Luca Vuerich, la montagna e l'alpinismo: le foto in mostra a Resia

Domani 23 settembre 2017 alle 18:00 sarà inaugurata, presso il Centro visite del Parco naturale delle Prealpi Giulie di Prato di Resia (UD), una Mostra dedicata alle foto di Luca Vuerich indimenticabile alpinista, guida alpina e fotografo tarvisiano.
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Spiritualita'. Un portatore Balti' a Udukas.
Luca Vuerich

"Quando fotografo mi lascio guidare dall’istinto, senza seguire troppo gli schemi. La fotografia nasce spontanea, non mi impegna, mi diverte anche a 8000 metri, nonostante lì si sbuffi un po'... Per questo stento a ritenermi un professionista: non posso paragonarmi a chi ha studiato per anni. Ho ancora molto da imparare". Così ci scriveva Luca Vuerich per la pagina "fotografi"che gli avevamo dedicato su planetmountain.

Da domani 27 foto scelte tra quei suoi scatti nell'aria sottile della sua ultima spedizione himalayana del 2008 sono in mostra al Centro visite del Parco naturale delle Prealpi Giulie di Prato di Resia. L'iniziativa è organizzata dal Parco Naturale delle Prealpi Giulie ed è patrocinata dal Comune e dall'Ecomuseo della Val Resia, dalla Pro Loco Pro Val Resia e dalla Scuola di Alpinismo e Scialpinismo del Friuli Venezia Giulia - Guide Fvg. Il tutto per ricordare Luca Vuerich l'indimenticato, e assolutamente indimenticabile, alpinista, guida alpina e fotografo scomparso il 22 gennaio 2010 all'età di 34 anni travolto da una valanga mentre saliva una cascata di ghiaccio a Prisojinik, vicino a Kranjska Gora sul confine italo-sloveno.

Per ricordare Luca, l'alpinista e l'uomo vi riproponiamo un'intervista del 2004:

Luca Vuerich, Himalaya, falesie, pareti, cascate… a cosa non rinunceresti?
Prima di tutto la montagna per me è divertimento, e per questo l’unica cosa a cui non rinuncerei mai è la compagnia degli amici. Poi, scegliere un’attività piuttosto di un'altra lo sento riduttivo, e forse mi porterebbe presto alla noia. Vado in montagna perché mi piace, perché mi rilassa e mi fa sentire in piena armonia con la natura. Mi piace vivere questa passione in modo completo senza discriminare una sola tra le sue mille immagini. Così penso che ogni attività sia fortemente legata all’altra: ogni stagione ha la sua disciplina, così come ogni parentesi della mia vita. Arrampicare in falesia o su pannello è divertimento allo stato puro e allo stesso tempo ti consente di migliorare anche su ghiaccio e in montagna, dove oltretutto entra in gioco anche il fattore psicologico: mi piace l’idea di osare un po’ di più; è una continua sfida. A me piace la polivalenza, anche perché da queste parti c’è solo l’imbarazzo della scelta…

Le montagne "delle tue parti", Le Alpi Giulie… come sono

Sono montagne solitarie ed affascinanti, dove puoi riscoprire il piacere della vera intimità con la natura. "Montagne Nascoste", come le chiamiamo con Nives e Romano (Nives Meroi e Romano Benet NdR): selvagge e poco conosciute, ma non per questo meno belle e ardite di tante altre vette più famose.

Qualche esempio di queste pareti nascoste?
Su tutti il Gruppo del Mangart con le sue vie tra le più difficili delle Alpi Giulie, come il famoso Diedro Cozzolino e il Pilastro Piussi. Su queste pareti, a diciassette anni, in compagnia di un mio coetaneo, ho mosso i miei primi passi da alpinista, e ancora adesso sono la mia vera scuola. Sono montagne che consiglio di assaggiare un po’ in tutte le stagioni, anche in inverno lungo i canali di misto e le difficili cascate lunghe fino a 500 metri. Offrono vie impegnative, molto lunghe e poco chiodate, dove spesso trovare il percorso giusto non è per niente semplice, e dove spesso il "fiuto"conta tanto quanto il gesto atletico.

Come in quella via di cui mi parlavi
Sì, la Sanjski Ozebnik (Couloir dei Sogni) VI/5+ su ghiaccio e V+/A0 su roccia, sulla parete nord del Tricorno. È considerata la via alpinistica più difficile delle Alpi Giulie, ed è stata aperta in sei giorni nell’inverno ’85 dai cecoslovacchi B. Mrozek e L. Ullsperger. Una via di misto di 1200m con neve attaccata su una parete verticale difficile da proteggere e in un ambiente estremamente severo. Per me è una via "mito", perché rappresenta il mio ideale di alpinismo invernale.

L’incontro con questa "via-mito"
Tutto iniziò con Romano, durante una gita di sci alpinismo sotto le nord del Tricorno, c’era una cordata proprio sulla Sanjski Ozebnik. Sul momento la via non ci sembrò così "dura", anche se il gruppo procedeva molto lentamente. Rimanemmo a guardarli fino a un po’ prima del bivacco e il giorno dopo tornai da solo a ripetere una via sulla nord anche per vedere come procedevano, così scoprii che erano Marko Prezelj e due forti alpinisti francesi del Groupe Houte Montagne… forse, pensai, la via non è poi così semplice.

Il dado era ormai tratto
Beh, sì. Ormai il tarlo aveva già cominciato a lavorare nella nostra testa. Così, con Romano, la settimana dopo eravamo già all’attacco. Volevamo salirla in giornata, cosa che non era mai stata fatta (di norma la via richiedeva 2/3 gg). Partimmo alle 3 del mattino ed arrivammo al rifugio alle 21, dopo 18 ore di salita non-stop. Il termometro segnava -15° e la montagna era spazzata da raffiche di vento a 130 km/h. Il gestore, vedendoci arrivare in quelle condizioni, ci offrì da bere e da dormire. Per me è stata una delle più belle avventure in montagna; e mi piace averla vissuta con Romano, perché in lui ritrovo il mio stesso modo di vivere la montagna con uno stile veloce e leggero.

Facciamo un passo indietro: com’è iniziata questa passione?

Ho cominciato all’età di cinque anni, con mio padre. Fin da piccolo papà mi ha "allenato bene": lunghi sentieri, ferrate e anche alta montagna. A nove anni avevo già salito i 3800m del Grossglockner, la cima più alta dell’Austria. Fin dall’inizio è stato un divertimento andare in giro con lui, anche per i grossi panini che poi mangiavamo in cima.

Poi i viaggi, gli Ottomila
Probabilmente anche la passione per i viaggi l’ho ereditata da mio padre. Anche lui in passato ha partecipato a diverse spedizioni. A sette anni lo vidi partire per il Perù e già da allora la cosa m’incuriosiva, fino alla sua ultima spedizione al K2 da Nord nel ’91, insieme a Romano Benet. Forse è stato quello il momento in cui mi passò il testimone. Pochi anni dopo conobbi anch’io Romano e il giorno dopo eravamo sulla Costantini Apollonio alla Tofana di Rozes insieme a Nives: era il 1993 e da allora il nostro sodalizio non ha fatto che rafforzarsi. Girando con loro ho imparato tante cose… Poi, nel 1998, organizzammo una spedizione al Nanga Parbat, una montagna "facile facile", tanto per cominciare.

Come andò quel tuo primo assaggio con gli ottomila?
L’inesperienza e l’entusiasmo mi giocarono un brutto scherzo: dopo una settimana di febbre al CB decisi di partire ugualmente per la cima. A 7500 mt (C4) il mio fisico disse "basta"e fui colpito da un edema cerebrale. Se non fosse stato per Romano, Nives, Fabio e Maxi, che in quel momento si trovavano con me e per le cure di Leonardo Pagani (il medico) che dal CB li guidava sul da farsi, probabilmente a quest’ora non sarei qui. Da allora ho capito l’importanza di avere dei compagni su cui poter fare affidamento.

Cosa ti ha maggiormente colpito del mondo delle montagne più alte?
In positivo la possibilità di creare dei rapporti d’amicizia molto profondi, la bellezza degli ambienti, le proporzioni degli spazi e anche la fatica che si può fare. In negativo l’arroganza con cui spesso molti alpinisti si rapportano con ambienti e culture lontane dalla loro, così come la sporcizia ed il menefreghismo.

L'anno scorso è stata una specie di corsa: GI, GII e Broad Peak in soli 20 giorni
Quell’esperienza, con Nives e Romano, mi ha lasciato una traccia indelebile. Fino a quel momento non avevo mai raggiunto la vetta di un Ottomila, pur avendone già tentati diversi: portarne a casa tre in una volta sola, per di più in appena 20 giorni è stato per me un sogno quasi insperato. Prima di noi solamente Lorethan e i suoi due compagni avevano fatto di meglio (15 giorni per GI, GII e Broad Peak.).

Un’avventura e/o un record?
Di certo non possiamo parlare di record (sempre che non ci si riferisca a Nives, l’unica donna ad aver portato a termine un simile progetto), ma per il modo con cui abbiamo affrontato la montagna - in piena autonomia, senza portatori d’alta quota ed ossigeno e posizionando solamente un campo fisso a 6500m sul GII - credo si possa comunque ritenerla un’impresa degna di nota. E anche un’avventura, a cui i media, italiani prima di tutto, non hanno prestato la dovuta attenzione, soprattutto considerando che per qualcosa di simile (Dhaulagiri, Nanga Parbat e Broad Peak in più di due mesi) J.C. Lafaille è stato candidato al Piolet d’Or.

Himalaya… quante verità?
A volte in Himalaya le salite nascondono due verità: troppo spesso vengono omessi particolari come l’uso o meno dell’ossigeno e dei portatori d’alta quota, che il più delle volte hanno un peso decisivo nella riuscita di una spedizione e che, oltretutto, possono ben aiutarci a discriminare sui diversi modi di fare montagna. Sul GI e GII, per esempio, ci affiancava la spedizione spagnola de Il Filo De L’Imposible, che ha sempre fatto uso di portatori d’alta quota ma che non l’ha mai segnalato.

Detta così sembra l’innesco dell’eterna polemica
No, non intendo puntare il dito su chi non va in montagna come me: non dico che il mio sia il "metodo"migliore, ognuno è libero di agire secondo la propria etica… Tuttavia non trovo giusto omettere certi particolari, perché a parere mio non è importante solo l’arrivare in cima, ma anche il come ci arrivi. Dall’altra parte la stampa dovrebbe perlomeno evitare di mettere sullo stesso piano questi due generi di spedizioni e riconoscere l’effettivo valore che una stessa cima può avere se salita in modi così "opposti": non esiste "gara"quando le categorie sono diverse, per cui credo che valga la pena operare una discriminazione un po’ più obiettiva, in modo da permettere a tutti di scegliere il proprio punto di vista.

Ma il divertimento nell'aria sottile dove sta?
L’aria sottile non esclude l’allegria; al di là della fatica e delle difficoltà che spesso ci si trova a dover gestire, il buonumore non deve mancare mai. Secondo me il segreto è affrontare la montagna in modo sereno. Quest’anno per esempio, al K2 abbiamo raggiunto solamente i 7000 metri ma ci siamo divertiti ugualmente, perché c’era un bel gruppo.

Ecco, veniamo al tuo 2004: cima del Lhotse e tentativo al K2 da Nord
Sentieri, gente ospitale, lodge, quattrocento persone al CB, corde fisse, sole, Everest, spedizioni commerciali, sherpa, ossigeno, Ice Fall, morti, vento, comodità, mangiar bene, cima: questo per me è stato il Lhotse. Pace, cammelli, dieci persone al CB, tempeste, paura, neve, fiumi in piena da guadare, sentieri da creare, vento, valanghe, partite a carte, attesa, delusione, fatica, spigolo, ossessione, speranza, dormire, amici…. questo è stato il K2 da Nord. Sono i modi opposti con cui la montagna ti si può rivelare.

K2 senza vetta, cosa ti resta?
La cima… a parte gli scherzi (ma neanche tanto) mi è rimasta una bellissima esperienza in un posto magnifico. Probabilmente non sarà mai la stessa cosa tornarci.

K2, se ne è parlato tanto, ma tu come lo descriveresti
Come si fa a descrivere il K2? Devi andarci vicino, devi starci dentro. Io stesso non riuscivo a capire, nonostante mio padre e Nives mi avessero tanto parlato di lui: è qualcosa che rimane in te, forse dato dal viaggio, da questi posti così magici e isolati. Eravamo da soli, sulla seconda montagna del mondo, nel 50° della salita, ripeto: anche se non c’è stata la cima è stato comunque bello. Passavamo intere giornate a guardarla, anche perché ce l’hai lì, davanti, è l’unica con quella linea ed è inevitabile che ti si stampi nella testa.

Ti ha cambiato l'Himalaya?
Indubbiamente mi ha cambiato, visto che ci ho passato circa 16 mesi negli ultimi sette anni. Non so se in meglio o in peggio… (si sa, l’esposizione alle alte quote provoca sempre qualche risvolto degenerativo) ma di certo mi ha cambiato sia fisicamente, nella resistenza alla fatica, sia, soprattutto, psicologicamente. Ne ho tratto un grande arricchimento, perché vedi gente nuova, culture diverse e nel tentativo di capirle ti rendi conto di ampliare i tuoi orizzonti. È un modo per crescere.

Futuro prossimo e remoto: obiettivi di felicità?
Vorrei trasformare la passione per la montagna e la fotografia in un vero e proprio lavoro. Per le salite poi non ho progetti particolari: arrampicate, ghiaccio e magari un altro Ottomila il prossimo anno… chissà…

Intervista di Vinicio Stefanello - pubblicata su ALP WALL 2014

info: www.parcoprealpigiulie.it




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