I figli della Fessura Kosterlitz: il mito dell'arrampicata in fessura della Valle dell’Orco

Un mito, un desiderio destinato a rimanere chimera per buona parte degli scalatori: ecco cos'era negli anni '70 e '80 la fessura Kosterlitz in Valle dell'Orco, salita per la prima volta all'inizio degli anni 70 dallo scozzese Mike Kosterlitz. Il premio Nobel per la fisica 2016 sarà ad Arco il 25 agosto 2017 per ricevere il premio Climbing Ambassador by Dryarn® di Aquafil durante gli Arco Rock Legends 2017. Di Maurizio Oviglia.
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Marco Casalegno sulla Fessura Kosterlitz, 1985.
Maurizio Oviglia

Non sapevamo chi fosse Mike Kosterlitz. Che fosse un fisico ricercatore non lo sospettavamo di certo, ma non eravamo a conoscenza nemmeno della sua attività come alpinista, le sue vie aperte sul Badile o sulle altre pareti famose delle Alpi. Però eravamo a conoscenza della fessura, la sua fessura, la Kosterlitz appunto, come tutti la chiamavamo. Una spaccatura verticale e perfetta, alta più di 7 metri, che si trovava poco sotto Ceresole Reale nella Valle dell’Orco.

Probabilmente la Kosterlitz in America sarebbe passata del tutto inosservata, ma da noi era divenuta famosa grazie ai suoi primi metri leggermente strapiombanti, di una misura che si addiceva solo alle mani molto piccole. Per tutti gli altri risultava troppo stretta per incastrarci bene la mano, troppo larga per le dita, sfuggente e svasata al punto da non poter essere affrontata in dulfer, se non con difficoltà molto superiori al VII dichiarato dal suo primo salitore nel 1972. Probabilmente il primo VII grado d’Italia.

Insomma la Kosterlitz andava superata frontale, con tecnica ad incastro, arte che ben pochi ai tempi padroneggiavano. Ed andava arrampicata sino in cima, senza corda e senza materassi, come il bouldering chiedeva a quei tempi. Oggi, probabilmente la chiameremmo "high ball", cioè masso molto alto, dove è richiesta la paratura di diversi assistenti e l’impilatura di un cospicuo numero di materassi…

Però negli anni in cui ho iniziato a scalare, nei primissimi anni ottanta, non esisteva nessun tipo di sconto. O si saliva sino in cima o si cadeva. Al limite potevi rinunciare, saltando là dove era ancora possibile farlo, senza fratturarsi. Se osare o saltare, era una questione che dovevi saper risolvere da te, ed anche piuttosto in fretta. Se c’era per caso qualcuno con te e stava a guardare da sotto, quasi mai ti incitava o parava. Nel silenzio più completo, spettava a te decidere se inoltrarti o no nella zona dove una caduta sarebbe stata non scevra da conseguenze. Per cui gli arrampicatori a Torino e dintorni si dividevano in coloro che l’avevano fatta e quelli, molto più numerosi, che ci avevano provato senza successo. Era insomma diventata a tutti gli effetti uno status symbol, paragonabile a quello che sarebbe divenuto grado 8a qualche anno dopo. Un mito, un desiderio destinato a rimanere chimera per buona parte degli scalatori.

Come molti arrampicatori di quel periodo, salire la Kosterlitz divenne la mia ossessione. Fortunatamente in quegli anni aprì i battenti la prima palestra indoor d’Italia, il Palazzo a Vela di Torino. Era stata realizzata in cemento e, sulla destra di un prominente tetto, erano state create delle fessure da salire ad incastro di mano della misura della famosa fessura. Un semplice caso? Oppure un’arguta operazione di marketing? Dopo un intero inverno passato a provare sul cemento, alla fine anche io riuscii a salirla. Il prezzo furono però le indelebili cicatrici sulle mie mani, ancora oggi visibili. Già, perché anche dalla posizione delle cicatrici, tra il pollice e l’indice, era possibile capire se realmente stessi facendo la tecnica corretta oppure no! Non usavamo nastrarci, avevamo visto solo gli americani farlo, ed i guanti da fessura non erano ancora stati inventati. Significava che le ferite e le croste permanevano sulle mani per settimane e a volte mesi prima di guarire…

Potrei raccontare infiniti aneddoti sulla Kosterlitz. Il mio compagno di cordata di quegli anni, ad esempio, era in grado di salire la fessura anche iniziandola al contrario, cioè appoggiando le spalle al masso. Si appendeva su una sola mano incastrata e compiva una rotazione completa, con i piedi sospesi. Ma un giorno d’inverno sottovalutò l’uscita. In cima al masso c’era la neve e non fu in grado di ribaltarsi. Cadendo, proprio davanti a noi, si ruppe entrambe le caviglie. Come se nulla fosse, poco dopo andammo al bar di Noasca e lui traversò la strada gattonando, come se si trattasse solo di una piccola distorsione. Ma per mantenere il titolo e fare parte del club di “quelli che hanno salito la Kosterlitz” naturalmente non bastava averla fatta una volta. Bisognava essere in grado di ripeterla negli anni! Dunque c’è sempre stato, nel corso di questi 45 anni, qualcuno che ci provava, anche tra i veterani. Alcune leggende sulla fessura narravano che Gabriele Beuchod l’avesse salita con le clarks, le scarpe scamosciate da città. In questo modo era forse più facile, perché si riuscivano ad incastrare meglio i piedi. Così un anno, seccato dal fatto di non riuscire più a decollare, mi tolsi le scarpe e la salii solo con le calze! Effettivamente era forse più facile, ma che male ai piedi! Forse sono stato il primo arrampicatore ad avere le stigmati sia sulle mani che sui piedi?!

Come è noto il masso della Kosterlitz rischiò di essere distrutto durante i lavori di costruzione della galleria. Fu salvato in extremis, grazie ad una petizione promossa dagli stessi arrampicatori. Oggi il masso è per metà inglobato nel cemento della galleria, ma la fessura è stata salvata. Un pezzo di storia dell’arrampicata italiana, scritta da uno sconosciuto fisico scozzese, è ancora a disposizione di quanti desiderino provarci.

di Maurizio Oviglia




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