Il viaggio sospeso. Di Manuel Lugli

Una riflessione, più filosofica che pratica e del tutto personale, di Manuel Lugli sui viaggi che non si fanno più in seguito alla pandemia di Covid-19.
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Strada infinita in Namibia
Manuel Lugli

Ci penso da mesi, da quando la pandemia ha iniziato a soffiare per il mondo e si è estesa, causando quel che tutti conosciamo in termini di disastri umani ed economici. Colpendo duramente e indistintamente paesi "avanzati" e paesi poveri, facendo emergere leadership e approcci all’emergenza adeguati – o quantomeno volonterosi – e altri disastrosi. Per incapacità o, più spesso, per arroganza – spesso vanno a braccetto - ma con lo stesso risultato: la catastrofe.

Quello su cui continuo a riflettere e che mi rode dentro come un tarlo, è che in questa emergenza e post-emergenza il colpo più grave, al netto ovviamente delle dolorose perdite umane, è stato alla nostra libertà. Ci siamo trovati improvvisamente costretti ad annullare la nostra personale libertà di muoverci come mai era accaduto prima e mai avremmo pensato che avrebbe potuto accadere in questa epoca di prolungata pace post-bellica.

La riflessione su quanto facilmente ci siamo adeguati a questa nuova condizione di ultra-controllo da parte delle autorità, a quanto sia stato relativamente semplice fermare tutto e fermarci è tanto scontata quanto inquietante. Certo qui intervengono fattori molto complessi, psicologici e sociali a cui sottende comunque un sentimento cardine: la paura.
Non è un caso che i regimi autoritari di tutto il mondo fondino il controllo dei cittadini sulla paura. In quel caso della repressione e del carcere o peggio, nel caso del Covid, della malattia e della possibile morte.

Non mi avventuro in riflessioni ancora più complesse – non è questa la sede e in ogni caso occorrono strumenti che nemmeno possiedo – sul nostro rapporto con la morte e sul senso perduto di accettazione della nostra fragilità e impermanenza: sono decenni che le nostre vite pubbliche e private vengono indirizzate da istituzioni, media, politici e pensatori sui binari di una “conservazione” a tutti i costi e di tutela da qualsiasi minimo, elementare rischio connesso col vivere. Fino a respingere, appunto, la naturalità dell’invecchiamento, della malattia e della morte in favore di finti miti di sicurezza, perfezione ed eterna giovinezza.

Nella perdita di libertà che ha comunque seguito – e continua a seguire – la fine del lockdown, si staglia su tutto l’impossibilità di viaggiare. Non parlo dei piccoli viaggi, di lavoro o vacanza, che sono in parte ripresi, per lo più a corto raggio e brevi, ma parlo di quei viaggi che consentono di cambiare completamente i propri orizzonti.

Personalmente ho visto svanire due viaggi che attendevo con grande impazienza. Uno in primavera, alle Svalbard, per continuare a soddisfare la grande passione di esplorazione sci-alpinistica e l’altro estivo in Namibia, nella più bella natura selvaggia africana che si possa immaginare, natura in cui si sublima la bellezza degli spazi infiniti e inabitati. Capisco che possa apparire una lamentatio ingiustificata per una piccola rinuncia, se paragonata agli enormi problemi vissuti, umani ed economici. E a quelli che con buona probabilità ci troveremo ad affrontare in un futuro molto prossimo, senza avere idea di quando potremo tornare a una “normalità” di vita. SE potremo tornare.

Ma anche questo rientra in quel triste, preoccupante e drastico cambio nelle nostre vite portato dalla pandemia. Non ho mai avuto l’ottimismo fatalista e infantile dell’”andrà tutto bene” così come mi sono tenuto ben lontano dalle insopportabili retoriche del “dopo saremo migliori”. Non è così, non lo è mai stato quando si ha a che fare con l’uomo. Il quale solitamente impara poco o niente dalla propria storia.

Non so quanto durerà ancora, nessuno sa quanti mesi o anni occorreranno per tornare a viaggiare in libertà. E in quali paesi. Tanti paesi, in cui già le libertà di parola, azione e pensiero sono limitate o addirittura assenti, vedono giri di vite; basti pensare a Turchia o Egitto. In altre aree in cui esistono storici focolai di tensione, le chiusure dei confini hanno dato il via – e la giustificazione – a nuovi inasprimenti, come nel confronto tra Armenia e Azerbaijan o nei nuovi attacchi della Turchia al Kurdistan iracheno. Altri paesi si sono rinchiusi per preservare una certa incolumità ottenuta per virtù o fortuna, ma con risultati economici devastanti che non escludono l’insorgere in tempi più o meno lunghi di scenari sociali davvero complicati - per non dire di peggio.

Il blocco dei viaggi provoca un altro grave rischio: allontana l’esperienza del contatto con l’alterità, la diversità. Anzi, l’”altro” diventa fonte di ancor maggiore diffidenza se non paura: non più solo per motivi culturali, etnici o, purtroppo, razziali, ma addirittura come fonte di pericolo diretto per la propria salute. Ed ecco quindi il suo esito: l’accettazione, l’assuefazione al limite, al confine. Con il corollario che tutto ciò che succede “oltre”, qualsiasi cosa, non ci riguarda più, presi come siamo a pensare alla nostra sopravvivenza personale o al massimo famigliare.

In biologia, la varietà genetica è sempre apportatrice di miglioramenti alla specie, così come il contrario avviene nelle situazioni chiuse, in cui vi è bassa “circolazione” genetica: qui la specie si corrompe e decade. Allo stesso modo la storia umana ha visto la nascita delle più grandi civiltà dai grandi flussi migratori, dal mescolarsi di culture e spiritualità diverse, dall’incrocio fisico di etnie e gruppi sociali.

Ecco, un mondo impaurito, senza possibilità di viaggiare, fatto di donne e uomini diffidenti, rimpicciolisce, si rattrappisce e si corrompe, proprio come un grande organismo cellulare. Ma di vaccini per questa malattia, purtroppo, non ne esistono. Occorre che ognuno di noi non si rassegni, non si rinchiuda e faccia invece di sè stesso una cura, per sè e per il mondo.

di Manuel Lugli




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