Selvaggio Blu, i 20 anni del Sentiero più famoso della Sardegna

Marcello Cominetti racconta i vent'anni di Sevaggio Blu, un Sentiero che esprime il cuore selvaggio e poetico della Sardegna.
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Selvaggio Blu in Sardegna: il mare come riferimento...
Marcello Cominetti

Dicono sia il più difficile trekking italiano, sicuramente è uno dei più belli del mondo. Selvaggio blu è un manifesto e un inno alla natura. Un monumento a quella Sardegna del mare e delle scogliere, degli antichi sapori e dei boschi mediterranei che tutti sogniamo. Era il 1989 quando a Mario Verin, Peppino Cicalò e Pasquale Zucca, allora Sindaco di Baunei, venne l'illuminata idea di recuperare e unire i vecchi sentieri del Supramonte per questa traversata costiera dei golfi di Arbatax e Orosei. Da allora sono passati vent'anni e Selvaggio Blu è diventato un punto di riferimento per chi ama la natura selvaggia e la rispetta. Ma com'è cambiato, se è cambiato, Selvaggio Blu in tutti questi anni?
Noi lo abbiamo chiesto a Marcello Cominetti - in partenza proprio per Sevaggio Blu - che fin dall'inizio, da alpinista-marinaio nonché da guida alpina, ha percorso questo Sentiero che “non esiste” e che, come unico riferimento, ha il blu pazzesco del mare dell'Isola.

SELVAGGIO BLU, DENTRO A 20 ANNI di Marcello Cominetti

Tengo a mente facilmente l’età di questo sentiero sardo perché è la stessa di mio figlio maggiore. Lui, mio figlio, è cambiato come ovvio, il sentiero pure, e nella lunga epoca che ho trascorso in quella fetta aspra di Sardegna della mia vita, questo sentiero ne ha rappresentato solo una parte.

Fin da ragazzino andavo a curiosare nel Supramonte di Baunei, con mio padre, amico di un pastore, che è già morto di vecchiaia portandosi dietro quel mondo là, fatto di asini per spostarsi e ovili di pietra e ginepro dove oggi neanche una capra vivrebbe. Eppure quarant’anni fa ci vivevano gli uomini. Di sentieri neppure a parlarne, a parte pochi, il resto erano tracce di capre. Maiali non ce n’erano quasi e quando li incontravi ti facevano paura perché, essendo neri, pensavi subito al cinghiale.

Uno di quei pastori del Supramonte faceva il guardiano notturno al cantiere dove lavorava mio padre, a Arbatax, attratto da una paga fissa e un lavoro che era nulla a confronto di quello di pastore. Una notte mio padre volle testare la sua efficienza e andammo in cantiere alle due di notte. Il guardiano non  c’era. Girammo facendo baccano e nessuno apparve. Il giorno dopo quel pastore aspettava mio padre per dirgli tutto quello che avevamo fatto mentre lui ci osservava di nascosto. Ho visto che non rubavate nulla, vi ho lasciati fare e poi sono tornato a dormire, ma un occhio lo tengo sempre aperto perché un “dorgalese” può sempre arrivare. Ziu Jubanne, quando mia madre gli chiese come faceva a riconoscere una per una e per nome le duecento capre che mungeva ogni giorno di primavera, le rispose: e che, lei i suoi figli forse non li riconosce uno per uno? Mia madre di figli ne ha due.

20 anni fa, ma l'idea è ancor più vecchia, Pasquale Zucca, sindaco lungimirante di quell’estesissimo Comune montano che si sporge inconsapevolmente sul più bel mare del Mediterraneo, che è Baunei, spinto e aiutato da Mario Verin e Peppino Cicalò, decise di fare qualcosa per quella terra di sassi taglienti e mare blu. Insieme inventarono un percorso, senza fare nulla di nuovo perché i sentieri esistevano già, da secoli alcuni, e da decenni altri. Erano stati tracciati nel tempo dai pastori, dalle capre e poi dai carbonai toscani ma quelli in disuso erano stati inghiottiti da una vegetazione feroce quanto profumata.

L’ opera suprema fu il ripulirli per poterci passare, lasciando qualche sasso incastrato tra i rami, l’antico segnavia dei pastori, e pochissimi segni di vernice blu. Ma non pensate ai sentieri che si fanno oggi con i fondi della Comunità Europea un po’ ovunque, che sembrano strade per i quadricicli con l’opzione calcolata di trasformarli in carrabili dopo qualche anno sperando nei condoni berlusconiani. Ci si passava a stento, impigliandosi nei rami del lentisco che aggrediscono le caviglie come molossi e del ginepro che sembrano scimitarre, a ogni passo e si finiva tutti feriti di graffi.

Percorrere Selvaggio Blu era come passare nella trafilatrice vegetale che  lasciava il suo segno più profondo dentro al viandante, le ferite sulla pelle poi passavano, la lezione di vita del sentiero,no. Quella restava. Mi ricordo che all’inizio molti bauneesi dicevano: Selvaggio Blu non esiste. Io li capivo eccome, anche se facendo la guida ci portavo la gente e dovevo far finta che quel sentiero esistesse, che avesse un nome e che stava pure avendo un grande successo. Che era considerato il più difficile trekking italiano e le richieste per farlo erano tante. Lo descrissi nel ’93 sulla Rivista del CAI e ancor oggi non so se ho fatto bene o no.

Sulla scia della notorietà anche molti colleghi guide alpine se ne interessarono per potervi lavorare, non molti in verità, ma abbastanza per portare ad almeno un centinaio l’ anno le persone che lo percorrono per intero. Cosa credevate, che ci fosse la coda?
Poi anche i locali iniziarono a credere che il loro territorio è unico e che per farlo conoscere a chi è curioso, non bisognava fare nulla, anzi meno si faceva e più autentico e bello restava e resta.

Sono nate così delle organizzazioni locali che accompagnano gli escursionisti, molti di loro li posso contare orgogliosamente tra i miei amici, perché avere amico un sardo è per la vita, e da loro imparo ogni volta qualcosa, perché quella è la loro terra. Io la conosco bene, ma sono sempre un intruso, un po’ meno forestiero forse, perché lì ho vissuto per anni e ho parlato quella lingua, ma per andarci devo prendere il traghetto per lasciare il continente ogni volta. Quel mare blu nel mezzo c’è sempre.

Nel tempo il sentiero è mutato, ma non ha perso il suo carattere. Oggi è più pulito dai rami e più attrezzato, ma bisogna sempre orientarsi con esattezza - perdersi è facile anche per me che l’ho percorso una trentina di volte - e arrampicarsi e calarsi con le corde come nel 1989. Insomma, un po’ d’ esperienza alpinistica serve eccome e soprattutto serve avere un po’ di “cinghialità” per vivere sui sassi aguzzi per una settimana. Qualche segnavia in più era stato verniciato da folli e prontamente cancellato da saggi escursionisti locali e non. Ma alla fine resta il solco che questo pezzo di vita agreste sa scavare dentro chi lo percorre.

Selvaggio Blu è una bella camminata dentro se stessi, vicina a casa e pure a buon mercato, se vogliamo monetizzare il nostro svago, come oggi è di moda fare, ma posare i piedi milioni di volte su quei sassi taglienti è faticoso come sempre. E quel mare sempre a fare da sfondo, fa sembrare su una nave di roccia dagli odori forti tra le onde verdi dell’olivastro, del carrubo, del cisto, del corbezzolo, del ginepro, dell’asfodelo e del terebindo, una cosa che non esiste da nessun’altra parte.

Marcello Cominetti
marcellocominetti.com


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