Schiodatura del Torre, le riflessioni di Mario Manica e Manuel Lugli

Il pensiero di Mario Manica e Manuel Lugli nel dibattito sulla recente schiodatura della Via del Compressore sul Cerro Torre da parte di Hayden Kennedy e Jason Kruk.
Continua in tutto il web la discussione dopo la schiodatura della Via del Compressore sulla sud-est del Cerro Torre da parte di Kennedy e Kruk. C'era obiettivamente da aspettarselo, anche se si ha la senzazione che, sia da parte degli autori della schiodatura sia di chi si è dichiarato a favore della stessa, non ci si aspettasse una reazione contraria così forte ma anche così diffusa. Difficile fare la "conta", ma la senzazione è che il mondo dell'alpinismo sia diviso in due, ovviamente con tutte le sfumature che una discussione che s'annuncia infinita (ma non per questo poco importante) comporta. Noi vi proponiamo sull'argomento quanto ci hanno scritto Mario Manica, alpinista con una lunga esperienza in Patagonia, e Manuel Lugli alpinista e scrittore oltre che organizzatore di molte spedizioni alpinistiche. Infine vi segnaliamo sull'argomento l'articolo di Hayden Kennedy e Jason Kruk su alpinist.com, l'intervento di Colin Haley sul suo blog, e l'intervento di Arnaud Petit pubblicato sul sito del Piolet d'Or. Detto ciò, un ultimo pensiero flash: in tutto questo sembra proprio che la performance della prima libera della sud est da parte di David Lama e Peter Ortner sia passata in secondo piano. Un vero peccato!


ENDURING FREEDOM di Mario Manica

Vecchia faccenda, questa. I fatti che segnano la storia di paesi come Iraq, Afghanistan, Somalia, Vietnam e Centro America, non sono forse simili a quelli che segnano la via del Compressore al Torre? Vi si leggono le stesse motivazioni. Nei paesi citati le si brandiscono con democrazia da importare, con regole di vita da importare, con cose giuste da fare e cose sbagliate da cancellare, in stile americano. Uno stile al quale ci accodiamo a testa bassa, spesso, anche noi europei.
Sulla via del Compressore, lo stile simil imperialista parrebbe lo stesso. Ecco svegliarsi qualcuno la mattina e decidere di cancellare la storia. Una storia che peraltro non è stata presa da esempio. Anzi. L’essere lì è servita proprio per non raccoglierla. «Il Cerro Torre non è di tutti. Il Cerro Torre è argentino», scrive in un blog Marianna Fava, figlia di Cesarino Fava. E gli argentini di El Chalten avevano discusso sulla questione già da tempo, decidendo poi di lasciare il Torre così com’era. Dunque perché intromettersi?
Le motivazioni del gesto di questi climber americani (e del coro di sostegno e approvazione che li ha accompagnati, non senza la riprovazione di molti altri scalatori loro connazionali) non sono forse simili? Liberiamoci del male assoluto. A loro non serve il permesso. C’è da chiedersi perché non agiscano così a casa propria.
Guantanamo, la pena di morte.... Cose grosse, certo. Cose di Storia. Un paradosso mettere sullo stesso piano Iraq e Torre. Pena di morte e Torre. Ma i promotori di queste vicende sembrano legati dallo stesso filo rosso culturale. Tutti loro sono fermamente convinti del bene fatto. Il male è stato estirpato.
Non c’è solo il Cerro Torre. La pulizia della montagna non avviene epurando la storia.
Mi verrebbe di arrivare in cima al Torre con l’elicottero, di calarmi in doppia, e di rimettere sulla stessa via i chiodi a pressione profanati. Con qualche migliaia di euro me la caverei. Poi, però, sarebbe necessario l’intervento dei caschi blu per controllare che il Cerro Torre non venisse liberato. Ma dato che per l’intervento dei caschi blu è necessaria una risoluzione dell’Onu, il veto degli americani sarebbe risolutivo anche in questo caso. E, la storia, infinita: metti e togli, togli e metti.

Mario Manica
Prima salita parete nord Cerro Piergiorgio (con Renzo Vettori)
Prima salita parete ovest Torre Centrale del Paine (con Fabrizio Defrancesco e Fabio Stedile)
Prime invernali Torre Nord e Torre Sud del Paine (con Luca Leonardi)
Via nuova parete est Cerro Catedral (con Fabio Leoni, Danny Zampiccoli)
Via nuova parete ovest Torre Nord del Paine (con Fabio Leoni, Danny Zampiccoli).
Cerro Torre: 1985 due  tentativi con Armando Aste, Fabrizio Defrancesco, Mariano Marisa, 1986 tentativo, 1990 tentativo invernale solitario (percorsi pochi metri di via). Punto massimo raggiunto: Torrette di ghiaccio



QUANDO MANCA LA FANTASIA di Manuel Lugli

Di tutti i commenti letti a proposito della querelle sulla schiodatura del Torre ad opera dei due wild boys Kenney e Kruk, quello che più si avvicina alla mia personalissima sensibilità è di Hervé Barmasse quando scrive che "il mondo è pieno di cime, se una persona vuole dimostrare qualcosa lo può fare tranquillamente aprendo una via da un'altra parte, poi sarà la gente a giudicare se quello stile è migliore di un altro."
Non sono un grande rocciatore, anzi, mi muovo con grande rispetto sul V+, però di montagne ne ho viste e conosciute tante, in tutto il mondo, così come ho conosciuto un'infinità di alpinisti e conosco un po' di storie. Ora, il punto mi sembra sia esattamente questo: perchè con tutte le pareti che esistono al mondo, dove è possibile aprire migliaia di vie nuove estreme e con ogni stile - a parte Yosemite pensiamo a Baffin, Groenlandia, Norvegia, Pakistan, Siguniang, Kirghizstan, Marocco, Mali, etc. - i due americani hanno dovuto far rifulgere la propria luce alpinistica proprio con questa azione sul Cerro Torre? E soprattutto perchè modificando un itinerario altrui, per quanto criticato e criticabile? Temo per il solito vecchio motivo: se fai una cazzata su una montagna famosa lo vengono a sapere tutti, se fai un grande gesto su una montagna sconosciuta non ti caga nessuno. Sic et simpliciter. Brutale ma sempre attuale. Poi possiamo dire che il granito del Cerro Torre sforacchiato era brutto - forse che sono meglio cento buchi neri, come dice Salini ? - possiamo ammantare il tutto con un velo di nobiltà e rigore etico e bla bla bla. Resta il fatto che Kruk e Kennedy hanno casualmente fatto la loro salita - e relativa mediatica schiodatura - dove tutti potevano vederli, non certo, che so, al Golden Pillar dove Saunders e Fowler nel 1986 misero giù sei o sette protezioni su 1.200 metri di parete. Garibotti nel dare notizie della salita americana, riporta che i due avrebbero utlizzato alcune delle soste di Maestri e altri 5 spit, inaugurando quello che potremmo definire lo stile "by almost fair means". Questo evidentemente li avrebbe autorizzati a ripulire la parete dai chiodacci di Maestri. Vabbè... Ad ogni buon conto la platea alpinistica si divide come al solito tra chi è a favore e chi contro, anche se alla fine più che il gesto in sé, che, opinione personale, avrebbe comunque meritato ponderazione e rispetto maggiori, mi sembra che anche qui la fantasia alpinistica "di base" sia parecchio latitante, lasciando spazio ad una certa quantità di furbizia.
Mi viene in mente la storia di un alpinista austriaco incontrato all'Everest, nel 1996. L'uomo aveva tentato la via della cresta nord-nordest "in solitaria" (sic) senza usare le corde fisse, ma salendo esattamente un metro a fianco delle stesse e utilizzando qualche sosta. Il tutto, diceva, per rigorose questioni di etica personale. Peccato che la via fosse storia vecchissima ed al suo fianco salissero e scendessero, attaccati alle fisse, decine e decine di altri alpinisti. Il poveretto, per inciso, non è poi più sceso, morendo per sfinimento da qualche parte a fianco delle fisse nella bufera di Aria Sottile. Ecco, mutatis mutandis (Kruk e Kenndy sono senz'altro arrampicatori fortissimi) l'etica dei due americani mi ricorda un po' quella dell'austriaco. Raccontarsela e raccontarla aiuta la visibilità ma non fa di un alpinista, per quanto forte, un fuoriclasse.

Manuel Lugli
Ha curato per due decenni l'organizzazione logista di molte spedizioni himalayane e non solo. Ha partecipato a spedizioni sull'Everest e sul K2 da Nord. Autore di libri sull'alpinismo e collaboratore di riviste specializzate tra cui anche planemountain.com. Istruttore Nazionale di Sci-Alpinismo del Club Alpino Italiano. Per 8 anni direttore della Scuola di Alpinismo e Sci Alpinismo “Bismantova” del CAI di Modena, Reggio Emilia e Sassuolo.





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