Quando si dice esperienza... o quel che la montagna può insegnare

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa breve storia di una salita su una parete delle Dolomiti. Ovvero come le esperienze, l'alpinismo e l'arrampicata dovrebbero pur far pensare se non proprio insegnarci qualcosa.
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Catinaccio - Dolomiti
Planetmountain
Sono in vacanza in una bassa vallata trentina, con poche aspirazioni arrampicatorie perché mi ha spinto qui una necessità familiare. Tuttavia, facendo qualche breve uscita in falesia, ho conosciuto dei ragazzi del posto che mi hanno proposto un'uscita dolomitica. Gente simpatica e che arrampica bene. Personalmente non chiedevo di meglio della possibilità di una bella scalata in montagna, quindi ho accettato con entusiasmo. Però, sia perché non ho a disposizione un accesso a internet, sia perché i conoscitori del luogo sono gli altri, (che per rispetto della privacy chiamerò Papà Orso, Mamma Orsa e Orsacchiotto) lascio completamente a loro l'organizzazione dell'ascensione.

Sabato 9 agosto si svolge la telefonata preliminare, più o meno in questi termini:
Papà Orso – Abbiamo pensato a una parete nel gruppo del Catinaccio -
Io – Che tipo di via è? -
Papà Orso – Tranquilla, ben chiodata, difficoltà fino al VI A/0 -
Io – E il meteo è buono?
Papà Orso – Si sale bene, non è rischiosa -
Io – Ma cosa prevede il meteo? -
Papà Orso – Non è un granché, vediamo domani -
Io – Come “vediamo”, ma cosa è previsto? -
Seguono altre 5 o 6 battute in cui io insisto ad avere chiarimenti sul meteo e lui parla della via, finalmente Papà Orso mi promette di ricontrollarlo in serata e mi rassicura dicendo che in auto ci sarà una corda intera, cosicché, se fosse brutto, si andrebbe in falesia.

Al mattino dopo siamo in quattro, tutte persone a posto, faremo due cordate. Qualcosa non mi torna nella logistica, perché si salirà con la prima seggiovia al rifugio, dove ci si cambierà, si farà colazione e si lasceranno gli zaini “tanto, l'avvicinamento è mezz'ora”. (Di solito cerco di abbreviare al massimo le operazioni preliminari alla scalata, ma hanno organizzato loro, son loro che conoscono il posto....).

Così, con una flemma olimpica si beve il caffè, ci prepariamo, poi traversiamo le cenge sotto la nord del Catinaccio, destreggiandoci tra le chiazze di neve (annata particolare) che ci allungano un po' il percorso e la mezz'ora diventa più di un'ora.

Trovato l'attacco si parte e al primo tiro sento qualche goccia. Potrebbe provenire dai battaglioni di nuvole che ci circondano, ma “no è la parete che sgocciola”. In questo la famiglia degli Orsi ha perfettamente ragione, dato che al secondo tiro un simpatico ruscelletto affianca il percorso di salita, che è decisamente umido e, come si sa, sul bagnato si sale più lentamente.

Poi arriva davvero qualche goccia dal cielo, ma smette in fretta. Siamo al quarto tiro e sussurro a un Orso dell'altra cordata che io scenderei, fin qui il percorso è rettilineo, ci sono pure le calate attrezzate, mi sembra un azzardo continuare... Ma dico tutto sottovoce perché io sono l'ospite e non vorrei proprio fare il guastafeste, quello che ha mandato a monte la gita.

Così si continua e, finita la parte dura, dopo un traverso di 40 metri nuova pioggerella. Si va al riparo in un grottino, poi smette un attimo e Papà Orso sale alla sosta successiva, con incastro di corde e Mamma Orsa dell'altra cordata che lo raggiunge per sbrogliarle.

A questo punto avviene l'inevitabile: lampi, tuoni, scrosci e grandine. Io e Orsacchiotto ci rintaniamo nel grottino, mentre i due davanti sono appesi a una sosta più o meno esposti alla furia degli elementi. Un colatoio sopra le nostre teste si trasforma in una violenta cascata, prima di acqua e a un certo punto di sassi: tremo per i due sopra, temendo il peggio.

Quando il temporale si smorza sentiamo delle grida (buon segno, almeno sono vivi) e riusciamo a capire che dobbiamo chiamare il soccorso alpino. I due riescono finalmente a raggiungerci (sotto la tempesta di sassi una doppia sarebbe stata letale) bagnati come pulcini e tremanti di freddo: offriamo loro alcuni dei nostri indumenti, arriva l'elicottero e, insomma, finisce tutto bene.

A questo punto ci vuole la morale della favola.

Intanto applausi a scena aperta per il soccorso che è intervenuto nonostante condizioni non proprio favorevoli (visibilità inferiore allo standard) e all'abilità funambolica del pilota che ha tenuto l'elicottero fermo a pochi centimetri dalla cengia sporgente da cui noi siamo saltati a bordo.

Ma, fatti i dovuti ringraziamenti preliminari, resta il fatto che è la prima volta in vent'anni che devo chiamare il 118. Io, personalmente, mi vergognavo di essermi messo nei guai, costringendo altre persone a correre dei rischi per togliermi dalla brutta situazione in cui mi ero cacciato con una certa leggerezza. Ma, con mio stupore, ho notato che per altri non era così.

Si congratulavano per aver fatto la scelta più razionale (sai che scelta, per altro obbligata, per me la scelta razionale sarebbe stata quella che mi avrebbe permesso di evitare l'intervento del soccorso!) parlavano di scalata libera, di bellezza della via e di gradi che sul bagnato sono più duri.

Io ho ricordato loro la massima di Rebuffat: che se si è fortunati nei primi due anni di attività, c'è la possibilità di diventare buoni alpinisti; e oggi noi eravamo stati fortunati. Finalmente, uno dei tre ha ammesso che in futuro avrebbe tenuto più in considerazione il meteo, ma poi ha ricominciato a dire che aveva “un conto aperto” con la via, a chiedersi quando sarebbe tornato a finirla etc etc.

Allora ho pensato alcune cose: primo, che io ero quello più esperto, con tanto di due bivacchi imprevisti alle spalle e il ricordo di come mi sono ghiacciato le ossa, e avrei dovuto far valere le mie ragioni, senza paura di apparire un rompiscatole, anche se loro erano più forti in arrampicata.

In secondo luogo ho capito che per imparare, per farsi quella che si chiama con un certo rispetto “esperienza” non basta che siano successe delle cose. Perché se i fatti accadono e non ci si riflette sopra, se ne apprende poco. Se non si è capaci di elaborare degli scenari, di collegare le varie cause degli eventi, le situazioni vissute restano dei flash isolati, che non indurranno a prevenirle in futuro.

Spero proprio che quei simpatici ragazzi, e con loro altri che mi leggeranno, ci ripensino un po', che possano almeno capire i rischi che hanno corso e che vale la pena di calcolarli in anticipo, a partire dalla prossima volta.

Altrimenti, se si dimentica la malefatta, visto che è finita bene, non si imparerà mai niente e resterà valida solo la massima delle mie parti che recita: batti un asino e diventerà un mulo!

by Fokozzone @forum Planetmountain



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