La Quota Gaspard, la Tofana di Rozes e la Prima Guerra Mondiale in Dolomiti

Marcello Cominetti ripercorre l'incredibile storia della Quota Gaspard alla Tofana di Rozes in Dolomiti, salita per la prima volta dalla guida alpina del Cervino Joseph Gaspard ed dal conte fiorentino Ugo di Vallepiana durante la Prima Guerra Mondiale. L'epica salita di 16 giorni per battere le forze armate austro-ungariche aveva affascinato Cominetti a tal punto che ha effettuata una delle rare ripetizioni del Camino di Vallepiana, anche per dare risalto a questa via che non è facile quanto si possa inizialmente credere.
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Quota Gaspard in Dolomiti: Tofana di Rozes o I, versante sud-ovest. Il camino Vallepiana-Gaspard è quello al centro della foto
Marcello Cominetti
Capitano, quando tornerem a baita?
La Quota Gaspard è un’enorme montagna di roccia, alta 600m dalla base alla cima, verticale e strapiombante su ogni lato. E' una montagna che in realtà non esiste, se non quando l’incontrollato gioco delle nubi la fa risaltare rispetto a tutto ciò che la circonda. Accade di rado. Nonostante le sue dimensioni è per lo più invisibile, perché la torre grigia e giallastra dalla forma sinuosa è addossata alla parete sud della Tofana di Rozes, presso Cortina d’Ampezzo nelle Dolomiti. Una delle pareti di roccia più grandi di tutte le Alpi.

Tra la Tofana e la nostra montagna sfila verso l’alto una larga fessura ricolma di massi in bilico, un camino lo chiamano gli alpinisti, una porzione di parete dalle facce parallele, di quelle che si scalano con le gambe e le braccia in spaccata. Una tecnica antica, una volta l’unica per scalare, ricordata in qualche vecchia e suggestiva cartolina in bianco e nero.

Tra giugno e luglio del 1916 due Alpini si infilarono in quella fessura umida e friabile e la percorsero fino a raggiungerne il termine. Ci misero 16 giorni. Intorno a loro infuriava la Prima Guerra Mondiale. Erano certamente alpinisti di razza e scalando quella parete stavano facendo la guerra a modo loro. E’ difficile da credere ma è la verità.

Per un assurdo quanto naturale azzardo geologico la Quota Gaspard (2900m) domina le vette aguzze del Castelletto (2656m) da Est e su quelle torri erano annidati i Kaiserjäger austro-ungarici, i nemici, quelli che appostati saldamente sulle cime respingevano ogni attacco italiano nel tentativo di sfondare verso il Tirolo per andarsi a prendere non si sa che cosa. Il Castelletto si chiama banalmente così perché ricorda il tipico edificio nelle sue forme torreggianti, gli austro-ungarici lo chiamavano Roccia del Terrore, Schreckenstein che richiama il nome di una rocca simile presso Aussig nell’allora Cecoslovacchia. Ma Gaspard, invece, cosa significa?

Quando gli alti comandi italici capirono che ogni assalto andava fatto dall’alto, pensarono che per espugnare il Castelletto, posizione nemica che dominava magistralmente uno degli accessi più ambiti alla conquista di nuovi territori, bisognasse occupare una piccola terrazza più in alto per passare da dominati a dominatori. Nel 1901 l'impervia parete sud della Tofana di Rozes era stata salita da una cordata ampezzana composta da Guide Alpine appartenenti all’impero austro-ungarico che accompagnavano due nobildonne nipoti dell’imperatrice Sissi, le sorelle e baronesse Eotwos. Quell'estate del 1916 i Carabinieri di Cortina convocarono una delle guide, Antonio Dimai (Tone Deo), e gli chiesero di guidare una pattuglia italiana lungo la via che aveva aperto. Dimai rifiutò e venne mandato al confino in Sicilia. Ora gli italiani dovevano fare da soli.

Il giovane tenente Ugo Ottolenghi, Conte di Vallepiana e appassionato alpinista prese l’incarico di scalare parte della parete sud della Tofana per raggiungere una posizione dominante sul Castelletto ma gli serviva un capocordata. Si ricordò allora della Guida valdostana di Valtournanche Joseph Gaspard, che la guerra, nella sua assurdità, aveva assegnato a un incarico d’ufficio, ritenendo il trentaseienne valdostano troppo vecchio per combattere (!). Gaspard l’alpinista del Cervino venne così richiamato ai piedi delle Tofane, per costituire con Vallepiana la cordata che avrebbe salito quello che oggi conserva la memoria dei due Alpini: il camino di Vallepiana alla Quota Gaspard.

Dopo la sua prima ascensione, quel minuscolo appicco vertiginoso venne attrezzato con centinaia di metri di scale a pioli, vennero costruiti baraccamenti su ogni pulpito e infissi lunghi e grossi chiodi per ancorare le scale su cui i Volontari Feltrini si inerpicavano per scambiarsi al combattimento e ai rifornimenti di quello che era diventato un fronte verticale lungo il quale i soldati si muovevano come le formiche, avanti e indietro, su e giù, sopravvivendo e morendo sfracellati da cadute sopra lo sguardo e il tiro nemico.

Poco distante nelle viscere del Castelletto si scavava a suon di mine e martelli pneumatici. Il nemico era circondato ed aveva paura perché lo sapeva. La montagna pullulava di persone e attività faticose, puzzava di esplosivo e sudore. Dentro la montagna l’aria era irrespirabile per i gas delle mine e per la polvere calcarea che intasava i polmoni, si sudava perché il lavoro era durissimo: si dovevano frantumare rocce. Fuori, sulle scale del camino, si pativano il freddo e le scariche di sassi, il vuoto incombeva costantemente e di aria ce n’era fin troppa. Finché tutto ebbe un momentaneo epilogo all’alba dell’11 luglio del 1916. Il re d’Italia Vittorio Emanuele III se ne stava con il suo Stato Maggiore di alti ufficiali in una baracca costruita appositamente sulla cima dell’Averau. Lo spettacolo stava per incominciare.

Poi tutto cessò e la notte parve non avere più alba (cit. Von Raschin)

Ciascun Alpino aveva il suo incarico. Dalla sera prima nessuno andava più avanti e indietro dalle postazioni dello Scudo, del Camino dei Cappelli, della Gran Guardia e del Camino di Vallepiana, oggi anche Camino degli Alpini. Fu una notte di silenzio, di attesa e di paura annodata in gola. I soldati veneti, sardi, toscani, friulani e dell’Italia tutta, capitati lassù a causa dei folli disegni medioevali del Generale Cadorna, trattenevano il fiato. Stava per accadere qualcosa di imponente e si capiva dal silenzio che regnava in quella notte estiva, tra stelle e ghiaioni, tra cuori pulsanti e fredde rocce verticali, tra pelle sporca e divise di lana grigioverde.

Dalle posizioni austro-ungariche si viveva la stessa emozionante sensazione di catastrofe imminente. I perforatori avevano smesso di far vibrare la montagna da troppo tempo per aspettarsi qualcosa di buono. Il silenzio sfondava timpani e stomaco. E si aspettava. Gli uomini tremavano scossi da brividi tutti allo stesso modo, da una parte e dall’altra del confine, in quei momenti eterni.

Il Capitano austriaco Von Raschin seduto con i suoi su una bomba innescata, riporterà: "alle 3 del mattino improvvisamente il fuoco nemico divenne tambureggiante come non mai. Fucili, mitraglie e artiglieria scatenavano una potenza di fuoco preparatoria, annunciatrice del crack che di lì a poco sconvolse la vita, rovesciò le montagne e incendiò sguardi e corpi. Il Castelletto era saltato in aria!"

I detonatori azionati dal Tenente Malvezzi, agli ordini del Colonnello Tarditi, avevano fatto esplodere 30 tonnellate di ecrasite stipate nella galleria che terminava al centro della sella, oggi molto più ampia, tra il Castelletto e la Tofana. La montagna veniva modificata per sempre pur nelle sue gigantesche dimensioni e forme, l’uomo, prima e dopo, era impazzito. Ognuno aveva perso e aveva il magone in gola e il terrore negli occhi, ma bisognava fare la guerra. E le montagne stavano immobili come sempre. Al regno minerale la sola azione consentita è quella dell’erosione e quella della saggezza dello starsene lassù, esiliate dalle meschinità che l’uomo architetta costantemente a proprio danno.

Di questa vicenda sentii parlare quando avevo vent’anni, poco dopo divenni guida alpina e mi trasferii a vivere nelle Dolomiti, vicino alla Tofana di Rozes che fin da subito diventò e resta la mia cima preferita. Assomiglia a una mamma e io mi sento un suo figlio. Mi ero promesso che sarei andato a ficcare il naso su per quel camino repulsivo, marcio e sempre bagnato, ma gli anni volarono e per caso, nel 2014, proposi a mio figlio maggiore Tommaso e a un suo amico di S. Cassiano in Badia di andarci insieme. Mio figlio non è un alpinista ma all’occorrenza lo diventa e Jordan, il suo amico, vuole diventare Guida Alpina: la cordata era fatta.

Giunti a metà della via iniziò a diluviare e la ritirata si impose automaticamente ma pochi giorni dopo io e Tommaso eravamo di nuovo lì. Avevamo però capito con che cosa avremmo avuto a che fare. Nel frattempo avevo suggerito a mio figlio di leggersi "La Guerra di Joseph", il bel libro di Enrico Camanni che narra tutta la vicenda. Dopo averlo divorato in poche ore, Tommaso non vedeva l’ora di andare a vedere di persona cosa c’era lassù.

Nella parte bassa ci sono resti di baracche distrutte dall’umidità e dal tempo, chiodi forgiati a mano che sono dei capolavori di fabbro e reticolati, schegge di colpi d’obice, resti di scarpe, gavette, e più in alto i consistenti ancoraggi per le scale a pioli. Ferri conficcati nella roccia in fori scavati, come dei grossi rudimentali spit, spezzoni di corde di canapa e gradini di larice. Quello che nella relazione del Berti viene definito come passaggio chiave di IV grado è uno strapiombo umido e muschioso che sarà almeno V superiore, se non 6a.

Premetto che per anni avevo cercato informazioni su questa via, dei ripetitori, ma niente, pareva che nessuno ci fosse stato. Invece qualche chiodo e cordino anni '80 li abbiamo trovati, segno che la passione per questo tipo di cose ce l’abbiamo in più di due. Dopo un ennesimo tiro non facile, molto chiodato e dalla roccia gialla, sabbiosa e ricoperta da una patina di "lepego" (=in genovese si definiscono "lepegosi" gli scogli ricoperti di alghe scivolosissime) si giunge sotto uno strapiombo dall’aria insolubile. Da una grossa clessidra penzola scoraggiante un anello di corda di evidente calata. Siamo immersi in una nebbia fitta, si vede a pochi metri, mi infilo sul fondo del camino scomparendo alla vista di mio figlio che tremando dal freddo mi assicura più per dovere che per piacere. La corda scorre a fatica tra gli enormi massi che ingombrano quella porzione scomoda del pianeta e, dopo un po’ di andirivieni precari, decido, tornato in sosta da Tommaso, che su di lì non c’è passato nessuno e che quindi Garpard e Vallepiana avevano mentito!

Usciamo in vetta alla Quota Gaspard aprendo, tra gli altri, un tiro di corda sulla destra del camino di un buon sesto grado (6a/b in scala attuale, per meglio intenderci) attrezzandolo con dadi e friends. In cima siamo come in un bicchiere di "acqua e anice" per dirla alla Paolo Conte. Non si vede una mazza e la nebbia è già diventata pioggerellina feltrosa, di quella che ti bagna anche le budella. Ci scattiamo una foto vicini al muretto di pietre a secco che doveva essere la posizione delle mitragliatrici corrispondente a una foto che avevo già visto su un libro di storia. Riconosco anche il gradino di roccia riparato dove bivaccavano gli Alpini. Roba da pazzi, ma è stato così.

Questo punto si può raggiungere più facilmente anche in discesa dalla cima della Tofana di Rozes. Le date sulla conquista italiana della cima corrispondono, e questa spiegazione torna. Indoviniamo non senza errori di percorso e brevi ritirate, la via di discesa e ci imbattiamo in un femore umano sulle ghiaie che mi porto a casa insieme a qualche gradino delle scale di Vallepiana, qualche chiodo artistico che mi era rimasto in mano e altri resti bellici poco rilevanti ma che per me sono testimoni di cose passate che mi piace ricordare. Sono felice di condividere questi momenti con mio figlio e mi sembra che anche lui la pensi così.

Passo qualche notte insonne pensando che tutta questa storia è una bufala sicuramente inventata dagli alti comandi di allora a scopi propagandistici. Chiamo e poi incontro Camanni a Torino, che accetta quasi commosso in regalo i chiodi di Gaspard. In fondo la storia più bella e avvincente sul camino di Vallepiana l’ha raccontata lui, ma ora il dubbio della menzogna offusca tutto. Forse più per me che per lui.

Passa un altro anno e siamo al settembre del 2015. Mio figlio vuole essere informato, ma ora abita in Patagonia e vive le notizie di casa come vicende lontane e forse giustamente assurde in casi come questo. Convinco due fidati compagni di scalate a salire nuovamente quella via. Patrizia e Marco non hanno idea di cosa li aspetti ma si fidano di me, peggio per loro! Mi chiedono che grado è quella via che gli propongo e io non so rispondere. Mi diranno dopo che non avevano mai fatto niente di più ostico e complicato, eppure qualche via anche impegnativa sulle Alpi e per il mondo l’hanno salita. Gaspard con gli scarponi chiodati doveva essere un fuoriclasse, mi dico, e credo di non sbagliarmi. Per questo mi secca da morire che sia stato un raccontaballe.

Torniamo lassù per quei tiri infidi. Il tiro chiave lo aggiro sulla destra, fuori dal camino strapiombante anche se chiodato, per una placca che devo attrezzarmi che sarà un bel 6° continuo e delicato. Salire il camino mi è bastato farlo già due volte! Arriviamo dove improvvisamente finiscono tutti i chiodi, i fittoni per le scale e le corde a brandelli. Mi infilo nuovamente nel fondo del camino tra i massi instabili. Oggi non è sereno ma la nebbia resta distante dalla parete, c’è più visibilità. Mi muovo leggero perché si capisce che questi macigni sono incastrati uno sull’altro per una magica combinazione che non vorrei intaccare con il mio passaggio facendo la fine del topo. Il camino si apre a forma di campana sarà largo almeno 30 metri e strapiomba su tutti i lati in maniera esagerata. Dove mai saranno passati quei due?

Scatto qualche foto e giro la testa come un periscopio scrutando ogni piega della roccia chiaramente rotta dalle frane recenti. A circa sei metri sopra di me sulla sinistra pende da uno spuntone proteso sul nulla un anello di corda di canapa con i capi sfrangiati. Una volta la parete passava di là, capisco, e si vede che il crollo ha provocato il vuoto al di sotto dello spuntone. La storia è tutta vera e questo consola forse solo me in quel momento. I miei compagni intirizziti alla sosta sono contenti di scendere. Quando scrivo, la sera stessa, la notizia a Camanni scopro che è sollevato anche lui dal tono della sua immediata risposta. Enrico è uno scrittore notevole e non ci vuole molto a interpretare quello che vuole farti capire quando scrive anche una breve email.

Mentre aspetto i miei compagni alle soste osservo quello che c’è sulla parete e immagino il brulicare di uomini su e giù da queste rocce inospitali, i fischi delle pallottole attraversare l’aria, le bestemmie, le scale pericolanti e le esplosioni rimbombanti dai dintorni, i pennacchi di fumo, le notizie gracchianti dai telefoni campali, la puzza della lana bagnata di pioggia e sudore, i pidocchi che corrodevano il cuoio capelluto, le unghie lunghe e sporche, i pensieri rivolti a un futuro incerto e a un passato recente lasciato tra le mura di casa: "a baita" come si diceva allora. E scivolando lungo le nostre corde di nylon variopinte nella solita struggente enrosadira dalle luci basse e sature di colore, ce ne ritorniamo al nostro presente. Dopo un viaggio nell’aldilà a due passi da casa, dalla baita, appunto.

di Marcello Cominetti

INCONTRO 27 NOVEMBRE 2015
La Grande Guerra sulle Tofane raccontata da Enrico Camanni e Marcello Cominetti
ore 19.00, Enoteca Eroica Ativini
Via Interiano 11r, Genova
ingresso libero, posti limitati





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