L’alpinismo degli 8000 e le storie da comprendere

Manuel Lugli, alpinista e medico del Nodo Infinito, ritorna sulle recenti morti in Himalaya e sugli interventi che ne sono seguiti.
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Invernale polacca al Nanga Parbat: discesa al Campo base.
www.himountain.eu
Continua il discorso sugli Ottomila e sulle tragedie dell’alta quota. Dopo l’intervento di Nicolò Berzi (vai all'articolo), questa volta è Manuel Lugli - medico e alpinista che da molti anni con il suo “Nodo Infinito” organizza e accompagna i viaggi degli alpinisti sulle montagne più alte – che cerca di dare una visione dell’avventura degli uomini che affrontano gli Ottomila.

E’ un’avventura tra luci e ombre quella degli alpinisti, una “magnifica ossessione” a volte, che richiede per essere accettata (se non capita e amata come da noi appassionati) sensibilità e conoscenza, unite alla lucidità che si ottiene lasciando decantare le emozioni che ci afferrano nell’immediatezza di un lutto in montagna.


Uomini, numeri e 8000
di Manuel Lugli

In questo stesso sito, qualche anno fa, parlando per l’ennesima volta di morte sulle montagne himalayane, avevo rivolto una sorta di invito alla “sospensione del giudizio” sui fatti, sulle possibili ragioni che stanno alla base delle tragedie d’alta quota. Sostenendo che è molto difficile giudicare comportamenti e decisioni attuati nello spazio/tempo distorto dall’ipossia, valutare fatti e misfatti di uomini e donne che sono mossi da una passione così grande da portarli a compiere fatiche sovrumane, a correre rischi altissimi, ad abbandonare per mesi una cosiddetta “civiltà” per confrontarsi con la wilderness assoluta di una montagna.

Giudicare è molto difficile anche per chi quei luoghi li conosce e li frequenta, figurarsi per chi scrive seduto a casa. Proponevo una sospensione, non un non-giudizio. Un momento di riflessione in più, che consentisse di considerare tutte le variabili ed i risvolti delle storie, di ciascuna storia. Perché ogni storia è a sé stante, anche se sono tutte legate dal filo rosso della passione.

Era già successo la scorsa primavera con gli incidenti all’Everest, succede di nuovo ora, dopo l’estate del Karakorum: il giudizio, o meglio i giudizi non solo non sono sospesi, ma anzi si affastellano l’uno sull’altro, mettendo uomini e luoghi in un calderone in cui ogni storia si fonde perdendo la sua identità e quindi la sua comprensibilità. Giudizi autorevoli e meno autorevoli, con cognizione di causa od ignoranza - nel senso di non conoscenza - di luoghi, situazioni e persone.

Ora, non mi avventuro nemmeno a trattare il tema di come certe passioni muovono l’uomo, il quale richiederebbe da solo decine di tavole rotonde, convegni e libri (“Gli uomini mettono in scena delle tragedie perché non credono nella realtà della tragedia rappresentata nel mondo civile”, sostiene Josè Ortega Y Gasset). Mi permetto tuttavia di riprendere la parola per un breve intervento, da professionista di questo mondo ma ovviamente senza pretesa di soluzioni, in un dibattito che, ancora una volta, mi sembra girare su sé stesso senza trovare una via d’uscita.

Credo esista anzitutto una forzatura che fa da sfondo alla maggior parte delle parole lette in questi giorni su giornali e siti web. La forzatura, comprensibile ma sempre tale, è tutta giocata sulla parola “alpinismo” e la locuzione “alta quota”, i quali vengono regolarmente accostati come una combinazione sempre e comunque micidiale per la vita di chi si avventura in altissima montagna. Come se l’alpinismo praticato sulle Alpi, a quote “vivibili” fosse scevro da rischi o non facesse contare anch’esso numerosi caduti, sacrificati sull’altare della stessa passione forte e, molto spesso, inarrestabile, anche davanti ai pericoli più evidenti. Alcuni commenti, per quanto comprensibilmente emotivi ed ovviamente rispettabilissimi, appaiono quasi ingenui nella loro perentorietà: fermiamo i morti in alta quota, quasi che si potesse fare come per una campagna Pubblicità Progresso contro la guida in stato di ebbrezza.

L’alpinismo in alta quota è sicuramente attività a rischio, ma ciò non significa automaticamente che le morti siano in continuo, costante aumento, come sembra accada leggendo le notizie di questi giorni. O meglio, possono, ad una lettura superficiale, sembrarlo ma solo per semplice questione matematica: aumentano, mediamente, gli alpinisti che effettuano salite in Himalaya e proporzionalmente aumentano i caduti. Anche qui, in realtà, troppi fattori variabili influenzano quel che accade, troppe concomitanze di eventi: affollamento, meteo, preparazione, azzardo. Come sempre.

Basta prendere, per fare un esempio, alcune statistiche del K2 per vedere come quello che sembra essere un costante aumento dei morti in alta quota, abbia in realtà un andamento molto altalenante e per nulla crescente. Prendiamo il famigerato 1986, anno affollato. Per ventisette alpinisti giunti in cima, ben tredici perdono la vita sulla montagna. Nel 1993 e nel 1994, altri anni con alto numero di spedizioni, sedici-diciassette alpinisti raggiungono la vetta, ma vi sono “solo” 5 morti.

Nel 1996 e nel 2000 rispettivamente ventinove e venticinque scalatori arrivano in cima al K2, ma vi sono in complesso solamente due morti. Per chiudere con il 2004, durante il quale a fronte di cinquanta salite vi sono sette caduti. Come si vede, dunque, si fatica molto a trovare una qualsiasi relazione diretta, specifica e proporzionale tra numeri di salite ed incidenti mortali. E qui si parla di K2, montagna tecnica, difficile, montagna da esperti per eccellenza, su cui non trovano di solito spazio alpinisti improvvisati o spedizioni commerciali.

Fatico dunque ad accettare certe notizie, o meglio i modi di darle, modi che sembrano voler creare a tutti i costi l’equazione “alta quota-morte”. Quali che ne siano i motivi – sensazionalismo, ricerca di pubblicità o sfogo – trovo non facciano bene alla comprensione di un mondo complesso e sempre piuttosto “lontano” dalla comprensione dei non-alpinisti. Questo non vuol dire che nell’alpinismo himalayano sia legittimo ed accettabile ogni comportamento od un tipo di approccio dilettantistico o disinvolto.

Sono d’accordo con chi critica, anche duramente, la banalizzazione delle salite in alta quota indotta da organizzazioni e guide - di tutto il mondo - con pochi scrupoli. (Così come rimane scioccante la conta dei cadaveri “a vista” sulle vie di salita delle montagne himalayane più battute…) Per contro, però, la qualità media delle spedizioni commerciali messe in piedi dagli organizzatori più esperti (Kobler, Bryce o Djumovits, tanto per fare qualche nome) è aumentata e si hanno percentuali di successo molto alte, unite ad una riduzione dei rischi, a mio parere, più che buona, ovviamente sempre condiderato l’ambiente in cui ci si muove.

Rimane certamente legittima un’opinione netta – ed io personalmente ce l’ho - sull’eticità di quelle persone che decidono di mettere a rischio la propria ed altrui (leggi sherpa e guide) incolumità e di assumere ossigeno in gran quantità per la soddisfazione di un desiderio che sarebbe, in condizioni normali, ben al disopra delle loro possibilità e quasi sempre non realizzabile.
Quelli aumentati sono sicuramente i numeri delle spedizioni “indipendenti” non guidate e non professionistiche ed in queste, ovviamente, il “controllo qualità” su chi vi partecipa è impossibile.

Posso comunque assicurare per esperienza personale, che se guardiamo alle montagne di ottomila metri più frequentate come il Cho Oyu od il Gahserbrum II o addirittura ad una montagna-mito come l’Everest, il numero di incidenti mortali è in realtà molto, molto basso se confrontato col numero totale degli alpinisti che ne tentano la salita e soprattutto con la qualità tecnica e fisica media degli stessi.

Insomma, per concludere, credo ancora una volta che sarebbe molto utile un dibattito sereno ed articolato sull’argomento, più che parole dette e scritte sull’onda dell’emotività, della commozione o purtroppo, a volte, di altri meno nobili sentimenti. Chissà che un giorno, complice magari Planetmountain, non si trovi la voglia di parlarne attorno ad un tavolo…

Manuel Lugli




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