Bhagirathi IV, Matteo Della Bordella racconta la salita sulla inviolata parete ovest

Matteo Della Bordella racconta i dettagli della fortunata spedizione al Bhagirathi IV che l’ha visto con gli altri Ragni di Lecco, Luca Schiera e Matteo De Zaiacomo, salire in cima al colosso di 6193 metri del Garhwal, Himalaya indiano, dopo aver superato l’inviolata ed ambita parete ovest della montagna. E dopo una frana a dir poco spaventosa…
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Bhagirathi IV: lo scisto finale (Matteo Della Bordella, Luca Schiera, Matteo De Zaiacomo)
archivio Matteo Della Bordella

3 settembre 2019. Le cose stanno andando per il meglio. Portaledge e saccone sono già alla base della via, e con la salita della via normale al Bhagirathi II (6.512 m) la fase di acclimatamento si può dire conclusa. Ci sentiamo tutti e tre in piena forma ed anche il monsone è finito da pochi giorni, le piogge copiose che ci avevano accompagnato nelle prime due settimane di spedizione ora non sono altro che innocue nebbie, che ci avvolgono nelle ore serali. Fa caldo, troppo caldo e non ci spieghiamo come solo 4 anni prima si potesse schiattare di freddo in questo stesso luogo e nello stesso periodo dell’anno.

Mentre sono assorto nei miei pensieri è Giga ad un certo punto a richiamare la mia attenzione: "Guarda!....Teo Guarda!" La sua voce è allarmata ed esco dalla tenda in fretta e furia. Giusto in tempo per vedere lo spettacolo che mi lascia senza parole: blocchi grossi come macchine stanno rimbalzando esattamente lungo la linea che avremmo dovuto salire l’indomani. Si spaccano in mille pezzi e poi ancora rotolano verso il basso, coprendo di detriti tutta la parete fino ad arrivare sullo zoccolo e quindi sulla pietraia.

Dieci minuti più tardi, sono ancora a bocca aperta e lo spettacolo si ripete e questa volta anch’io me lo guardo in prima fila. Altre rocce si staccano dalla fascia finale di scisto del Bhagirathi IV, rimbalzano e si incanalano proprio sulla nostra via: vedo i detriti percorrere i due diedri, poi le placche e quindi più lentamente lo zoccolo.

Nessuno osa fiatare. Non ci sono mezze parole per descrivere l’accaduto: se ci fossimo trovati sulla nostra linea di salita in quel momento saremmo probabilmente morti, schiacciati dalla mole di pietre appena cadute.

Cosa abbiamo fatto dopo aver assistito ad uno spettacolo simile? Beh, quello che avrebbe fatto qualunque essere umano: non abbiamo attaccato la via e siamo tornati al campo base con le pive nel sacco ed il morale ridotto ai minimi termini.

14 settembre 2019. Sono passati undici giorni dal momento che ha cambiato la nostra spedizione. In mezzo un tentativo fallito su una linea più diretta e riparata, ma forse troppo dura: ci ha respinti una volta giunti alla base di un diedro completamente cieco dopo 3 giorni di scalata. Eppure siamo ancora lì nello stesso punto. Luca, Giga ed io al campo avanzato a fissare la Ovest del Bhagirathi IV.

E pensare che solo due giorni prima avevamo portato giù tutto il materiale e dichiarato chiusa la nostra spedizione. Ma poi quella notte un’idea forse folle ha iniziato ad insinuarsi nella mia mente, si è radicata nel profondo dei miei pensieri e non mi ha fatto dormire, facendomi pensare ad ogni singolo dettaglio, ad ogni scenario che avremmo potuto affrontare, a cosa ci sarebbe servito e cosa sarebbe stato superfluo. Quando l’ho esposta ai miei compagni non sapevo cosa aspettarmi… mi avrebbero mandato a quel paese o l’avrebbero trovata un’idea geniale? "Ragazzi, un ultimo tentativo in velocità. In giornata e con il minimo indispensabile. Sembra impossibile, ma tanto vale provarci."

Partiamo a mezzanotte dai 5.000 metri del nostro campo avanzato. Alle 3, con la luce della frontale e con una decina di gradi sotto lo zero (nel frattempo finalmente le temperature sono scese) è Luca ad attaccare. Dopo 6 lunghi tiri arriva il mio turno: la scalata fa schifo, nulla a che vedere con quello che era 4 anni fa. O meglio, sarebbero dei bellissimi tiri di fessura verticali e strapiombanti sul 6c/7a, se non fosse che tutto è ricoperto o intasato dalla polvere e dai detriti della frana.

L’unica cosa positiva è che non sento i 5.900 metri di quota, mi sembra di essere sul Grand Capucin e non faccio troppa fatica. Dopo 10 tiri ci aspetta un traverso di 60 metri, dove saluto il mio camalot due ultralight, sacrificato per un pendolo che ci fa guadagnare minuti preziosi.

Siamo fuori dalla zona della frana, ora la roccia è pulita. Inizia però la parte marcia, quella da sempre formata da blocchi instabili. Giga segue rapido col saccone pesante. Ancora qualche tiro e cedo il comando a Luca per la ciliegina sulla torta: due tiri sugli strati di scisto friabile che hanno reso famose queste montagne. Riesce a salire il primo con la luce, trovando fortunatamente una vena di granito, il secondo è già al buio. Ora la neve: abbiamo un paio di ramponi in 3, ma poco male. Prendo il comando, mi armo di pazienza e cerco il modo di fare delle soste decenti per i miei compagni che risalgono a jumar.

Alle 23 tocchiamo tutti quanti i 6.193 metri della cima. Ci riposiamo poi qualche ora nei nostri sacchi a pelo, prima di iniziare la discesa dal versante Est.

di Matteo Della Bordella

Link: www.ragnidilecco.com , karpos-outdoor.comwww.kong.it




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