Emilio Previtali, The STORY.teller

Un racconto inedito di Emilio Previtali per presentare il suo ultimo progetto: il The North Face STORY.teller yearbook, un libro che sarà distribuito da The North Face e che racconta le storie, i pensieri e le avventure dei sui compagni del Team TNF.
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Chi segue queste pagine forse avrà già capito quanto amiamo le storie e i racconti (per intenderci i recit d'ascension, ma non solo). Non che non ci interessi la parte tecnica dell'alpinismo e dell'arrampicata, o meglio quei famosi numeri che a volte solo gli "iniziati" sanno leggere; anche loro sono una parte del tutto. Ma, ve lo confessiamo, il più delle volte questo metro, il solo metro della difficoltà o dell'exploit, ci sta stretto. Ci sembra non sia abbastanza per capire un'esperienza come quella dell'andar per montagne, o se volete di vivere l'avventura. E' per questo che, ancora una volta, vi proponiamo una "storia": quella che ci ha inviato Emilio Previtali, climber e alpinista, snowboarder e scrittore. E' una storia nella storia. Un racconto inedito di ciò che sta dietro al The North Face STORY.teller yearbook. Il libro di testi e fotografie in cui attraverso le storie e le interviste Previtali ha raccontato i suoi compagni del team TNF. Si va dal Gasherbrum II in inverno di Simone Moro, Denis Urubko e Cory Richards, alle grandi pareti di Iker ed Eneko Pou. Dal Cervino di Hervé Barmasse, all'arrampicata sul filo del possibile di James Pearson. Dal "senso della e per la neve" di Xavier de le Rue, Giulia Monego, Marja Persson, Karina Hollekim e Davide Cusini fino al sogno della solitaria del Pesce di Hansjörg Auer.
"Non ho chiesto ai miei amici di parlarmi di gradi, o record o prestazioni sportive." scrive Previtali nella presentazione di The STORY.teller "ho chiesto loro di raccontarmi le loro sensazioni, le loro idee, ciò che cercano di fare e come cercano di farlo. Ho chiesto loro soprattutto di ricordare, perché la memoria, dare un senso alla propria storia, è il seme del futuro". E proprio della memoria e di come annunci il futuro parla proprio questo "racconto inedito" che vi proponiamo...


L’INTERVISTA A SIMONE MORO di Emilio Previtali

Dovevo fare un intervista a Simone, per STORY.teller, il libro che ho curato per The North Face. Io e Simone viviamo a Bergamo, nella stessa città. Le cose sono andate più o meno così: ho chiesto a Simone quando aveva tempo per fare questa cosa e lui una mattina presto mi ha mandato un sms con scritto: “Ci sono, oggi sono a casa. Quando vuoi.” Erano le 7.45 del mattino, io stavo uscendo a correre. Ho risposto: “Vado a correre e poi arrivo.” E lui: “Ok, a dopo”. L’appuntamento era fissato. Per le 10.30, a casa sua. Tutto chiarissimo.

Io e Simone ci siamo conosciuti alle Scuole Medie. Me lo ricordo il primo giorno, lui era seduto nella seconda fila, alla mia sinistra. Guardava fisso davanti a sé, alla professoressa e alla lavagna e non parlava con nessuno. Proprio con nessuno. Non sembrava simpatico. Suo fratello più grande era già in terza, ed era un po’ il capo classe. Portava nelle classi le circolari, i registri alla professoressa, quelle cose lì. Simone aveva già una reputazione da difendere, quella di suo fratello che era “un bravo ragazzo” come diceva il nostro preside, Don Gabriele Micheli. Era un prete, esatto, la nostra era una scuola di preti. La mamma di Simone la sera prima del primo giorno di scuola doveva avergli detto di guardare fisso davanti a sé e di non parlare con nessuno. Di non distrarsi. Di rigare diritto. Le stesse cose che mi aveva detto anche mia, di mamma. Solo che io facevo a modo mio. Io un po’, parlavo.

Le scuole medie sono passate veloci. Abbastanza, insomma. Con il tempo io e Simone siamo diventati amici. Un po’ amici. Non potevamo essere molto amici perché eravamo costantemente in gara io e lui, per tutto. Per il calcio, per la corsa campestre della scuola, per il salto in alto, per essere i primi in fila all’ingresso del refettorio. Per tutto. Per le ragazze no, perché quelle non facevano parte del nostro universo, quelle sono arrivate dopo. La nostra era una scuola solo maschile, 430 ragazzi, zero ragazze. Dura la vita alla Casa dello Studente.

Poi ci sono state le scuole superiori, cinque anni. Cinque anni e spiccioli diciamo, qualche intoppo c’è stato. Io e Simone ci siamo persi completamente di vista per tre anni, poi una volta per puro caso ci siamo ritrovati ad arrampicare in una cava abbandonata, la Cava di Nembro. Io ci andavo in bici di nascosto da mia mamma, lui no. Lui già andava ad arrampicare con suo papà qualche volta, era anche già andato a fare qualche via in Dolomiti con l’Alberto Consonni, un alpinista della nostra città che ha sempre avuto il pallino di insegnare ai giovani. Io no, in Dolomiti non ero mai andato. Però mio papà in compenso tutte le domeniche e qualche volta anche al sabato mi portava a fare sci-alpinismo. All’inizio, appena re-incontrati dopo esserci persi di vista, le cose tra noi stavano ancora nello stesso identico modo delle scuole medie: rivalità assoluta, su tutti i fronti. La questione sembrava girare tutta intorno alla necessità di stabilire chi fosse il più bravo tra i due a fare qualsiasi cosa. Arrampicare, correre, andare in bici. Ad arrampicare ci andavamo in bici da Bergamo, quasi tutti i pomeriggi. Dodici km ad andare e dodici a tornare.

Poi Simone ha ricevuto in regalo un motorino da suo padre – un Tomos, il motorino più sfigato in circolazione dopo il Velosolex – e lì abbiamo cominciato a diventare “soci” anziché “avversari”. La rivalità si è silenziosamente trasformata in complicità, in amicizia. Credo che anche lui a un certo punto, ad arrampicare, venisse di nascosto, almeno qualche volta, perché i suoi risultati scolastici non erano eclatanti e sapendo quanto sua madre tenesse alla scuola, a me pareva impensabile che lui potesse essere lì tutti i pomeriggi. Quasi più di me. Quasi, dico. Io ad esempio, dicevo sempre a casa che al pomeriggio andavo a studiare in biblioteca. Poi una volta mio padre, per caso, si è accorto che invece di andare in biblioteca andavo ad arrampicare, ma questa è un’altra storia. I nostri trasferimenti verso la Cava di Nembro sono diventati degli allenamenti in bici “dietro motori”. Uno guidava il motorino, e l’altro seguiva stando in scia. Viaggiavamo fissi a 40 km/h. Poteva anche capitare che ci scambiassimo in sella alla bici, per alternare i recuperi ed essere più efficienti. Io e Simone prima di diventare una cordata siamo diventati un accoppiata ciclistica.

Poi siamo diventati maggiorenni e abbiamo preso la patente della macchina. Prima io – io sono nato a marzo, Simone a ottobre – e poi Simone. Simone aveva una macchina, vecchissima e scassata, regalata da un amico arrampicatore, il Camòs e io no, niente macchina. Presi singolarmente non saremmo andati da nessuna parte, io senza macchina, lui senza patente. Insieme invece potevamo andare ovunque, compatibilmente con l’efficienza dell’automobile ovviamente, che effettivamente era decisamente bassa. Il nostro raggio d’azione grazie a quella vecchia Fiat 127 Coriasco in fin di vita si estese dalla cava di Nembro a Cornalba, Lecco, Arco, Lumignano, Finale Ligure, Erto. Eravamo sempre insieme, ci sembrava di avere il mondo nel palmo della mano. Forse quello è stato il momento più bello della mia vita, quello in cui ho davvero assaporato il senso di essere libero.

Poi è venuto il tempo di occuparsi del futuro, e il mio futuro in un certo senso è iniziato un po’ prima di quello di Simone perché quando c’è stato da iscriversi all’Università Simone doveva chiudere ancora la pratica con le scuole superiori. Abbiamo – esatto, abbiamo, insieme - scelto l’ISEF, la scuola per diventare insegnante di educazione fisica, perché quello pensavamo ci avrebbe consentito di allenarci tutti i giorni e di arrampicare come lavoro. La decisione che la montagna sarebbe stata il nostro lavoro era già stata presa da un pezzo. Io ho iniziato e poi quasi finito l’università nell’attesa di Simone. Dico quasi perché dopo la frequenza obbligatoria, dopo avere dato tutti gli esami tranne uno, io non ho mai preso il diploma universitario. Simone sì, ci ha messo un po’ ma poi ha finito.

Simone tra tutti quelli che conoscono la mia storia con l’università - mi bastava fare un solo esame per chiudere la faccenda e fare contenti genitori, parenti, vicini di casa, il preside della facoltà, i miei compagni di corso, quella che oggi è diventata mia moglie, insomma tutti - è l’unico che non mi ha mai detto niente. Non mi ha mai criticato. Non ha mai insistito perché io finissi e prendessi il diploma e non ha mai cercato di convincermi o di farmi cambiare idea. Ha sempre pensato – credo - che la mia scelta, seppur sostenuta dai migliori principi, fosse una idea del cavolo. Però l’ha sempre rispettata. Quella è probabilmente la sua caratteristica migliore – un po’ di anni fa non lo avrei mai ammesso - Simone non cerca mai di convincerti di una cosa. Lui si limita a constatare. Constatare, esatto. E poi si comporta di conseguenza.

Adesso provo a pensare a questa cosa con il senno del poi: se vuoi andare in cima a una montagna di 8000 metri d’inverno, non è che devi convincerti o sperare che non faccia tanto freddo, che non tiri troppo vento, che non nevichi troppo. Non deve essere una lotta contro la natura, la tua. Devi semplicemente constatare come stanno le cose, e comportarti di conseguenza. Convivere con quella cosa, che sia un disagio o un imprevisto o una scelta di qualcun altro e non devi sprecare le tue energie per lottarci contro. Devi razionalizzare il tuo sforzo per renderlo produttivo. Efficiente. Adattarti, o nei peggiori dei casi, sopportare. Poi contro attaccare. E’ questa una strategia desueta, fuori moda, apparentemente passiva, poco spettacolare, forse. Oggi va di moda l’adrenalina, lo show. La vita reale non fa spettacolo. Ma i risultati di Simone nel lungo termine dicono un’altra cosa. Dicono che chi osa con intelligenza, chi quando serve sa anche aspettare o incassare un colpo, sposta in avanti i suoi limiti. La storia non l’hanno mai scritta uomini andati allo sbaraglio. Devo ammetterlo, almeno su questo Simone mi ha dato il giro. Io non mi sono mai accontentato di constatare. Io ho sempre cercato di cambiare le cose intorno a me con forza. Questa cosa a volte è un pregio, altre volte è un difetto. In alpinismo questo, è quasi sempre un difetto.

Da quei giorni alla Cava di Nembro sembrano passati anni luce. Simone è diventato uno dei più forti himalaysti in circolazione. Io ho speso la mia vita alla ricerca della linea perfetta con lo snowboard o con gli sci da telemark sulle più belle montagne del mondo. Dal punto di vista personale e professionale seppur con gradi di celebrità diversi entrambi abbiamo avuto la vita che volevamo, esattamente come l’avevamo immaginata e pianificata tanti anni fa. Non solo questo, certo. In due messi insieme abbiamo cinque bambini. Viviamo in famiglie felici, cercando di trasmettere ai nostri figli lo stesso entusiasmo e la stessa gioia per la vita che ha condotto noi fino al punto di essere uomini felici. Continuiamo a fare con semplicità quello che ci piace e che abbiamo imparato a fare nella semioscurità della Cava di Nembro: fare sport, andare in montagna. Vivere. Nessuno qui parla di successo e di misura del successo. Qui si parla della sensazione dell’universo che fa le bolle di sapone soffiando dentro alla tua anima. Quella è la felicità. Di quello, vi dico.

Forse voi vi aspettavate di leggere una relazione tecnica, un saggio filosofico sulla sopravvivenza e sull’alpinismo in Himalaya. O forse no. Forse anche voi siete persone fatte come me e come Simone. Persone semplici, animate dalla voglia di fare e di esplorare senza perdersi in chiacchiere inutili. In quel caso, forse, avete capito di cosa vi volevo parlare.

Alle 10.30 in punto sono sotto la casa di Simone. Suono il campanello, piove a dirotto. Lui mi apre il cancello e mi guarda dal terrazzo. Ride. Sa che ho fatto allenamento sotto l’acqua.
“Hai corso sotto l’acqua, eh?” mi chiede.
“Ovvio. La classica sfiga” rispondo.
Mi asciugo un po’ e poi in silenzio mi siedo al tavolo, tiro fuori le mie carte, la penna, il registratore e mi preparo. Lui tra una settimana parte per il GII. Ha un milione di cose da fare ma è tranquillissimo. Mi osserva e intanto prepara il caffè. Parliamo.
“Che cazzo dobbiamo fare, oggi?” dice.
“Mi devi dire alcune cose del GII e delle invernali in Himalaya. Per STORY.teller. E soprattutto per i video che ti devo preparare quando tu sarai in spedizione.”
“Ah. Va bè.” Intanto fuori ha smesso di piovere, compare un po’ di sole.
Parliamo di stile, di Himalaya, di invernali, del Makalu, dello Shishapangma, di video, di telefoni satellitari, del Càmos e del Vito Amigoni. Nel frattempo Simone risponde anche a un’altra intervista radiofonica. Mentre parla al cellulare in diretta nazionale trova anche il tempo per andare in bagno a pisciare. Ridiamo. “L’importante è non tirare mai l’acqua, altrimenti se ne accorgono.” mi dice. Non è una vera intervista la nostra, tra me e Simone è impossibile. Più che altro cerchiamo di smazzarcela in fretta. Fare quello che dobbiamo. Dopo un’ora e mezza mettiamo via tutto.
“Abbiamo finito, mi chiede?”
“Finito. Tu non preoccuparti, poi casomai in qualche modo mi arrangio.”
“Perfetto. Così sono a posto. Allora io vado a correre…”

Fuori adesso c’è il sole. Il solito fortunato, penso.
Ci salutiamo. Prendo la mia macchina e torno a casa. Parcheggio, salgo in casa, mi cambio ed esco a correre un’altra volta. Perché la fortuna non esiste. E’ tutta questione di allenamento. Lo dice sempre anche Simone.

di Emilio Previtali
Note:
The North Face STORY.teller
This is a window on our world.
It’s a promise to every enthusiast and passionate fan.
It’s the silence, the wind, the dirt, the dark side of every adventure we live.
It’s about fear and joy. It’s about success and failure.
It’s about the conflict between one’s expectation and cruel reality.
It’s about what we feel during our expeditions.
It’s about the land we venture in, the people we meet, the friends we have.
It’s about our own personal heroes, legends and inspirations.
It’s about laughing and crying, about excitement and desolation.
It’s about the lines we decided to draw, to follow or to repeat.
It’s about the borders we respected or crossed.
Sometimes ignored, sometimes extended.
It’s about our dreams.
It’s about exploration.
Epic.

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