Coffee Break #06 - Il regno d'inverno

Daniela Zangrando con il suo Coffee Break numero 6 ci porta nelle atmosfere de Il regno d'inverno, il film di Nuri Bilge Ceylan Palma d'oro a Cannes 2014. Un deserto, quello dell'anima, che raggiunge aridità e solitudini che nessuna montagna, oceano o pianura può rappresentare.
Credevo di aver riconosciuto l’aridità e la sconfinatezza del deserto buzzatiano nell’atmosfera lunare delle Pale di San Martino. Nel profilarsi assorto e scostante della Gusela del Vescovà. Credevo di averlo trovato sul Passo del Gran San Bernardo e intravisto oltre la coltre spessa delle creste del Sassolungo. Pensavo fosse immerso nella desolante risolutezza della Val di Landro. Riflesso negli occhi del gracchio.

Ma ho scoperto qualche settimana fa una desertificazione diversa e altrettanto disorientante. Ci sono deserti popolati da eterni letargici inverni. Inspiegabili. Sono sottilissimi e non per questo meno temibili. Non offrono alcuna possibilità di riscatto. Nessuna grazia. Sono cupe infermità. Ne soffre Aydin. E così Nihâl. E Neclâ. Il loro regno d’inverno è una condanna. Per un attimo, ho pensato che fosse la condanna ad un’altissima noia. Ne abbiamo ben sentito far menzione dal predicatore! Ma il suo farneticare era, forse, solo d’inganno. I loro volti parlano d’altro. Rappresi. Concentrati in una missione. Ineludibili.
Cava è la loro messa in scena. Do diesis minore, aspro. Poi do diesis maggiore. Sereno, sprofonda. Levato, sospeso. Rimescolamento agitato senza via d’uscita. Levato, nuovamente sospeso, alla medesima altezza. Da capo. A B A. Dopo il forzato, tutto non può che tornare come prima.

Sono andata al cinema per voi. Certa che Ceylan mi avrebbe mostrato una montagna da raccontare. Che avrebbe aperto lo sguardo sulla rarefazione dell’Anatolia. Che mi avrebbe lasciato divorare paesaggi. Nulla di tutto ciò. E allo stesso tempo molto di più. Il suo deserto è un buco nero. Gelido. Inghiotte qualsiasi possibilità di movimento. Avido, sfrutta gli scenari per eluderli, superandoli. Deglutisce a forza ogni buonismo. Ogni colore. Disdegna la metafora. L’accostamento. Tiene un piede appena prima della rivolta, del progetto, della vita stessa. Dello strappo. Ma non dimentica di allungare l’altro subito dopo. Quello che riprende è la distesa arida del durante. Lo fa in modo risoluto e autorevole, come chi è abituato a non tollerare le spiegazioni.

Ho portato con me quel deserto per giorni, sotto le unghie. Mi sono lasciata tormentare dagli occhi di chi lo popola. E poi ho deciso di smettere di pensarci. Quando meno me l’aspettavo, quegli occhi sono tornati. Raggrumati in un unico sguardo. Quello di una cariatide di Giulio Aristide Sartorio. Decente, dignitosa, incastra chi le passa davanti, pur senza pretesa di esser notata e vista. Sorregge il peso. Questo il suo celebre compito. Non sembra nemmeno fare un’eccessiva fatica. Piega di poco le ginocchia sotto la veste. Tiene le mani appoggiate sopra la testa, per meglio sostenere il carico. Mento diritto, collo teso. Nella capacità di accettare, consapevole, un peso eccessivo, dispiega il suo potere.

Gli occhi di Aydin, Nihâl e Neclâ non si sono raggelati in un’altissima noia. Ammalati di deserto, portano tutto lo sforzo.

Daniela Zangrando

Il titolo è tratto dal film Il regno d’inverno (Kış Uykusu) del regista Nuri Bilge Ceylan, 2014.

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