Liberi di arrampicare la scoperta della roccia di Arco

La prima puntata della storia della scoperta dell'arrampicata sportiva sulle rocce di Arco dal libro Rock Master, l'arrampicata ad Arco.
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Luisa Iovane assicurata da Bruno Pederiva alla Spiaggia delle Lucertole (Torbole)
Heinz Mariacher

Cosa c’è all’inizio della storia a volte non lo sa neanche chi l’ha fatta, quella storia. Si potrebbe dire che è inconsapevole come quel tale, Isaac Newton, a cui un bernoccolo in testa fece balenare l’idea che qualcosa, una forza, ci tiene attaccati alla terra. Ma un’invenzione può essere inconsapevole e casuale? La nostra, di storia, comincia all’inizio degli anni ’80 e parla della scoperta di Arco e di un’arrampicata che non si era mai vista. Narra, appunto, di un’invenzione. Pure questa con i crismi di un’apparente casualità che però, guarda caso, si sposa non solo con una novità e una scoperta ma anche con un’idea di libertà.

S’era all’inizio degli anni ’80, dicevamo. Anni difficili, dove l’inflazione andava sempre a braccetto con la svalutazione (della lira), mentre il salario medio non superava le trecentocinquantamila, di lire. Internet, a quel tempo, era fantascienza, il computer si chiamava ancora calcolatore e mai si sarebbe pensato di infilarselo in borsa. Per scrivere alla morosa, poi, occorreva prendere carta e penna, perché gli sms non esistevano. Eravamo agli albori di quegli anni, insomma, passati alla storia come quelli dell’edonismo reganiano, da Reagan, presidente degli Stati Uniti. Ma eravamo anche negli anni in cui, in Irlanda, nacquero gli U2 di “Stranger in a strange land” e “Bullet in Blue Sky”.

Erano anche tempi in cui, chi s’arrampicava sulle rocce doveva essere un alpinista, con tanto di regolamentari braghe a zuava, calzettoni di lana e scarponi. Le pareti dovevano, per forza, portare ad una cima, che a sua volta doveva, per definizione, stare sopra una montagna. Tutto il resto era di contorno, serviva solo per raggiungere la vetta.

Tutto sembrava già scritto: il come, il dove e soprattutto il perché. Così, come sembrava eterno il muro di Berlino che sanciva il mondo diviso in due blocchi contrapposti, per chi amava arrampicare le regole erano date e la strada segnata, naturalmente a senso unico, verso la conquista delle montagne. Ormai si sa com’è andata con la divisione del mondo, la globalizzazione e tutto il resto. E, si sa anche com’è andata con l’arrampicata diventata, via via, sempre più multiforme e specializzata.

Ma non anticipiamo troppo, torniamo alla nostra storia. Non prima però di dire che nell’aria si respirava ancora qualcosa, che aveva a che fare con tutto quello che era successo prima. Si avvertivano ancora quel sovvertimento, quell’aria di rivoluzione e di cambiamento, che aveva investito la società, la scuola, e tutto ciò che aveva a che fare con il già precostituito. Non che gli alpinisti, futuri arrampicatori, fossero tout-court dei rivoluzionari, ma la voglia di “cambiare”, allora, era dappertutto. Era quasi di moda. E, aveva lambito, complici gli inconsapevoli proto-arrampicatori, anche le ancora più inconsapevoli montagne. Così dalle Dolomiti al Monte Bianco, ma anche nella californiana Yosemite, in Inghilterra e in Germania, quasi all’unisono, e autonomamente, alcune piccole avanguardie sperimentavano il modo per scavalcare quello che si credeva insuperabile. Si sfidava la scalata artificiale cercando di ri-proporla in libera, si accorciavano i tempi di salita. Anche in montagna, insomma, c’era chi andava oltre il costituito. E tentava, se non di rompere, almeno di scompigliare gli schemi!

Immaginatevi questo panorama. E immaginatevi Arco, il Lago di Garda e le pareti del Sarca. Ma non pensate a cosa rappresentano oggi per l’arrampicata. Pensate, invece, che si scalava quasi esclusivamente sulla parete del Colodri: vie di 10 tiri, per lo più in artificiale, che i più bravi cominciavano a pensare, e tentare, “in libera”. Pensate che erano pochissimi quegli arrampicatori, immaginate anche che fossero come degli astronauti (e lo erano veramente) per quasi tutti gli abitanti di Arco. Ecco, proprio allora capitò.

Casualmente ai piedi dei Colodri si presentò una coppia di scalatori, di ritorno da un’imprecisata parete dolomitica. Erano arrivati lì senza alcun vero motivo, forse mossi da un po’ di curiosità, forse per sentito dire, forse spinti da una voglia di ricerca che, neanche loro, avevano ancora bene in mente. Lui, era noto per le incredibili e velocissime ripetizioni delle più dure vie delle Dolomiti, per altrettante scorribande solitarie - fuori da tutti gli schemi - sulle pareti del Sella, nonché per l’esplorazione e salita sistematica della levigata e imponente Sud della Marmolada. Lei, studentessa con la malattia della montagna e delle grandi pareti, l’accompagnava già da un po’ in questi viaggi alpini, obbligatoriamente sempre più verticali e difficili. Lui, di nome faceva Heinz, aveva capelli lunghi, occhialetti accompagnati da una barbetta da intellettuale, come del resto richiedeva l’epoca. D’indole cocciuta - ma non come le sue origini da Wörgl, Tirolo austriaco, potrebbero far immaginare - era sempre in cerca di qualcosa per cui valesse la pena spendersi con gioia, senza però darlo troppo a vedere. E, particolare fondamentale per la nostra storia, fin da piccolo aveva instaurato un rapporto tutto speciale con la roccia.

Lei, la Luisa, trecce da liceale e faccia da brava ragazza, poteva sembrare a prima vista uscita da una favola di Andersen o da un cartoon di Heidi, e dava l’impressione, o voleva dare l’impressione, di essere capitata lì, fra le montagne, quasi per caso. Anche se, sotto quest’apparente aria da perenne “turista-alpinista”, nascondeva un carattere risoluto; una tenacia non comune che, in primo piano, aveva sicuramente le grandi pareti delle Dolomiti e, non secondariamente, quell’Heinz con cui ormai faceva, e tutt’ora fa, coppia e cordata fissa. La storia racconta che i nostri due baldi giovani, in quel primo incontro con il Colodri, furono sconfitti dalla selva di fitti rovi che proteggeva la policroma paretona. Senza rimpianti fecero dietrofront.

Fin qui nulla di strano, le Dolomiti erano un richiamo straordinario e, in fin dei conti, erano pur sempre la loro casa. Poi, come abbiamo detto, l’arrampicata si coniugava solo con alpinismo e grandi montagne. Nonostante tutto però qualcosa evidentemente era già stato scritto nel loro destino, e molto doveva ancora succedere tra quei due e le rocce di Arco. Come sia accaduto nessuno lo sa poi spiegare veramente. A volte solo delle congiunzioni astrali possono dire i perché, e anche gli stessi protagonisti hanno visioni diverse di quel che è stato. Certo è che ritornarono ad Arco. E non più da soli. Chi ricerca il nuovo a volte non sa cosa cerca, e chi vuole qualcosa di diverso s’incontra spesso con chi ha visioni non usuali. Fu così che, poco dopo, e quasi per magica coincidenza, si ritrovarono in quattro ad esplorare quelle rocce e quelle pareti di Arco, su cui mai nessuno aveva pensato di metter mano. Di Heinz e Luisa abbiamo detto. Quindi, per proseguire, abbiamo bisogno di presentare gli altri fondamentali, e pur sempre inconsapevoli, inventori del “nuovo” che insistentemente bussava alle porte dei loro sogni.

Maurizio, alias Manolo, era già famoso per le sue avventure verticali tra le pareti delle Pale di San Martino, ma non solo. Lì, con un gruppetto di amici fidati, aveva sovvertito tutti i santi crismi dell’andare per montagne e pareti. Con l’arrampicata aveva un rapporto istintivo e, se San Francesco parlava alla natura, lui parlava alla roccia. Con lei s’intendeva alla prima carezza. E’ un dono che pochi hanno. Una capacità che in Manolo s’unisce ad un senso quasi naif della vita e dello stare in mezzo alla natura. D’altra parte, ci sarà un motivo per quell’appellativo di Mago (della scalata) per il quale, ancor oggi, più d’uno rivendica la paternità?

Il quarto moschettiere, Roberto, era il più piccolo, il più giovane tra i giovani del gruppo. L’unico ad abitare tra le rocce di Arco. Della nostra neonata banda forse era il meno conosciuto, anche se nel ’79, sul Colodri, aveva aperto la “Renata Rossi” - con Furlani, Piffer e Giacomelli e la “White Crack” (sempre con Giacomelli). Due classicissime, specialmente la prima, dell’epoca. Della voglia di vivere, della simpatia, dell’inarrestabile e insaziabile sete d’arrampicata di Roberto si potrebbe dire molto. Ma, visto che sono perfette per continuare la nostra storia, prendiamo a prestito le parole di Heinz: “Roberto più di tutti noi ha veramente dedicato la sua vita all’arrampicata. La sua dedizione non conosceva compromessi, lui avrebbe dovuto nascere negli anni ‘60 in America e sarebbe stato un perfetto personaggio di Kerouac”.

Lo spirito on the road di Kerouac, appunto. Da cui gli anni ’70, e di conseguenza gli ’80, portavano ben impressa la memoria, e i segni. Per i nostri non si trattava però di storie ambientate sui nastri d’asfalto delle free ways o nelle down towns americane, ma di spazi e cieli aperti, e naturalmente di tanta vergine roccia, sullo sfondo degli uliveti che la brezza del Lago faceva cantare.

Sembra troppo lirico? Troppo paradiso terrestre? No, se si pensa per un attimo ad Arco. Neanche un po’ se pensate che avevano tutto lo sconosciuto calcare del Sarca a loro completa ed esclusiva disposizione. Cosa potevano volere di più degli inconsapevoli nuovi arrampicatori? Poi, e non bisogna mai dimenticarlo, quei quattro “avevano una missione da compiere”, se non proprio per Dio - come nel 1980 recitavano i “Blues Brothers” dagli schermi dei cinema - senz’altro per se stessi. Per la loro felicità, che per quei tempi - e per sempre! - è un bene inappagabile. Tanto inappagabile che, se poi ci si pensa un po’, sta benissimo insieme con la ricerca di libertà che la banda, e quell’epoca, aveva nel DNA.

In verità, ora, qualcuno potrebbe cavillare affermando che il termine giusto per quello che, citando ancora Kerouac, quei “vagabondi del Dharma” cercavano era la “libera”, e non la “libertà”. Ma per la nostra storia poco importa: ogni invenzione e ogni ricerca vera porta alla libertà, o almeno così allora ci piaceva pensare, e così continuiamo ad affermare anche ora.

Comunque sia, è incontestabile che l’esplorazione cominciò presto a dare i suoi frutti. Il tesoro di roccia e le intenzioni dei nostri esploratori si svelavano, passo dopo passo, con il nuovo gioco che i quattro andavano costruendo. Un gioco con regole ben precise che, quegli argonauti del vuoto, cominciarono a imporsi fin dall’inizio, e che perfezionarono mano a mano che s’immaginavano e poi risolvevano problemi sempre più difficili. Dove per problemi si devono intendere delle levigate, impossibili, sempre più verticali pareti, e un’arrampicata che andava ben oltre tutte le difficoltà fino a quel momento superate.

di Vinicio Stefanello (dal libro: Rock Master - L'arrampicata ad Arco edito nell'agosto 2005)

>>> Vai alla seconda parte di Liberi di arrampicare la scoperta della roccia di Arco




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