Roma per vivere in prima persona "il soffio vivificatore del fascismo", come affermò l’allora presidente generale Alfonso Turati. Seguirono poi cambiamenti nella custodia dei rifugi, dove il personale doveva essere selezionato e vagliato dal partito, così da eliminare soggetti potenzialmente contro la causa del partito. E ancora, l’inquadramento di quarantamila giovani dei Gruppi Universitari Fascisti tra le fila del CAI, così da abbassarne l’età media; la nomina di un Presidente militare e l’italianizzazione del nome. A partire dal 17 maggio 1938 non si sarebbe più chiamato Club Alpino Italiano, ma Centro Alpinistico Italiano.

L’ultimo atto fu l’applicazione delle leggi razziali all’interno del sodalizio, che ebbe come effetto immediato una sistematica esclusione dei soci, sia vitalizi che ordinari. Per questi ultimi, prevedeva la circolare, "se hanno pagato la quota dell’anno in corso […] potrà essere restituita". Seguirono misure radicali, come fatto dalla Società Alpina delle Giulie che quasi anticipò la circolare e ben presto si liberò dei soci ebrei. Altre sezioni indicarono, in modo chiaro, la nuova regola tra quelle per il tesseramento: sei ebreo? Non ti accettiamo e non ti rinnoviamo la tessera. Così accadde al matematico torinese Emilio Artom che subì, prima ancora dell’esclusione dal sodalizio, le difficoltà della libera scelta di non iscriversi al partito. Peggio andò al compositore Leone Sinigaglia che venne, come recita la pietra d’inciampo a lui dedicata, "perseguitato dalle leggi razziali italiane del 1938. Morto all’arresto". Era il 15 maggio del 1944, un lunedì qualsiasi. Stessa sorte toccò ad altre centinaia di soci, epurati in un brusio di sottofondo che trasudava indifferenza e imbarazzo. Nessuno provò ad alzare la voce, a urlare in favore di quegli amici, di quei compagni di cordata con cui si erano spese notti sulle montagne, quelli con cui si era assaggiata la carne dell’orso. Eh si, forse aveva ragione Primo Levi quando diceva che "la guida del CAI serviva solo per fare l’opposto di quanto consigliava".

Via i vivi e anche i morti, nel Centro Alpinistico Italiano non c’era pietà nemmeno per la memoria. Senza indugio, così recitava una nota della presidenza generale, si chiedeva alle sezioni di rinominare i rifugi intitolati ad alpinisti ebrei. Ecco allora sparire il rifugio Marianna Levi, in favore del Magda Molinari; o l’Achille Forti, ai piedi del Monte Tomba, per far comparire al suo posto il rifugio Giovinezza. I frequentatori delle Dolomiti sicuramente conosceranno il rifugio Coldai, che prima dell’emanazione delle leggi razziali era invece dedicato ad Adolfo Sonino, l’alpinista veneziano caduto su Punta Fiames nel 1930.

Una vicenda questa del CAI, rimasta sopita per anni. Quasi dimenticata dalla fretta e dalla voglia di ripartire dopo la guerra, di dimenticare quegli anni bui. A farla riemergere, dopo ottanta anni, il giornalista e storico Lorenzo Grassi con la pubblicazione di una ricerca inedita intitolata: "L’epurazione dei soci ebrei della Sezione dell’Urbe del Centro Alpinistico Italiano". Un rapporto che ha subito accolto una unanime e forte risposta da parte dei vertici del CAI che nel maggio 2022, durante l’Assemblea nazionale dei Delegati, hanno dato il là a un percorso di autocritica e assunzione di responsabilità, concretizzatosi nell’emozionante serata del 25 gennaio scorso con la riammissione formale, con consegna di tessere alla memoria agli eredi, dei soci epurati dalla sezione di Roma del CAI. Un tassello importante, a cui seguiranno altri interventi, per ricordare e per raccontare la verità. Un obbligo senza tempo.

di Gian Luca Gasca




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