Il Pilone centrale del Frêney – Monte Bianco. Di Francesco Lamo

Francesco Lamo e la salita del Pilone centrale del Frêney – Monte Bianco, tra amici, conoscenti ed aneddoti degli ultimi dieci anni.
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Il Pilone Centrale.
Antonio Giani
Un noto e bravissimo editore ed alpinista disse o scrisse qualcosa del genere: Non parlatemi di gradi e chiodi, ditemi cosa vi siete detti ai bivacchi! Personalmente mi trovo molto in sintonia con questa interpretazione e ad essa, pur con tutti i manifesti limiti dettati dalla mia impreparazione linguistica e dalla difficoltà di sviluppare riflessioni, cercherò di attenermi.

Dal mio punto di vista l’alpinismo è fondamentalmente sostenuto dai sogni e, già dalla fine degli anni ’90, mi scoprivo spesso a sognare ad occhi aperti su quell’ultima pagina (la via n. 100) del libro di Gaston Rebuffat - Le cento più belle salite del Monte Bianco che, più o meno, recitava …Per il senso della montagna che richiede, il Pilone Centrale del Frêney è, e certo rimarrà, una delle più grandi salite delle Alpi e costituisce l’esempio più evidente che la difficoltà di una ascensione è costituita da un complesso di elementi che vanno ben oltre la sola difficoltà tecnica. A dire il vero però anche la pagina dell’itinerario n. 81 e poi ancora la pagina dell’itinerario n. 89 e n. 97 mi attiravano!

Dopo tempestiva dimostrazione ad Enrico (sul piazzale di casa mia) di alcune modalità di recupero da crepaccio, mi ritrovai con lui (anno 2001) sul lungo ghiacciaio del Miage in vista del rifugio Gonella, con il proposito di salire il giorno successivo la normale italiana al Monte Bianco. Siamo in pieno agosto e gli obiettivi dovevano essere ben altri, il Pilone Centrale del Freney con Stefano di Valdobbiadene, uno dei miei più cari compagni. Ma una lussazione alla spalla, verificatasi pochi giorni prima, mi mise fuori uso ed allora il Pilone con Stefano venne rimandato ad un altro anno.

Dopo un maleodorante sonnellino al rifugio Gonella, complice un solitario al rientro dalla via della Sentinella Rossa letteralmente coricato sopra di me, salimmo nell’oscurità tra i seracchi del ghiacciaio del Dôme. Alle 8 del mattino sbucammo particolarmente affaticati in cima al Bianco e scendemmo dalla via dei Tre Monti, che dalla cima principale scende verso il Maudit e il Mont Blanc du Tacul. Proprio nella zona seraccata sotto la cima del Tacul, quando in piena insolazione appariva particolarmente rischioso attraversarla (ed invece, contrariamente a tutte le regole di sicurezza, non si muoveva il più minimo granello di ghiaccio) ricevetti un messaggio di Stefano che recitava testualmente: Il Pilone è ormai alle mie spalle e la sua salita è solo un ricordo lontano.

Brutto traditore, l’ha salito senza di me pensai prima e confessai immediatamente dopo ad Enrico, spiegandogli l’accaduto. Ma tuttavia, riconoscendo che a volte i treni passano una volta e può essere conveniente prenderli al volo - il rischio appunto è che non passino più - decisi di chiamare Stefano. Dopo averlo mandato eufemisticamente a quel paese, gli feci i complimenti e gli chiesi di venirmi a recuperare alla stazione di arrivo della funivia, perché la nostra auto era parcheggiata in un luogo scomodo da raggiungere a piedi. Trascorremmo il pomeriggio a festeggiare “tanto” il loro Pilone (con Stefano c’erano gli amici bassanesi Claudio e Rosy) e “poco” la nostra normale Italiana, che comunque non è così banale e semplicistica come potrebbe apparire (provate a partire al buio dal Gonella, con una traccia assente o minima, senza conoscere il percorso e senza qualcuno da seguire!). Ad ogni buon conto, allo scopo di mantenermi motivato, conservai quel messaggio nel mio cellulare per anni. Poi lo cancellai, perché mi sembrava sciocco, e a tutti gli effetti lo era, mantenerlo memorizzato.

Negli anni successivi, dopo vari incidenti legati sempre legati alla medesima spalla (in Marmolada, sul Sass Maòr, sulla Cima Su Alto e da qualche altra parte) e un primo intervento chirurgico dagli esiti negativi, decisi di contattare il noto dott. Porcellini che mi comunicò che la spalla che avrebbe operato sarebbe diventata più stabile di quella sana. La sua previsione, almeno fino ad oggi, si rivelò ineccepibile ed ancora ringrazio questo bravissimo ortopedico, oltre ai suoi colleghi Campi e Paladini ed il centro di Chirurgia della Spalla di Cattolica. Negli anni 2006 e 2007 mi confrontai con ben altri ostacoli medici, che scelgo di non approfondire, ma, per fortuna, qualcuno a Tübingen decise di aiutarmi. Grazie, ti penso ogni giorno.

Nel 2008 tornai in montagna al seguito di Marco, soprattutto nelle Piccole Dolomiti, che -contrariamente ai diffusi pettegolezzi - possono rivelare dell’ottima roccia, anche se a volte mescolata a pungente Festuca. A casa fantasticavo sulle grandi salite nelle Alpi, vie che facevano sognare. Il “Pilone” stava in cima a tutti i desideri alpinistici ed allora, un po’ timidamente, provai a recuperarne informazioni. Il bassanese Claudio mi disse: Se tagli il Pilone alla base e lo porti a fianco della Torre Trieste diventa quasi privo di significato; il problema è che è lassù, in alto. Quel matto di Ivo, che allora girava le Alpi con la Twingo fucsia, invece commentò: Se hai fiato ed allenamento vai di corsa; se non ne hai vai su pian piano. I commenti ricavati non potevano essere considerati sufficienti, ma volevano trasmettere comunque qualcosa d’importante. Iniziai a raccogliere relazioni e schizzi e non ce n’era uno che coincideva, nemmeno sul punto di attacco. Solo il percorso della cuspide finale (la Chandelle) sembrava facile da interpretare.

Nell’estate 2010 partimmo in tre per il Pilone: con me quel terremoto di Enrico e l’equilibratissimo Marco, sicuramente - tra i miei soci - quello con le braccia più lunghe in assoluto. Appena usciti dall’ultima galleria prima di Courmayeur individuai la parte bassa del Pilone Centrale e comunicai al resto della comitiva che a mio avviso c’era troppa neve e che non era in buone condizioni. Enrico propose comunque di tentare. Salimmo al rifugio Monzino, dove ci attendeva Armando e la sua risaputa accoglienza. Proseguimmo faticosamente per i Bivacchi Eccles dove, nel pomeriggio, accolsi un “ragazzino” in maglietta a mezze maniche e con l’ombelico fuori. Pensai ma dove se ne va questo escursionista sbarbatello? Afferrai dopo che si chiamava Will Sim e che il giorno dopo avrebbe salito il Pilone con il suo compagno, tale Jonathan Griffith. Noi decidemmo saggiamente di proseguire per la Cresta dell’Innominata, vista la neve presente nella parte bassa del Pilone ed il timore reverenziale che ci trasmetteva la salita tanto desiderata. Alla sera successiva ci fermammo a riposare al bivacco-discarica Vallot: alle 22 bussarono Jon e Will che constatammo essere discretamente cotti. Ci confidarono che la parte bassa del Pilone era effettivamente carica di neve e che la parte alta era caratterizzata da ghiaccio nelle fessure e che avevano trovato difficoltà per il forte vento che soffiava sugli spigoli della Chandelle. Compiaciuti per aver scelto l’Innominata, comunque bellissima e di soddisfazione, ritornammo a casa. A tutt’oggi devo ancora capire perché l’Innominata si chiami “Cresta”, perché di concrete caratteristiche di cresta non mi risulta avere poi molto.

Nel 2011 Enrico tornò stressante a martellarmi con quella salita, ma ad agosto arrivarono invece Francesca e Matilde, che si rivelarono certamente più impegnative di qualsiasi pilier, pilastro o pilone. Per fortuna mia moglie è una roccia e parò i colpi senza lamentarsi troppo: forse fu merito di quel panino con il salame e la birra fredda, gustati dopo il parto, da lei tanto desiderati durante la gravidanza. Claudio me lo ripete sempre: Francesco, ricordati che le donne sono più forti degli uomini.

A Luglio 2012 Enrico iniziò a tartassare Armando, gestore del Rifugio Monzino, che prima rispose nessuna ripetizione ancora del Pilone ed una settimana dopo segnalò un recupero per sfinimento. Ore 12 del 9 agosto 2012: ritrovo nel parcheggio di Crema Sport di Padova, crocevia delle nostre tre provenienze. Enrico da Venezia, Corrado (che di cognome fa Cozzolino ed è tutto un programma) dalla valle di Vanoi in Trentino, io dalla provincia di Padova. In realtà, io sono l’unico di origini non padovane, mentre Enrico è nativo di Monselice e Corrado è di Selvazzano. Corrado dichiarò di essere disposto a sostenere una trasferta in Val d’Aosta esclusivamente per salire lo Sperone Walker (sembrava che non ci sia fosse altra salita che, laggiù, lo potesse interessare). Gli spiegammo che avevamo pianificato tutto per un percorso diverso, ma comunque affascinante e non meno impegnativo, e che la “Walker” sarebbe stata solo rinviata. Corrado accettò e partimmo. Raccomandai a Enrico di correre piano, perché cinque mesi prima il percorso Padova Ovest-Courmayeur l’aveva completato in tre ore.

Quando uscimmo dall’ultima galleria prima di Courmayeur il Pilone fu la prima cosa che rintracciai e le condizioni mi apparsero istantaneamente più rassicuranti rispetto al 2010. Lungo la salita al Monzino Enrico e Corrado mi fecero letteralmente mangiare la polvere, ma Enrico fa i 10 chilometri in 36 minuti e si allena girando per Venezia con i pesi (quelli da palestra) da 10 chili, uno per braccia.

Al mattino partimmo presto, allo scopo di trovare neve dura nel percorso e riuscire ad occupare, quanto prima, tre posti decenti agli Eccles. I miei soci mi tirarono per bene il collo anche in quell’occasione ed in meno di cinque ore arrivammo al Lampugnani-Grassi, il bivacco più in alto degli Eccles. Al pomeriggio arrivarono altre cordate ai bivacchi, chi andava alla Cresta dell’Innominata e chi alla Brouillard. Nessuno sui Piloni di Freney o Brouillard. Il clima era disteso anche se eravamo ormai stretti come sardine. Visti gli spazi limitati di movimento, decidemmo di pianificare con le altre cordate orari diversificati di partenza, allo scopo di non ritrovarci a partire tutti insieme e dar così vita a un caos.

Alle 4 del mattino stavamo già sudando sulle punte dei ramponi verso il Colle Eccles, ognuno in compagnia delle proprie inquietudini. Il colle ci accolse con la Chandelle che si stava illuminando, davvero uno spettacolo. Verificai che i miei compagni fossero effettivamente convinti di tentare il Pilone, ma mi bastò lo sguardo smanioso di Enrico per preparare la doppia e proseguire. La discesa dal Colle Eccles verso il bacino superiore di Freney significa infatti tagliare i ponti con un’eventuale ritirata ed impone il rientro passando per la vetta del Bianco.

Traversammo velocissimi il bacino, più per paura che ci colpisse qualche sasso (che in quel momento il sole scollava dalle rocce ghiacciate) che per motivi legati all’allenamento. Individuammo le rocce più basse del Pilone come possibile punto di attacco e le raggiungemmo, ben felici di aver superato la traversata del bacino superiore che è la parte più pericolosa di tutta l’ascensione.

Partì Enrico con i ramponi: dopo alcuni metri si tolse un rampone ed un po’ più in su anche l’altro. Avanti alcuni metri e decise di cambiare gli scarponi ed indossare le scarpette. Ora, ormai in parete, ci sentivamo più tranquilli.

Dopo alcuni tiri ci accorgemmo che una cordata di francesi ci seguiva. No, stavano più a sinistra, forse sulla Jori Bardill? No no, traversavano ora verso destra ed erano sulla Classica. Ad un tratto uno dei due iniziò a gridare e lamentarsi. Forse un sasso li aveva colpiti. L’elicottero li recuperò proprio durante un tratto delicato che stava completando Enrico, il quale – con tutta probabilità - non apprezzava il trambusto.

Siamo in uno degli angoli più appartati del Monte Bianco, alla mia sinistra c’è il Pilone Nascosto ed il Pilone Sud, ma fa riflettere che sia sufficiente un semplice squillo telefonico (il segnale del cellulare è massimo e costante) ed in un quarto d’ora, senza possibilità di errore di individuazione, un elicottero salirà da Courmayeur, sorvolando in modo diretto il ghiacciaio di Freney inferiore e superiore e ti ricondurrà alla civiltà.

Durante la salita non seguivamo alcuna relazione, andavamo a logica puntando allo spigolo di destra. Una relazione infatti poteva coincidere con un tiro mentre un’altra poteva adattarsi al tiro successivo.

Passai in testa io, superando forse la lunghezza più divertente della via, una stupenda e lunga placca appigliata di ottimo granito, sul filo dello spigolo di destra. Un diedro mi creò alcune difficoltà e mi impensierì il fatto di aver perso la mia unica picca, una Quark ultimo modello. L’aspetto bizzarro è che venne rinvenuta da Enrico, alcuni giorni più tardi, in un noto negozio di Arco e sembrava praticamente nuova!

Corrado ci condusse alla base della Chandelle, su alcune lunghezze particolarmente delicate per la presenza di neve e ghiaccio. Constatammo, con disappunto, che la base della Chandelle era costituita da terrazze spioventi colme di neve. Sostituimmo le scarpette con gli scarponi e indossammo i ramponi. Erano esattamente le ore 16.00, il sole scaldava ormai solo i versanti occidentali e la cuspide del Pilone era in ombra. Eravamo a quasi 4400 metri e faceva freddo. Potevamo tentare di uscire in cima al Pilone prima del buio, ma ciò avrebbe significato arrampicare con il freddo e non sarebbe stato particolarmente gradevole. Il tempo era stabile e un bivacco su questi leggendari gradini ci avrebbe fatto ripartire l’indomani più riposati e con il sole: la Chandelle infatti, esposta a sud-est, è la prima roccia delle Alpi ad essere illuminata. Scegliemmo di bivaccare.

Per un'ora pulimmo, spazzolammo e spianammo lo storico scalino della famosissima immagine dove Don Whillans fumava la sigaretta di traverso, tenendo fra le mani la pentola. Lo spazio era minimo, anche perché eravamo in tre. Enrico cucinava il minestrone con pasta e fagioli, io e Corrado ordinavamo il materiale. Il menù per il secondo piatto prevedeva speck e parmigiano reggiano, che lusso! Non ci rendevamo nemmeno conto di essere alla base della Chandelle e che il giorno successivo saremmo usciti in cima. Si perché da questo punto “bisognava solo uscire in cima”, non se ne parlava di scendere. Il percorso sulla Chandelle era logico, vedevamo alcuni chiodi ed anche una corda sfilacciata posta sul traverso che precede il famoso tiro del tetto, dove Whillans volò per 15 metri.

Raffiche di vento improvvise smorzarono il clima esuberante ed allegro che si era instaurato tra di noi e decidemmo di estrarre i sacchi piuma. Diversamente dai miei due compagni, io avevo solo un sacco leggerissimo e mi piazzai in mezzo a loro due per limitare la dispersione termica. Dopo un paio d’ore iniziai a battere i denti in attesa dell’alba. A casa le nostre sei bimbe certamente dormivano, senza poter immaginare dove se ne stavano i loro papà. Il sole finalmente sorse ed il cielo era limpido, senza una nuvola: questa era l’unica cosa importante. Restammo un buon quarto d’ora al sole a riscaldarci e ripartimmo.

L’arrampicata sulla Chandelle presentava caratteristiche più dolomitiche e a noi più congeniali: molto più verticale e senza neve o ghiaccio. Il tiro del diedro strapiombante seguito dal tetto si rivelò una fatica boia con gli zaini pesanti. Il tetto architettonicamente ci apparse quantomeno strambo e caratterizzato da una sorta di larga fessura sotto un tetto, dove ci si incastrava anche col caschetto. Usciti dal tiro artificiale, traversammo verso sinistra in piena esposizione e superammo alcune lunghezze, ancora delicate, fino in cima al Pilone Centrale. E’ fatta, da qui è improponibile dover tornare indietro, pensammo tutti. Ponemmo estrema attenzione nell’indossare scarponi e ramponi: ad un conoscente lombardo da questo punto cadde nel baratro uno scarpone e dovette salire in cima al Bianco e poi scendere giù a valle calzando una scarpetta da arrampicata.

Durante i giorni precedenti la salita mi ero riproposto di telefonare dalla cima della cuspide a Davide, amico di Varese a cui sono legato da spiacevoli vicende personali e, oltretutto, grande conoscitore del gruppo del Bianco. La scomodità del luogo e il voler accelerare le manovre per proseguire verso la successiva parete di misto non mi permisero di effettuare la telefonata ed un po’ mi dispiacque.

Dopo una breve doppia risalimmo legati, in un ambiente particolarmente tetro, ancora tre tiri di misto delicato fino alla Cresta di Brouillard; io e Corrado scivolammo due volte su uno scorbutico passaggio di misto. Durante questo tratto ci raggiunsero e ci superarono, chiacchierando e con totale nonchalance, quattro polacchi, completamente slegati. Fu ammirevole osservare l’autocontrollo e la preparazione su questo tipo terreno degli alpinisti dell’est: sembrava stessero passeggiando per le vie di Courmayeur.

Ognuno con i suoi pensieri proseguimmo finalmente rilassati lungo la Cresta di Brouillard fino alla cima del Bianco, dove non trovammo nessuno. Fu un momento magico, dove i timori accumulati in quei giorni svanirono. La discesa infatti non costituiva un impegno particolare, se non dal punto di vista fisico.

Durante il lungo rientro, effettuato al tramonto, scendemmo slegati ed ognuno col proprio ritmo. Favorito dagli spazi e dall’allentamento delle tensioni mi chiesi perché continuavo ad andare in montagna e fare queste faticacce. Forse, come ogni tanto mi ripete Walter, è semplicemente perché là stiamo bene. Ciò può essere vero, quantomeno in parte, ma personalmente ritengo che andare in montagna sia soprattutto uno strumento per riuscire ad accettare con maggiore serenità la vita di tutti i giorni, che a volte si presenta inconsistente e difficile da comprendere.

Francesco Lamo

SCHEDA: Pilone centrale del Freney, Monte Bianco




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