Ricordando Arci Andrea Varnerin

Erik Švab ricorda l‘amico e climber Andrea Varnerin, uno dei precursori dell’arrampicata sportiva non solo a Trieste, deceduto pochi giorni fa e conosciuto a tutti come Arci.
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Andrea 'Arci' Varnerin sulla via 'La casa di marzapane' in Napoleonica
archivio Enrico 'Taddeo' Bernardi

Ho conosciuto Andrea Varnerin – Arci all’inizio degli anni ’90 quando io ero un giovanissimo arrampicatore reduce dal mio primo incidente in montagna e volevo iniziare ad arrampicare in falesia, e lui era il boss dell’arrampicata triestina al massimo del suo splendore, un esempio di climber di razza ariana con il capo perfettamente rasato, i muscoli scolpiti e una tecnica esagerata. Non era neanche tanto simpatico, anzi, era piuttosto scostante dall’alto dei suoi successi, delle prime salite in libera di vie nuove chiodate nelle falesie dei dintorni, insomma, un vero boss.

Ho seguito il suo esempio, ho cercato di migliorare in arrampicata e piano piano ci siamo conosciuti meglio, ho scoperto la sua smania di eccellere con un focus estremo sui metodi di allenamento scientifico applicati all’arrampicata, ho scoperto i suoi obiettivi e progetti e con fatica ho iniziato a guadagnarmi anche il suo rispetto e la sua amicizia. Poi abbiamo arrampicato insieme un sacco di volte, abbiamo aperto vie nuove in falesia e salito i boulder più belli del mondo, ci siamo persi di vista e ritrovati, abbiamo smesso entrambi di arrampicare e abbiamo continuato a vederci insieme a un gruppo di amici, i cosiddetti “Sopravvissuti”, chi per incidenti e infortuni subiti in montagna, chi per malattie e problemi sanitari e chi semplicemente per l’età. Insomma, nessuno di noi era intero e tutti avevamo i nostri acciacchi, ma ci univa la passione per le pareti e l’amicizia nata in tanti anni di roccia.

Arci era del 1963, era di quella generazione che aveva iniziato ad arrampicare in montagna e qui da noi, nei dintorni di Trieste, soprattutto in Val Rosandra, ma era uno di quelli che poi, per interesse e per capacità, erano stati attratti negli anni ’80 dalla nuova disciplina dell’arrampicata sportiva. Arci ha subito trovato la sua dimensione: la cura maniacale per la dieta e l’allenamento, l’ambizione di fare cose nuove e la motivazione per salire vie e pareti che fino ad allora non venivano neanche considerate interessanti. È stato tra i primi ad esplorare i passaggi boulder in Napoleonica, sia in verticale, sia in orizzontale, per concatenarli poi in lunghissimi e durissimi traversi, tra cui quello dello Scudo con difficoltà di 8A. Questa sfida è nata con un giovanissimo Rolando Larcher (che all'epoca frequentava a Trieste la scuola di Polizia) e insieme l’hanno provata per poi riuscire a chiuderla, e ancora oggi, insieme a Marco Sterni, sembrerebbe che siano gli unici ad averla fatta…

L’attenzione si è spostata poi nella falesia a picco sul mare della Costiera, dove Arci insieme a Rolando e con altri arrampicatori della zona tra cui Marco Sterni e Mauro Bubu Bole (che dalla falesia hanno poi portato le altissime difficoltà su roccia anche in montagna…) hanno chiodato e poi liberato alcune vie ancora oggi leggendarie, che sono diventate i simboli dell’arrampicata tecnica e di forza di quel periodo: Wowie Zowie 7b (ve lo raccomando…), Santa Esmeralda 8a e soprattutto la boulderosa Colibrì 8a+.

È stata poi la volta delle nuove vie difficili in Napoleonica con le super-tecniche Mud Club 8a+ e Orcobaleno 8b, culminate con la prima salita di Arci della complicatissima Pugacioff 8b+ che ancora oggi dovrebbe avere non più di 8 ripetizioni. Chi vuole vedere come erano le vie di quegli anni troverà sicuramente pane per i suoi denti.

L’attenzione di Arci si è poi spostata sulle vicine pareti di Ospo e Mišja peč in Slovenia dove è stato tra i primi, insieme al leggendario Tadej Slabe, ad intuire le potenzialità di quelle pareti strapiombanti, chiodando diversi tiri nuovi e cimentandosi sui tiri più duri dell’epoca, tra cui la mitica via di Tadej dal nome Za staro kolo in majhnega psa 8c+, rimasta tra le vie più dure al mondo per diversi anni. Arci è stato senza dubbio l’emblema e la storia dell’arrampicata sportiva triestina ma era al livello dei migliori della sua epoca anche a livello nazionale e internazionale.

Nel suo percorso di arrampicata estrema, Arci è stato sempre attratto da vie e passaggi di forza e dai tratti molto fisici, così non poteva mancare il suo approccio al boulder, prima sui passaggi singoli e storici in Napoleonica e poi con le salite di alcuni dei più famosi boulder nelle aree più belle d’Europa, tra cui sicuramente la Val di Mello (dove ha portato per anni i giovani talenti triestini a scoprire il Melloblocco) e Cresciano/Chironico, ma anche tutti i local spot dove ha continuato a sviluppare la sua passione per la forza e il movimento.

Quando nel 2003 ho fatto la prima (e sembrerebbe ancora unica) ripetizione della X di Marco in Napoleonica (un boulder che diventa una solitaria, salito per primo appunto da Marco Sterni), Arci era lì sotto, con le mani alzate a pararmi sui primi metri, e anche se poi a una certa altezza non serviva più a niente, lui ha continuato a pararmi, il supporto fisico e psicologico di un maestro.

Per me in arrampicata sportiva è stato prima un esempio, poi un maestro e alla fine un amico, mi ha insegnato l’importanza degli allenamenti seri e scientifici, mi ha insegnato la competizione (a volte anche esagerata e sfrenata) e mi ha spronato a puntare in alto e a diventare sempre più forte, dandomi degli obiettivi da raggiungere e superare. Ho sempre amato arrampicare d’inverno in Costiera in quelle giornate senza vento come oggi, quando alla base delle pareti potevi stare in maniche corte anche se nel resto del mondo faceva freddo. In quelle giornate in cui l’aderenza era perfetta e in cui le dita non sudavano, potevi riuscire a salire quelle vie a volte dimenticate dai trend più moderni. In Costiera Arci aveva chiodato un progetto su una placca bianca bellissima e sospesa quasi in fondo alla falesia, una via che richiedeva appunto dita forti e tecnica di piedi, un progetto che aveva già un nome: Doris. Io mi ero innamorato di quella linea, quando sono diventato abbastanza bravo ho iniziato a provarla e dopo un po’ di tempo sono riuscito a liberarla. Le ho dato il grado di 8a+, e anche se come primo salitore avrei avuto il diritto di chiamarla con qualsiasi nome, ho lasciato quello che Arci aveva deciso: Doris. Era un modo per rendere omaggio a un maestro…

Parallelamente alla sua attività sportiva è stato uno dei primi in Italia e al mondo a sviluppare i lavori su corda, e anche in quel campo, con la sua precisione e il suo focus ha creato diverse aziende ed è stato così anche nel campo del business un precursore, business che oggi viene portato avanti da suo figlio Stefano con la Core Srl, una delle aziende più serie del settore.

Quando Arci ha smesso di arrampicare si è invaghito della bici, sia mountain bike che poi bici da strada, e anche qui è stato per me un esempio, anche io infatti a causa di un grave incidente in cui mi sono rotto una vertebra, non potevo più arrampicare e ho deciso di provare ad andare in bici. Così una delle ultime volte in cui abbiamo fatto un viaggio insieme è stato nel 2015 quando siamo andati ad Arco a vedere le gare di arrampicata, a fare qualche giro in bici e a festeggiare i 50 anni di un amico comune, Rolando Larcher.

Sembra passata un’eternità, ma sono stati otto anni in cui Arci ha dovuto combattere insieme a sua moglie Donatella che gli è stata sempre accanto con una forza e una testardaggine pari alla sua, contro un tumore al cervello, prima operato e poi di nuovo tornato in recidiva a rovinare la vita al mio amico guerriero! Si, perché Arci era un leone, un testardo, uno che non si arrendeva mai, e anche quando non vedeva più niente perché il tumore gli premeva sul nervo ottico e gli ha rovinato la vista, continuava a fare quello che poteva, intagliando il legno e creando piccole opere d’arte come ciotole e taglieri intrasiati.

Un’altra cosa che ci accomunava era la passione per la velocità e per le auto sportive, anche questa credo che mi sia stata un po’ trasmessa da Arci, mi ricordo ancora quando sfrecciavamo sulle statali del Friuli per andare ad arrampicare a Erto e quando guidavo io, lui mi istigava: Vai più forte, accelera! Dai che, se siamo abbastanza veloci, da quel dosso possiamo decollare!

Arci adesso è veramente decollato verso il cielo, ci ha lasciato qui a chiederci perché la vita a volte è ingiusta proprio con quelli più forti e testardi, ci ha lasciato per ricordarci che la vita però va vissuta fino in fondo e che bisogna rincorrere i propri sogni e le proprie visioni: meglio una vita di rimorsi che una vita di rimpianti. Arci, brindiamo alla tua in Napoleonica!

di Erik Švab

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