Sullo Shawa Kangri nella Rangtik Valley (India) Matteo De Zaiacomo, Chiara Gusmeroli e Davide Nesa aprono Less is More
Se mi fermo a pensare a com’era cominciato quest’anno, mai avrei immaginato di ritrovarmi qui a vivere un’esperienza del genere. Il 2025 per me era iniziato con un incidente mentre scalavo su ghiaccio, dove ho fratturato 2 vertebre cervicali. Medici e ortopedici non erano per nulla ottimisti riguardo ad una pronta guarigione.
Le aspettative per quest’anno dunque erano veramente basse, proprio come il mio morale in quel periodo. Speravo solamente che questo incubo sarebbe finito il prima possibile. anche se sapevo che sarei dovuto restare tranquillo per riprendermi al meglio da questo incidente. Nel profondo, però, sognavo di ritornare in forma il prima possibile per tornare sulle mie amate pareti a fare ciò che più mi piace.
Finalmente dopo quattro mesi di “prigione” passati con il busto e collare, la situazione sembrava migliorare: durante una visita di controllo mi dicono che le vertebre si stavano saldando e potevo iniziare il recupero con la fisioterapia e piano piano ritornare alla normalità.
Con le prime scalate anche l’umore finalmente cominciava a migliorare; non avevo progetti per l’estate, inseguivo semplicemente il sogno di ritornare a scalare come prima. Poi la svolta quando Matteo De Zaiacomo e Chiara Gusmeroli mi hanno invitato in spedizione con loro in India, non ci hanno messo molto a convincermi e il giorno seguente mi sono licenziato e ho preso il biglietto aereo.
Per me era una proposta incredibile, ho passato anni a sognare di partecipare ad una spedizione del genere e finalmente avevo l’occasione di realizzare questo sogno e confrontarmi con queste cime dall’altra parte del mondo assieme a due grandi amici.
La nostra spedizione è iniziata per il meglio, siamo partiti a ferragosto ed eravamo tutti e tre gasati come faine in un pollaio, pronti ad esplorare questa valle paradisiaca sperduta nella regione dello Zangskar.
Siamo arrivati proprio durante una finestra di bel tempo e anche se non eravamo molto acclimatati, abbiamo deciso di provare a scalare. Il 21 agosto con Chiara siamo riusciti a ripetere la via Rolling Stones allo Shawa Kangri e il morale continuava a salire: solamente sei giorni prima stavamo partendo dalla Valtellina e, invece, in quel momento ci trovavamo a 5728 metri su una cima in India!
Su questa montagna siamo tornati due giorni dopo con Matteo, per aprire una via sull’inviolata parete nord-ovest. È stata una sfida entusiasmante, siamo saliti seguendo la logica della parete, scalando solo con protezioni tradizionali in libera e senza forzare la linea; alla fine ne è uscita una bella via di circa 500 metri con difficoltà di VIII grado su roccia fotonica seguendo lame, diedri e alcuni passaggi in placca su protezioni “interessanti”. A questo punto il morale era alle stelle e la cordata era ben rodata e affiatata per i giri durante le settimane successive.
Rientrati al campo base però ha iniziato a nevicare e questo brutto tempo è continuato per i successivi dieci giorni, nevicando ininterrottamente e rendendo l’atmosfera più natalizia. Durante questo periodo di riposo forzato abbiamo avuto tempo per addobbare il campo con un pupazzo di neve, varie battaglie a palle di neve, giocare a carte e pensare a come chiamare la via appena aperta.
Proprio durante un torneo di scopa stavamo ascoltando Society di Eddie Vedder quando una frase ci colpisce e ci resta in testa come un mantra: Less is More. Nulla di più azzeccato come nome per la via appena aperta, basta veramente poco per vivere delle bellissime avventure: friend, qualche dado e un po’ di occhio per seguire le linee che la roccia offre, senza forzature e senza lasciare segni del nostro passaggio, così da mantenere intatto lo spirito di avventura anche per i prossimi salitori.
Era un po’ la filosofia di questa spedizione, esplorare questi posti selvaggi facendoli rimanere tali, mantenendo un’etica sana, lontana da quell’alpinismo consumistico da trapano che abbandona ogni regola per un’egocentrica voglia di successo. L’esperienza rimane incisa molto più a fondo di qualsiasi foro in cui alloggiare uno spit e sono super contento che tutto ciò sia condiviso dai miei compagni di spedizione.
Tornando al maltempo, la situazione continuava a peggiorare: la neve scendeva senza sosta, tre delle tende fornite dall’agenzia erano crollate sotto al peso della neve (in una delle quali stavo beatamente dormendo quando sono stato sepolto vivo da 1 metro di neve) e i cuochi sono scappati tre giorni in paese per paura della nevicata. Durante queste giornate abbiamo vissuto momenti di grande sconforto ma anche di felicità, nella totale anarchia dopo aver preso possesso della tenda cucina. Proprio come i bambini abbiamo subito finito tutti i biscotti, nutella e cioccolatini, passavamo le giornate barricati in tenda a inventarci delle ricette che ci ricordassero l’Italia e a giocare a carte.
Fortunatamente la perturbazione sembrava essere giunta al termine, stava ritornando a splendere il sole che ci permetteva finalmente di uscire all’aria aperta e stavano rientrando pure i cuochi dopo la loro rocambolesca fuga a valle.
Il meteo è migliorato però la valle era piena di neve, al campo base ne era scesa un metro e mezzo e anche le pareti erano impiastrate di neve; alcuni dei nostri obbiettivi non erano più fattibili e abbiamo dovuto, quindi, cercare altri progetti per i giorni seguenti.
Abbiamo addocchiato subito la via Lam Thuck Khamzang, aperta 2 anni prima da un team di ragazzi altoatesini sulla Torre Fanny, un ripidissimo pilastro che grazie alla sua verticalità non aveva permesso alla neve di sporcare troppo la parete.
Dopo i primi due tiri su roccia scabrosa la parete si raddrizzava e anche la qualità della roccia migliorava in modo significativo, le lunghezze che seguivano erano entusiasmanti e sempre ingaggiose su bellissime lame e con alcuni passaggi obbligati in run-out per passare da un sistema di fessure all’altro. A causa del freddo costante e dell’arrivo di un'altra perturbazione abbiamo, però, dovuto arrenderci a circa 100 metri dalla cima e ci siamo ritrovati ancora rintanati in tenda ad aspettare nuovamente il bel tempo.
Fortunatamente, questa volta, la nevicata è durata solamente pochi giorni e quindi siamo tornati subito in pista anche se eravamo già alle ultime giornate di spedizione. Aspettando che un po’ di neve si sciogliesse siamo saliti su una struttura minore vicino al campo base dove abbiamo aperto una via corta ma intensa che abbiamo chiamato Cuochi in fuga (VIII e A1) in “onore” ai nostri cuochi e alla loro rocambolesca fuga a valle.
Con solo due giorni a disposizione prima dell’arrivo dei portatori abbiamo deciso di tentare il Remalaye, con i suoi 6278 metri la cima più alta della valle, salendo da uno scudo inviolato sulla parete est. Dopo una prima giornata passata a sprofondare nella neve fino alla vita siamo arrivati alla base di questo bellissimo pilastro di granito rosso a circa 5900 metri dove su una piccola cornice di neve nella cresta abbiamo piazzato la nostra tendina.
Dopo una notte passata a mangiar freddo siamo stati ripagati con un’alba mozzafiato che poco alla volta ci ha scaldati e caricati per la salita da affrontare. Abbiamo aperto le danze, inizialmente su terreno misto e, poi, sulla neve che lasciava spazio alla roccia; era una parete molto più verticale di quello che ci eravamo immaginati guardandola con il binocolo dal campo base, ancora una volta abbiamo capito che le apparenze spesso ingannano. Purtroppo, la roccia non era della qualità che speravamo, enormi lame appoggiate e scaglie grandi come televisori pronte a caderci dritte in testa hanno obbligato Matteo ad una scalata lenta e delicata.
Siamo saliti fino a 6123 metri poi però abbiamo dovuto arrenderci all’evidenza: di questo passo non ce l’avremmo mai fatta a salire fino alla cima e a scendere il giorno stesso al campo base e non avevamo alcun modo di contattare l’agenzia per dirgli di ritardare di una giornata l’arrivo dei portatori. Dunque, abbiamo buttato le doppie e ci siamo incamminati verso il campo base con un po’ di rammarico per la cima sfiorata.
Eccomi qui a cercare di spiegare in poche parole, io che non sono quasi capace di parlare, un’emozione indescrivibile, di raccontare in poche righe un viaggio che è stata un’avventura, che ha cementato un’amicizia già molto bella, che ci ha insegnato ancora una volta la pazienza, che noi siamo solo degli ospiti e che sono le montagne a dettare le regole e i tempi, l’alpinismo non deve perdere la sua etica e il rispetto esse.
Cosa farò adesso? Non lo so… ho vissuto le ultime settimane al 100% e per ora questo mi basta… domani ci penserò. Non posso che ringraziare infinitamente Matteo e Chiara per questa opportunità, è stato un viaggio incredibile che fin da bambino ho sognato e come prima esperienza extra-europea non avrei potuto chiedere di meglio. Forse solamente un po’ di neve in meno… ma sarà per la prossima volta.
- Davide Nesa
Info: www.ragnilecco.com











































