Guerra fredda sull'Everest: un ottomila fuori dagli schemi

Guerra Fredda sull’Everest di Woodrow Sayre (Monterosa Edizioni) la storia di un’impresa troppo grande per essere capita nel tempo in cui venne realizzata. La recensione di Simonetta Radice.
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La copertina di Guerra Fredda sull'Everest di Woodrow Sayre, Monterosa Edizioni
Monterosa Edizioni

Accade, a volte, che alcune innovazioni arrivino troppo presto perché possano ricevere l’accoglienza che meritano o che, più semplicemente, siano riconosciute come tali. Accade anche nell’alpinismo, soprattutto quando i loro padri sono persone al di fuori dell' "establishment" di turno e poco inclini a inchinarsi a regole e convenzioni.

"Guerra Fredda sull’Everest", di Woodrow Sayre (Monterosa Edizioni), racconta esattamente questo: un’impresa troppo grande per essere capita nel tempo in cui venne realizzata. Immaginate quindi di essere nel 1962, immaginate quattro giovani alpinisti (Norman Hansen, Roger Hart and Hans-Peter Duttle erano i compagni di Sayre) con un sogno: la parete Nord dell’Everest. Senza permesso (impossibile ottenerlo dai cinesi), senza ossigeno (troppo costoso, troppo pesante e anti estetico) e senza portatori dal campo base in poi. Senza allenamento? Non proprio: Sayre decide di raggiungere a piedi l’Everest da Kathmandu: quasi 300 chilometri a piedi fino al Campo base e poi oltre 40 in linea d’aria dal ghiacciaio Ngo Jumbo alla parete della montagna, per il passo Nup La.

L’impresa era considerata impossibile dagli alpinisti dell’epoca ma, come sappiamo, l’alpinismo esiste proprio per spostare la barriera dell’impossibile e i quattro diedero senza dubbio il loro contributo alla causa. Senza ricavarne grande gloria, però: al ritorno in patria, infatti, dove com’è noto nessuno è profeta, dovettero fare i conti con l’ostruzionismo di Norman Dyhrenfurth – capo della prima spedizione americana che raggiunse l’Everest nel 1963 – il quale fece ogni cosa in suo potere per limitare al massimo la visibilità dell’impresa di Sayre. Dyhrenfurth temeva infatti che il "capriccio" di Sayre - sconfinare in Tibet senza permesso - avrebbe potuto mettere a rischio la sua spedizione, preparata con grande dispiego di mezzi e di uomini. Il resto dell’establishment dell’American Alpine Club non fu certo più tenero con i quattro outsider: le accuse a cui furono sottoposti spaziavano infatti dall’aver messo a rischio il futuro di tutte spedizioni Himalayane d’America all’aver compromesso la pace nel mondo.

Ma se il viaggio di Sayre e compagni non fu accolto con gli onori che pure avrebbe meritato, il suo libro ("Four against Everest" era il titolo originale) divenne presto una sorta di manifesto dell’avventura e dell’anti autoritarismo, molto popolare tra le frange di giovani che davano segni di insofferenza e ribellioni nei confronti dell’autorità costituita. E in effetti il libro ha molti pregi: Sayre non cede un millimetro alla retorica, regalandoci finalmente un récit fresco, a tratti genuinamente sorprendente e non privo di ironia: "Se i comunisti cinesi mi avessero preso," dice a un certo punto Sayre "avrei detto di essere il nipote di Khrushchev" (e anche qui, ci ricorda qualcosa decisamente ante litteram!).

Di quello straordinario team, oggi solo Hans-Peter Duttle è ancora in vita e, intervistato recentemente da "Alpinist" descrive così quel sogno che ebbe la fortuna di vivere… quando l’Everest era l’Everest: "Nel 1962 volevamo semplicemente andare per la nostra strada, senza chiedere il permesso a nessuno e senza far male a nessuno." Sembra niente, invece è libertà.

recensione di Simonetta Radice




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