Due anni e nove paia di scarpe per camminare alla Fine del Mondo. Di Nicolò Guarrera

L'affascinante racconto di Nicolò Guarrera che, partito a piedi dall'Italia nel 2020, ha raggiunto Ushuaia in Patagonia dopo due anni di cammino e nove paia di scarpa. Un viaggio intenso che segna i primi 12.000 chilometri del suo giro del mondo a piedi.
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Nicolò Guarrera al Campos de Hielo Sur. Nel 2020 l'allora 26enne è partito da casa vicino a Vicenza (Veneto) per realizzare il suo sogno: fare il giro del mondo a piedi.
Nicolò Guarrera

In America Latina si trovano due luoghi iconici che hanno marcato il passaggio di generazioni di viaggiatori. A Quito, capitale dell’Ecuador, una fila ordinata di lettere alte un metro annuncia che la Metà del Mondo risiede qui. Dodicimila chilometri più a sud, nella Terra del Fuoco argentina, l’estremo meridionale della Panamericana abbraccia i nomadi impolverati arrivati alla Fine del Mondo. Quanto pensate ci voglia per coprire questa distanza in bici? E a piedi? Almeno per quest’ultima, una risposta ve la posso dare: mi ci sono voluti due anni (e nove paia di scarpe) per camminare dalla Metà alla Fine del Mondo.

Mi chiamo Nico e sto facendo il giro del mondo a piedi. Sono partito dall’Italia ad agosto 2020 e dopo aver attraversato l’Europa camminando e l’Atlantico in barca a vela, sono approdato in Ecuador e ho cominciato il lungo pellegrinaggio verso Ushuaia, la città più a sud della Terra.

In poche righe vorrei raccontarvi qualcosa di ciò che è successo nel mentre e per farlo ho cercato un fil rouge che fosse adatto a questo sito. Ci ho messo poco a trovarlo, in effetti il cammino verso sud è stato segnato da una presenza costante e fascinosa che ha il potere di lasciare a bocca aperta per la bellezza dei suoi scorci. Migliaia di chilometri di vette si avvicendano a pochi passi dal litorale pacifico, innalzandosi con forza dalle pianure costiere di Ecuador, Perù e Cile, e creando un piccolo universo denso di storie e leggende: la Cordigliera delle Ande.

A NORD DI QUITO
A pochi giorni dalla ripartenza da Quito, il ricordo dei mesi passati a veleggiare nei Caraibi era ancora forte. Avevo fatto barca-stop alle Canarie e un catamarano di dodici metri mi aveva caricato e trasportato dall’altra parte dell’oceano. L’esperienza era stata tosta e le isole caraibiche che avevo visitato si erano rivelate uno specchietto per le allodole. L’eterna domanda "Mare o montagna?" aveva sempre avuto una risposta chiara (la prima) ma ora la sicurezza cominciava a vacillare. Forse era arrivato il momento di cimentarmi in un’impresa difficilissima: cambiare idea.

Prima di dirigermi a sud, decisi di sgranchirmi le gambe con un loop da duecento chilometri a nord di Quito. I mesi in barca avevano rammollito le gambe e per riprendere il ritmo la scusa migliore era visitare le città settentrionali dell’Ecuador, modesti centri abitati in cui la cultura kichwa è ancora forte. Otavalo, Ibarra e Cayambe erano le perle che volevo conoscere.

Le tre città fungono da collana al vulcano Imbabura, un bestione di 4600 metri su cui la neve è rara a vedersi. La linea dell’Equatore passa per di qua, dunque le temperature sono piuttosto elevate e le cime incappucciate di bianco cominciano a vedersi sopra i 5500 metri. L’Imbabura è un Taita, ossia un monte/divinità maschile, probabilmente a causa della forma appuntita. La Cotacachi, invece, è una montagna con una prominenza dolce e sembra quasi che la roccia sia distesa su un fianco; lei è una donna. Dal mirador sopra la città di Ibarra si possono ammirare entrambi, vicini e lontani come una coppia di amanti che si sta per incontrare.

Il Cayambe era l’ultimo gigante del giro, un vulcano che sfiora i 6000 metri e il cui ghiacciaio è visibile dall’omonima città. La stagione delle piogge volgeva al termine, ma gli strascichi nuvolosi impedivano di vedere il luccichio della cuspide. Segnai il posto, il poco che riuscii a vedere mi aveva stregato e nonostante fossi arrivato da appena due settimane avevo già deciso che sarei tornato con il clima giusto. Le Ande mi avevano fatto innamorare a tempo di record.

PROFILI FAMILIARI
Tornato a Quito mi diressi verso la costa, il cammino sarebbe stato più semplice senza i saliscendi andini. Con il senno di poi, mi mangio le mani. Dalla costa ecuatoriana passai al Perù e un colpo di fortuna mi portò a casa di Gian, un ragazzo che conobbi tramite un’app che permette a chi ha un divano libero di ospitare le persone in viaggio. Gian conosceva benissimo il Perù e quando gli feci vedere il percorso che avevo scelto, scosse la testa. "Qua, dopo Trujillo, devi salire sul Canyon de Huaylas. C’è una sezione delle Ande che si chiama Cordigliera Bianca ed è tanto bella che l’Unesco la tutela come patrimonio dell’umanità". Cercammo assieme la quadra del percorso e la trovammo con l’ascesa a Caraz, una salita lieve e costante che aggirava i passi a 4000 metri.

Partii con Ezio carico di provviste. Camminavo 40km al giorno e a quel ritmo sarei passato dalla costa a Caraz in quattro tappe. Nel mezzo c’era solo un villaggio e per non rischiare di rimanere con lo stomaco vuoto avevo stivato del cibo extra dentro al passeggino. Il mio compagno di viaggio può portare fino a 50kg e non si accorse nemmeno del peso che ci misi - a differenza mia, che lo spingevo per otto ore al giorno e in salita. L’ascesa a Caraz fu magnifica, il giusto antipasto per le settimane successive.

Mi trattenni nel Canyon de Huaylas per tutto agosto, scoprendo alcuni trekking magnifici tra lagune e montagne della Cordigliera Bianca. Il primo fu alla Laguna Paron, uno specchio d’acqua dall’azzurro irreale. Parcheggiai Ezio in ostello, affittai uno zaino e salii fino a 4200 metri. Piantai la tenda di fronte alla laguna e il giorno successivo ci girai attorno fino ad arrivare di fronte all’Artesonraju, la montagna che appare nella sigla della Paramount Pictures! Non avevo idea esistesse davvero!

Il primo trek era stato stupendo, come mantenere l’asticella alta? Scelsi di cimentarmi in una quattro giorni sulla Quebrada Santa Cruz, arrivando per la prima volta a 4700 metri e campeggiando di fronte a un’altra montagna iconica, l’Alpamayo. La parete nord è un triangolo praticamente perfetto ed è stato nominato "Montagna più bella del mondo" dal sondaggio di una rivista di alpinismo. Vero o no, ero emozionato dalla consapevolezza di trovarmi in un angolo di mondo tanto speciale. L’acqua pura dei ruscelli dai quale bere a piene mani dimenticando le logiche di mercato che fanno pagare anche i beni essenziali alla vita; gli scorci ampi sulle vallate che si aprono sotto i passi scalati con fatica, la semplicità del cibo essenziale e il piacere di contare solo sul proprio corpo per andare avanti e guadagnarsi la giornata. Ero felice, sentendo forse qualcosa di simile alla libertà camminare al mio fianco.

Rientrai a Caraz passando dalla Quebrada Llanganuco, un mirador vertiginoso su due lagune cristalline, e proseguii il cammino alla volta di Huaraz. La città è il punto di arrivo da Lima, dunque è più grande, affollata e turistica, ma l’atmosfera genuina sopravvive in alcuni quartieri. La "Svizzera delle Ande", cosi viene chiamata, è la porta di accesso alla Cordigliera Huayhuash, un altro gioiello delle Ande peruviane. Vi è suonato qualche campanello? Lo Huayhuash è stato teatro di una storia di sopravvivenza incredibile nel ciclo dell’alpinismo moderno: la discesa dal Siula Grande di Joe Simpson e David Yates.

Guardai il docufilm "La morte sospesa" la sera prima di partire per il trekking e pochi giorni dopo stavo guardando il Siula Grande dal Passo San Antonio, a 5000 metri. Avevo il fiato corto per lo sforzo, ma anche per la forza dell’immagine che avevo di fronte. Lungo il circuito di otto giorni passai per alcuni miradores semplicemente assurdi, alcuni dei quali si lanciavano su tre lagune con lo stesso colpo d’occhio, inanellate una sotto l’altra. La bellezza del trek fu però condita da una nota amara. Binder, la guida del gruppo, ci raccontò che da quando suo padre aveva cominciato a portare gli escursionisti tra queste montagne i ghiacciai si erano ritirati di due terzi. Erano passati solamente sessant’anni da allora…

CARRETERA AUSTRAL
Tornai sulla costa con gli occhi pieni di bellezza ma il cuore pesante. Scesi verso sud per migliaia di chilometri, attraversando il deserto più arido del mondo e arrivando a Santiago del Cile a marzo 2022, all’alba dei primi 10.000km del Giro del mondo a piedi. Mi addentrai nelle piogge invernali del sud del paese e giunsi alla mitica Carretera Austral pregando in qualche schiarita. Ebbi fortuna.

Camminai per i successivi 1300 km con gli occhi sgranati per la meraviglia, ovunque mi girassi era un tripudio della natura. Costeggiai fragili ghiacciai in retrocessione, i Ventisqueros, che un tempo albergavano nelle valli ora percorse da fiumi. Uno in particolare mi colpì, il Ventisquero Colgante del Parco Nazionale Queulat. C’era stato un grosso cedimento pochi giorni prima e dopo quarantott’ore si vedeva ancora un filo di acqua biancastra sgorgare dalle pareti squadrate della massa glaciale. Rimasi impressionato dall’immagine del ghiacciaio che sanguinava.

Allungai il cammino perdendomi tra i sentieri dei Parchi Nazionali. Quando giunsi al pueblo di Cerro Castillo mi cimentai con i ramponi, arrampicandomi per le pendici dell’omonima montagna fin sotto alla laguna ai suoi piedi, completamente congelata. Il Parco era ancora chiuso perchè la stagione non era iniziata, tuttavia decisi di rischiare la multa per andare a vedere il profilo seghettato del Cerro. Fu la scelta migliore che potessi prendere. Il paesaggio a 1300 metri era completamente innevato e dal colle che dominava la laguna la visuale si estendeva per decine di chilometri. Il fiume disegnava il suo percorso con andamento sinuoso e verso l’orizzonte lo si indovinava gettarsi nel Lago Carrera, il secondo più grande del Sudamerica dopo il Titicaca.

La strada terminava a Villa O’Higgins, capitale dei ghiacciai della patagonia cilena. Oltre, il nulla umano. Era il regno dei Campos de Hielo Sur, un’immensa distesa di ghiaccio grande quanto il Lazio. Nessuna strada a violarla, condizioni climatiche infernali e mappe scarne e imprecise fanno di questo luogo uno degli ultimi angoli intatti del pianeta. Essere a un passo dal vederlo mi dava i brividi. Ma prima, sarei dovuto passare in Argentina.

LE LEGGENDE
Il fatto è che per arrivare ai Campos de Hielo dal lato cileno bisogna prendere una lancia e pagare un centinaio di euro (minimo). Non faceva per me, né per il mio budget di 10€ giornalieri. A complicare le cose, la frontiera tra O’Higgins e l’Argentina era rimasta chiusa dai tempi del covid e il mio visto stava scadendo. L’impegno di farla tutta a piedi era saldo, pertanto l’alternativa migliore era compiere una deviazione da 500 km per arrivare dall’altra parte. Stavolta stivai Ezio al massimo della sua capacità perché avrei dovuto resistere due settimane, tempo necessario a coprire la distanza senza punti di approvvigionamento. Valicai le Ande al Passo Mayer e feci conoscenza con il famigerato vento della Pampa, un incessante martellamento che mise a dura prova la struttura della tenda.

La meta valse lo sforzo. A inizio novembre 2022 lo skyline di granito di Chaltén sbucò dalla strada. Chaltén è Capitale nazionale del trekking argentino e ci sono cammini per tutte le gambe che si snodano tra le montagne del Parco Nazionale che le protegge - altro patrimonio dell’umanità protetto dall’Unesco. Il riposo durò poco, giusto il tempo di abboffarmi e rimettermi in condizioni di partire con lo zaino sulle spalle. Per i trekking la modalità è sempre la stessa: lascio Ezio in custodia da qualcuno e carico il necessaire sulla schiena.

I sentieri al Fitz Roy e al Cerro Torre sono semplici, forse la parte più suggestiva è studiarne le storie prima di andare a vedere le maestose guglie con i propri occhi. Ricordo che al campeggio dove stavo c’era una foto di Casimiro Ferrari con la sigaretta in bocca e lo sguardo torvo che fissava di fronte a sé, fuori dalla cornice e dal tempo, quasi sfidando chi lo guardava. Ogni volta che percorro le piste di cui conosco qualche aneddoto, i passi hanno più gusto, perché oltre alla bellezza immediata dei posti o quella intima dell’esperienza, c’è anche quella, più profonda, della conoscenza.

Ma non perdiamo di vista il nostro obiettivo! Il recupero era concluso, il rodaggio sul granito anche, tempo di aspettare la finestra climatica giusta ed ecco! Partii per la Vuelta Huemul, un circuito di quattro giorni attorno all’omonima vetta. Tappa uno di avvicinamento, cielo plumbeo e laguna grigia, il risveglio all’alba successiva fu una soddisfazione per l’assenza di vento e l’aria tersa. C’era il primo guado al fiume, poi l’ascesa con ampia visuale sul ghiacciaio dal quale nasce, il Tunel. La parete scoscesa richiamava l’attenzione sulla teoria di passi, si scende leggermente per calpestare il Tunel stesso, cric-croc facevano gli scarponi sul ghiaccio sporco, concentrazione al massimo per non scivolare dentro alle lunghe crepe oblique con il fondo celato chissà dove. La mattina volò fino al Passo del Vento, su a 1400m, oltre… Il paradiso: i Campos de Hielo Sur. Pare che l’oceano stesso si sia fermato increspando di blu la magica pianura, le onde concentriche striano la superficie altrimenti candida regalando un’istantanea fuori dal mondo, un’immagine dell’amore tra sogno e fantasia che si distendono ovunque si posi lo sguardo. Nunatak schierati compongono la cornice del quadro intangibile, o forse sono la spina dorsale di un titano addormentato? Quelle rughe color notte sono arterie curvilinee che emergono dalla pelle dell’albino immerso nel silenzio di un letargo. E c’è chi dice "Montagne…"

EPILOGO (per ora)
Dalle meraviglie del Chatèn passai al Perito Moreno, una delle propaggini dei Campos de Hielo che per il rapporto tra forma e dimensioni si può abbracciare tutto con uno sguardo. Tornai in Cile e ne percorsi l’ultimo tratto, fino a che non ebbe più terra da offrire: avevo camminato per 6000 chilometri dalla punta nord e il confine con il Perù giù sino alla Terra del Fuoco. Ci misi un anno intero per attraversare il Paese più lungo del mondo a piedi; sono anche la prima persona a farlo. Trecento km più in là, la strada finiva definitivamente. Ero arrivato a Ushuaia, la Fine del Mondo.

A questo punto, solitamente, si riporta una serie di numeri che provi a descrivere il viaggio intrapreso. Calzini consumati, ruote bucate, infortuni, cotte, confini attraversati, tuttavia penso che nemmeno i chilometri riescano a dare un’idea di quello che ho vissuto negli ultimi due anni. Probabilmente ci vorrebbe un libro fitto di parole, ma per il momento forse questo racconto è già fin troppo lungo.

Ricordate cosa dicevo all’inizio? "Mare o montagna…?" Ho sempre risposto che il mare è infinito e supera la montagna che, seppur indomabile, è più contenuta, quasi modesta a paragone con gli oceani. Mi sono ricreduto. L’esperienza ha superato il volo pindarico della mente, mi sono innamorato e ora divido il tempo tra le carezze dei ricordi dei panorami vissuti e il desiderio famelico di nuove avventure.

C’è una morale in questa storia? Mi piace pensare di sì: cambiate idea, vi si aprirà un universo da esplorare.

di Nicolò Guarrera

Link: IG Nicolò GuarreraFerrino

- Scopri tutto il cammino di Nicolò su questa mappa




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