Il Tibet e le cronache dall’Everest incatenato
Nel pieno della moratoria “olimpica” che impedisce la salita dell’Everest, Manuel Lugli racconta la stralunata e incredibile situazione ai piedi della più alta montagna del mondo “prigioniera politica” insieme ai tibetani della ragion di stato cinese.
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Island Peak, 6.189 metri, aprile 2008
arch. Manuel Lugli
Salgo, arranco, bestemmio, sbuffo. Passo ancora un crepaccio nero su una traballante scaletta di alluminio fissata (?) da un paio di precarie viti da ghiaccio agli estremi. Mi fermo, respiro, sospiro, guardo in alto. Sono quasi fuori dall’immenso labirinto del ghiacciaio. Mordo il ghiaccio con le punte dei ramponi ed infine mi siedo sul labbro superiore dell’Icefall. Prendo fiato, mi rialzo, vedo le tende del campo 1 e riparto.
Quando alzo gli occhi vicino alle tende, non mi aspetta un compagno, non uno sherpa, ma un soldato. Armato. Che mi dice che non posso salire oltre. Almeno fino al 10 maggio. Bestemmio, sputo, sbuffo. Lo mando a cagare – anche se non c’entra niente il povero ragazzetto nepalese - e stramaledico i cinesi – che invece c’entrano moltissimo.
Brandelli di cronaca possibile, anzi quasi certa, che arriva dall’Everest. La situazione sarebbe quasi comica se non ci fosse un filo rosso tragico che lega il tutto: i morti, gli arresti e gli oppressi del Tibet. Al campo 1 dell’Everest pare davvero che gli alpinisti trovino militari armati a fermarli, per evitare ogni possibile “dissidenza” anti-cinese sulla montagna. Quel che è certo è che il governo nepalese ha dispiegato forze in abbondanza in tutta la valle del Khumbu per controllare la situazione dell’Everest.
I controlli iniziano già a Lukla sui materiali delle spedizioni e continuano alla porta del Parco del Sagarmatha a Monjo, dove militari e polizia perquisiscono tutti gli zaini di trekkers ed alpinisti alla ricerca di telefoni satellitari, sistemi di trasmissione dati e soprattutto bandiere del Tibet, striscioni di protesta ed ogni altro supporto anti-cinese. Questo non impedisce a noi, in trek verso il Renjo La, lungo la valle di Thame e del Cho Oyu che porta verso il Tibet, di regalare ad alcuni commercianti di Namche Bazaar – quasi tutti di origine tibetana - tre-quattro bandiere del Tibet appositamente portate allo scopo. Ma noi siamo entrati abbastanza presto e per di più lungo la valle del Cho Oyu, poco frequentata. Più la stagione entra nel vivo e più i militari, ed i controlli, aumentano in tutti i principali centri della valle dell’Everest.
Quando poi gli alpinisti arrivano al campo base, i militari perquisiscono ancora e chiedono la consegna di ogni sistema di comunicazione satellitare (telefoni ed antenne satellitari per connesioni con la rete) e delle videocamere digitali. I telefoni vengono messi a disposizione dei legittimi proprietari per le loro comunicazioni dalle 13 alle 15. Fine. Ogni altra soluzione è fuorilegge. Qualcuno tenta di sfuggire e non dichiara il telefono; altri nascondono qualche striscione pro-Tibet. La pena per tutti è la stessa: sequestro di ogni cosa e cancellazione del permesso di salita. Come dire 15.000 € buttati nel cesso. Che vuoi farci, è la guerra baby.
Al campo base ci sono anche alcuni cinesi. Un giorno, verso la fine del nostro trek, li vediamo sbarcare da un elicottero militare a Lukla, in compagnia di alti ufficiali nepalesi che li hanno scortati al campo base per controllare che tutto fosse tranquillo. Veniamo anche a sapere che i cinesi avevano fatto richiesta di un permesso di salita ufficiale per il versante nepalese, così da controllare direttamente sulla montagna che nessuno li contestasse. Poi la cosa è rientrata; evidentemente anche il governo nepalese ha un minimo di senso del pudore. Certo l’indignazione per una resa così incondizionata dei governanti nepalesi alle richieste cinesi rimane, ma d’altronde chissà quali poderose leve economiche avrà mosso il governo di Pechino nei confronti del povero, traballante Nepal…
Noi continuiamo il nostro trek verso l’Island Peak, 6.189 metri, ciliegina sulla torta del nostro viaggio. Nessuno controlla la valle che va verso Chukung e quindi ci permettiamo di continuare la nostra minuscola, personale campagna pro-Tibet esponendo una bandiera tibetana al campo base dell’Island Peak e poi di nuovo a 6.000 metri, poco sotto la cima dell’Island Peak. In cima no, perché questa primavera la cima dell’Island Peak non c’è, o meglio, c’è ma è larga non più di due metri quadri ed in piedi non ci si sta (anche per il vento).
Siamo di fronte all’immensa parete sud del Lhotse, con una giornata che più bella e tersa non si può. Se qualcuno fosse già in cima al Lhotse vedrebbe la nostra minuscola macchietta colorata quaggiù. Ad un certo punto sentiamo rombare in distanza un elicottero: azz! ci hanno beccati, ora ci intimeranno di arrenderci e consegnarci senza fare resistenza. Ci vediamo già in ceppi, in un campo di rieducazione del Guandong a studiare il pensiero del Grande Timoniere. Ma l’elicottero prosegue con decisione verso il Makalu. Sapremo poi che si dirigeva a soccorrere un altro elicottero schiantatosi al campo base del Makalu – per fortuna senza vittime.
Scendiamo al campo base soddisfatti per la salita e le foto. E, sempre ammirando la parete sud del Lhotse, che dal basso è ancora più impressionante, pensiamo con un brivido a quel che accadrà il 10 maggio, quando finalmente scadrà la “moratoria” dell’Everest. Quando quattro-cinquecento alpinisti e sherpa (ci sono 47 spedizioni al campo base) incazzati, stanchi di scendere a Gorak Shep e Tengboche per far passare il tempo, col sacro fuoco della salita al culo più ardente che mai, si fionderanno tutti insieme – o quasi – verso l’alto, ad occupare campi, corde, pendii e creste. Nelle risicate “finestre” climatiche che classicamente contraddistinguono le salite all’Everest e che raramente sono più di due. Pieni di cose da fare: salire, montare i campi sopra il 2, finire l’acclimatamento alto, filmare, fotografare, comunicare, aggiornare siti, telefonare. Tutto in tre settimane circa.
Solo gli spiriti dell’aria e dell’altitudine possono sapere. Tutti gli altri possono solo incrociare le dita e sperare che il tempo sia clemente e non s’inventi una di quelle tempeste perfette che ogni tanto rasano i pendii del Sagarmatha. Ed innalzare un pensiero triste alla sola cosa che ancora una volta sia riuscita ad innalzarsi vertiginosamente sopra la magnificenza delle alture himalayane: la stupefacente stupidità dell’uomo.
Manuel Lugli
www.nodoinfinito.com
Quando alzo gli occhi vicino alle tende, non mi aspetta un compagno, non uno sherpa, ma un soldato. Armato. Che mi dice che non posso salire oltre. Almeno fino al 10 maggio. Bestemmio, sputo, sbuffo. Lo mando a cagare – anche se non c’entra niente il povero ragazzetto nepalese - e stramaledico i cinesi – che invece c’entrano moltissimo.
Brandelli di cronaca possibile, anzi quasi certa, che arriva dall’Everest. La situazione sarebbe quasi comica se non ci fosse un filo rosso tragico che lega il tutto: i morti, gli arresti e gli oppressi del Tibet. Al campo 1 dell’Everest pare davvero che gli alpinisti trovino militari armati a fermarli, per evitare ogni possibile “dissidenza” anti-cinese sulla montagna. Quel che è certo è che il governo nepalese ha dispiegato forze in abbondanza in tutta la valle del Khumbu per controllare la situazione dell’Everest.
I controlli iniziano già a Lukla sui materiali delle spedizioni e continuano alla porta del Parco del Sagarmatha a Monjo, dove militari e polizia perquisiscono tutti gli zaini di trekkers ed alpinisti alla ricerca di telefoni satellitari, sistemi di trasmissione dati e soprattutto bandiere del Tibet, striscioni di protesta ed ogni altro supporto anti-cinese. Questo non impedisce a noi, in trek verso il Renjo La, lungo la valle di Thame e del Cho Oyu che porta verso il Tibet, di regalare ad alcuni commercianti di Namche Bazaar – quasi tutti di origine tibetana - tre-quattro bandiere del Tibet appositamente portate allo scopo. Ma noi siamo entrati abbastanza presto e per di più lungo la valle del Cho Oyu, poco frequentata. Più la stagione entra nel vivo e più i militari, ed i controlli, aumentano in tutti i principali centri della valle dell’Everest.
Quando poi gli alpinisti arrivano al campo base, i militari perquisiscono ancora e chiedono la consegna di ogni sistema di comunicazione satellitare (telefoni ed antenne satellitari per connesioni con la rete) e delle videocamere digitali. I telefoni vengono messi a disposizione dei legittimi proprietari per le loro comunicazioni dalle 13 alle 15. Fine. Ogni altra soluzione è fuorilegge. Qualcuno tenta di sfuggire e non dichiara il telefono; altri nascondono qualche striscione pro-Tibet. La pena per tutti è la stessa: sequestro di ogni cosa e cancellazione del permesso di salita. Come dire 15.000 € buttati nel cesso. Che vuoi farci, è la guerra baby.
Al campo base ci sono anche alcuni cinesi. Un giorno, verso la fine del nostro trek, li vediamo sbarcare da un elicottero militare a Lukla, in compagnia di alti ufficiali nepalesi che li hanno scortati al campo base per controllare che tutto fosse tranquillo. Veniamo anche a sapere che i cinesi avevano fatto richiesta di un permesso di salita ufficiale per il versante nepalese, così da controllare direttamente sulla montagna che nessuno li contestasse. Poi la cosa è rientrata; evidentemente anche il governo nepalese ha un minimo di senso del pudore. Certo l’indignazione per una resa così incondizionata dei governanti nepalesi alle richieste cinesi rimane, ma d’altronde chissà quali poderose leve economiche avrà mosso il governo di Pechino nei confronti del povero, traballante Nepal…
Noi continuiamo il nostro trek verso l’Island Peak, 6.189 metri, ciliegina sulla torta del nostro viaggio. Nessuno controlla la valle che va verso Chukung e quindi ci permettiamo di continuare la nostra minuscola, personale campagna pro-Tibet esponendo una bandiera tibetana al campo base dell’Island Peak e poi di nuovo a 6.000 metri, poco sotto la cima dell’Island Peak. In cima no, perché questa primavera la cima dell’Island Peak non c’è, o meglio, c’è ma è larga non più di due metri quadri ed in piedi non ci si sta (anche per il vento).
Siamo di fronte all’immensa parete sud del Lhotse, con una giornata che più bella e tersa non si può. Se qualcuno fosse già in cima al Lhotse vedrebbe la nostra minuscola macchietta colorata quaggiù. Ad un certo punto sentiamo rombare in distanza un elicottero: azz! ci hanno beccati, ora ci intimeranno di arrenderci e consegnarci senza fare resistenza. Ci vediamo già in ceppi, in un campo di rieducazione del Guandong a studiare il pensiero del Grande Timoniere. Ma l’elicottero prosegue con decisione verso il Makalu. Sapremo poi che si dirigeva a soccorrere un altro elicottero schiantatosi al campo base del Makalu – per fortuna senza vittime.
Scendiamo al campo base soddisfatti per la salita e le foto. E, sempre ammirando la parete sud del Lhotse, che dal basso è ancora più impressionante, pensiamo con un brivido a quel che accadrà il 10 maggio, quando finalmente scadrà la “moratoria” dell’Everest. Quando quattro-cinquecento alpinisti e sherpa (ci sono 47 spedizioni al campo base) incazzati, stanchi di scendere a Gorak Shep e Tengboche per far passare il tempo, col sacro fuoco della salita al culo più ardente che mai, si fionderanno tutti insieme – o quasi – verso l’alto, ad occupare campi, corde, pendii e creste. Nelle risicate “finestre” climatiche che classicamente contraddistinguono le salite all’Everest e che raramente sono più di due. Pieni di cose da fare: salire, montare i campi sopra il 2, finire l’acclimatamento alto, filmare, fotografare, comunicare, aggiornare siti, telefonare. Tutto in tre settimane circa.
Solo gli spiriti dell’aria e dell’altitudine possono sapere. Tutti gli altri possono solo incrociare le dita e sperare che il tempo sia clemente e non s’inventi una di quelle tempeste perfette che ogni tanto rasano i pendii del Sagarmatha. Ed innalzare un pensiero triste alla sola cosa che ancora una volta sia riuscita ad innalzarsi vertiginosamente sopra la magnificenza delle alture himalayane: la stupefacente stupidità dell’uomo.
Manuel Lugli
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