Stagioni d'alta quota

Viaggio tra le salite e i fatti dell'appena conclusa stagione dell'alpinismo himalayano raccontati da Manuel Lugli
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Simone Moro, Cory Richards, Denis Urubko in vetta al Gasherbrum II dopo la prima salita invernale
Cory Richards
Archiviata da un po’ la primavera e da pochissimi giorni l’estate – con il bel successo di Gerlinde Kaltenbrunner sul versante nord del K2 – inizia ora il tempo delle foglie che cadono. Le prime spedizioni autunnali hanno riempito i bauli e sono partite - o sono in partenza - per nuove (?) imprese sulle montagne dell’Himalaya; ovviamente per ora non sono che un elenco di nomi più o meno famosi e di montagne. Queste ultime invece per lo più famose, dato che su quelle meno note - magari bellissime - non va nessuno. Altrimenti chi se lo fila?
Facciamo allora un breve riassunto di questi due terzi d’anno, che hanno visto, nel cosmo indistinto di centinaia di spedizioni e notizie varie, brillare alcune supernove. Abbiamo fatto una scelta personale, lasciando sicuramente indietro nomi, situazioni e salite degne di nota. Ce ne scusiamo ma, com’è noto, nessuno è perfetto.

La personalissima lista si apre con un “anticipo di campionato”: il 2 febbraio 2011 Simone Moro, Denis Urubko e Cory Richards raggiungono la vetta del Gasherbrum II, realizzando la prima salita invernale della montagna. Con questa fanno tre prime invernali assolute per l’alpinista bergamasco, dopo Shisha Pangma (2005) e Makalu (2009) e due per il kazako, con Moro anche al Makalu. A proposito di Urubko, da segnalare due sue nuove realizzazioni in Kirgyzstan: una sul Pik Prezhevalskogo (6.240 m.) ed una sull’ostico Pik Pobeda (7.439 m.); qui, assieme a Gennnadyi Durov, ha aperto in poco più di tre giorni una terrificante nuova linea, valutata 6B della scala russa (il grado più difficile), sull’immensa parete sud, arrivando in vetta il 15 di agosto. Tornando a Moro, è indubbio che non finisce mai di stupire, dimostrando di avere idee luminose in testa ma anche – non è certo questa una novità - grandi capacità “trasversali”. A maggio, tanto per dirne un’altra, lo troviamo a pilotare un elicottero di soccorso nella valle dell’Everest, come già aveva fatto nell’ottobre del 2010 attorno al Baruntse. Chapeau.

Ad aprile in giro per le montagne del Tibet troviamo un alpinista che ha bisogno di poche presentazioni: Ueli Steck. Le parole chiave per descriverlo sono: fortissimo, eclettico e veloce. Da Yosemite alle Alpi, dalle Candian Rockies all’Himalaya, Ueli ha aperto e salito vie in solitaria e in compagnia, in stile alpino o in velocità. La scorsa primavera, con il suo “Project Himalaya” ha messo in tasca quasi tre ottomila in poco più di un mese, tra cui la sud dello Shisha Pangma e la normale del Cho Oyu in meno di venti giorni. Il “quasi” è stato l’Everest nord, dove, in grande forma nonostante salisse senza ossigeno, ha fatto dietro front dalla sommità del secondo step – a cento metri dalla cima e alle prime luci dell’alba, quindi in orario perfetto – per riportare a casa le dita dei piedi. Forte, eclettico, veloce e lucido. Le storie dell’alta quota raccontano che in tanti al suo posto hanno osato; pochi hanno avuto successo pieno, alcuni altri ce l’hanno fatta lasciando all’aria sottile pezzi di sé, mentre molti altri non sono più scesi. Per farsi un’idea dell’uomo, leggasi la sua progressione in stile alpino allo Shisha: partenza dal campo base avanzato (5.940 m. circa) alle 22.25, cima principale (8.027 m.) alle 11.40, di nuovo all’avanzato alle 18.30. Venti ore per salire e scendere, attraversando, dal basso verso l’alto, la via degli scozzesi, quella di Wielicki e, prima della cresta finale, quella degli spagnoli. “Non avevo mappa con me e quindi salivo dove mi sentivo meglio e mi divertivo di più”, scrive Steck sul suo sito
(www.himalayaspeed.com, da visitare assolutamente, molto bello). Forte, eclettico, veloce, lucido e ludico.

Altro exploit prezioso e pulito è quello di Abele Blanc all’Annapurna, sua montagna feticcio, ossessione bella e terribile, suo ultimo ottomila che lo porta nella ristrettissima lista di alpinisti che hanno salito le vette più alte della terra senza ossigeno, terzo degli italiani dopo Messner e Mondinelli e dodicesimo assoluto. All’Annapurna Blanc ha vissuto nel 2005 e 2006 alcuni dei momenti più drammatici della sua vita di uomo ed alpinista. Lì ha perso il suo compagno di salite più caro, Christian Kuntner, e lì è tornato per chiudere i conti. Con una spedizione veloce e discreta, come di sua abitudine, il 26 aprile scorso Abele pestava la neve della cima di uno degli ottomila più “bassi” ed al tempo stesso pericolosi di tutti. Un mese dopo era in Pakistan ad accompagnare suoi clienti in un tranquillo trek sul Baltoro, come una normale Guida Alpina. Parole chiave: forte, discreto, perseverante. Un altro alpinista finisce il gioco degli ottomila: Mario Panzeri. Il 20 maggio 2011, assieme ad un multietnico gruppo di alpinisti, raggiunge la cima di una bestia mica da poco come il Kanchenjunga, 8.576 m. Forza quasi primordiale e determinazione sono alla base del suo cammino alpinistico.

Tra le chiusure di “percorsi” alpinistici, il 28 aprile 2011 irrompe tragicamente la chiusura di un percorso di vita: quello di Erhard Loretan, uno dei più grandi alpinisti di tutti i tempi. Himalaysta di razza superiore, terzo della lista dei famosi tredici salitori di tutti gli ottomila senza ossigeno, lo svizzero se ne va probabilmente tradito da una cornice sulle sue Alpi Bernesi, mentre accompagna una cliente su un itinerario che aveva percorso chissà quante volte. Una storia purtroppo raccontata altre volte che aggiunge tanta stanchezza alle parole fino a fermarle.

Due s-notizie estemporanee di ordinaria himalayetà invadono la nostra lista a metà stagione. Lhotse. Carlos Pauner esausto per salita e discesa senza ossigeno del Lhotse, Juanito Oyarzabal, provato – come già accaduto diverse volte negli ultimi anni – da fatica e probabilmente età e alcuni altri tra cui l’altro spagnolo Carlos Soria con ossigeno in salita e discesa (ma lui c'ha 70 anni...), si "dimenticano" di un compagno lungo la strada e scendono a un campo intermedio. La mattina dopo sono felici perchè il compagno viene ritrovato e preso per i capelli dai gemelli patagonici Willi e Damien Benegas (sempre dei grandi) e alcuni sherpa di Russel Bryce. Pauner e soci arrivano al base più morti che vivi, e a Pauner (già abituato a tornare dalla valle delle ombre, come gli era capitato al Kanchenjunga) l'unica cosa che preme rimarcare più volte, è che sono tutti, tranne un paio, saliti senza ossigeno. Una prece.

Makalu. La svizzera Joelle Brupbacher arriva in cima tardi e in discesa, quando è al C3, sta male e diventa incapace di muoversi. Due suoi compagni spagnoli, Martin Ramos e Jorge Egocheaga, chiedono aiuto al base; uno sherpa di una spedizione commerciale si offre di salire con ossigeno ma viene stoppato, secondo la testimonianza di Ramos, per due volte dall’expedition leader della spedizione commerciale. La svizzera muore alle 11.30 di sera, a 7.400 metri, mentre Steve House e Marko Prezelj stanno salendo con l’ossigeno per lei. Difficile non notare un paio di cose: che uno come Pauner, con la sua esperienza, non riconosca la follia di fare salite "tirate per il collo" come la loro, su una via normale, passandola pure come impresa solo perchè non è stato usato ossigeno e si è salvata la pelle per un soffio. E che una himalaysta come la Brupbacher, che pure aveva cinque ottomila alle spalle, non abbia realizzato che trovarsi alle 14,30 a 8.200 metri su una montagna come il Makalu (quasi 300 mt. sotto la vetta!), vuol dire rimanere in giro fino a notte a cuocersi di freddo spegnendo ogni energia residua. Abbiamo sempre invocato la sospensione del giudizio di fronte a certe situazioni, è vero, ma insomma, c’è un limite a tutto.

L’estate porta il solito movimento sulle montagne pakistane. Alcune storie sono davvero toste. Come quella sull’enorme parete ovest del Latok III, dove in quindici giorni di giugno, quattro alpinisti russi guidati da Alexander Odintsov (Piolet d’Oro 2004), aprono una nuova via. In rigoroso stile capsula, i quattro salgono una via durissima e pericolosa, che già li aveva fatti tornare a casa due volte - nel 2000 e 2001 - parecchio ammaccati. Pochi, brutti e cattivi quelli che si cimentano su queste pareti. Come gli italiani Ermanno Salvaterra e Andrea Sarchi in compagnia di Cesare Ravaschietto, Marco Majori e Bruno Mottini. Partiti ai primi di giugno, scompaiono letteralmente dalle cronache pubbliche e private per fare quel che sanno fare alla grande: scalare bestie scalcianti come la cresta nord del Latok I. Senza dire un belino a nessuno per tutto il tempo. Niente parabole al base o dirette per farci sapere quanto è cattiva la montagna che non li fa salire e pararsi il culo per un possibile fallimento. Cinquanta giorni di schiaffoni su difficoltà elevatissime con tempo pessimo, soli, senza cronache marziane né storie strappacuore. Per tornare a casa e dire semplicemente: gente, è andata male. Ce l’abbiamo messa tutta, ma abbiamo perso. Pazienza, ci rifaremo la prossima volta. Sì. Qualcuno c’è ancora.

E qui entra di prepotenza, tutt’altro che brutta ma sicuramente "cattiva", Gerlinde Kaltenbrunner e la sua salita dello spigolo nord del K2, un capolavoro di tenacia che la porta a diventare la prima donna ad aver salito tutte le montagne di ottomila metri senza far uso di ossigeno. La salita dello spigolo nord, via lunghissima, difficile ed in molti tratti pericolosa per le scariche, è stata per l’alpinista austriaca ed i compagni di salita - i kazaki Maxut Zumayev, Vasiliy Pvitstov ed il polacco Darek Zaluski - una vera odissea, caratterizzata da tempo molto brutto e condizioni in parete di estrema pericolosità per gran parte della loro permanenza. Proprio le condizioni proibitive hanno indotto il marito della Kaltenbrunner, Ralf Djumovits, a rinunciare. Gerlinde ha invece deciso di proseguire raggiungendo, dopo un’estenuante progressione in neve alta, anche se con tempo per fortuna ottimo e poco ventoso durante tutta la giornata, la vetta della seconda montagna più alta della terra alle 18,18 del 23 agosto. Eccoci dunque ad una nuova pietra miliare nella storia dell’alpinismo himalayano. Dopo la coreana Oh Eun Sun elitrasportata e contestata da più parti, la basca Edurne Pasaban, senz’altro brava, ma certamente più “assistita” e soprattutto “ossigenata”, il successo della Kaltenbrunner, pur nella controversa logica “di gara” che per l’alpinismo in quota appare per molti versi assurda, brilla senz’altro di luce più nitida e fa piacere. Anche per la scelta della Kaltenbrunner di tentare la quadratura del cerchio su una via di questa complessità, non certo una scelta di comodo per chiudere la corsa. Medaglia al valore himalayano, senza dubbio.

Se da una parte spiace che tra i nomi di queste summiters non appaia quello di Nives Meroi, la nostra Nives, che con le sue undici vette è rimasta a poca distanza da un successo storico, dall’altra siamo oltremodo felici di sapere che Nives, assieme al marito Romano Benet ed alcuni amici, partirà per il Nepal in ottobre. Dopo una lunga interruzione forzata di due anni e mezzo, tutti dedicati a recuperare la salute di Romano, per fortuna con successo, la coppia di alpinisti tarvisiani tornerà a camminare sui sentieri nepalesi, a testare le ritrovate condizioni fisiche e magari a programmare altre salite più impegnative. “Quello che abbiamo imparato in montagna “ racconta Nives, ”ci è servito tantissimo in questo frangente. Mettere un passo dietro l’altro, sempre in cordata. Abbiamo portato questo spirito nelle difficoltà della vita di tutti i giorni”. Conoscendo da quasi vent’anni la loro forza viscerale di coppia, il fatto che siano riusciti nella più dura impresa della loro vita non impressiona più di tanto.
Basta con le distrazioni, è ora di pensare alle cose serie: le montagne.

Manuel Lugli



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