L'antisociale e l'arrampicata

Come è cambiata l'arrampicata dagli anni '70 ad oggi, ovvero l'arrampicata al tempo dei social. Di Maurizio Oviglia
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Da soli con se stessi. Tuolumne Meadows, California
Maurizio Oviglia

Ho scoperto l’arrampicata nei cosiddetti “anni di piombo”. Era al tempo del liceo, ma contavo più le volte che non si entrava a scuola che quelle in cui si faceva regolare lezione. C’era sempre sciopero, o per una ragione o per l’altra, e quando si entrava c’era assemblea o autogestione. Per alcuni ragazzi, tra cui io, arrampicare era diventata così una fuga dal quotidiano, un modo per evadere una realtà sociale “pesante” in cui impegnarsi voleva dire farlo senza compromessi. O ti buttavi a capofitto in quelle lotte sociali o evadevi, cercando altrove la tua dimensione.

Ma era anche il tempo della nascita delle radio libere. A casa avevo una vecchia radio, ereditata dai miei nonni. Era grande quasi come una valigia, occupava un intero vano del mobile. La musica allora non si scaricava da internet, né si stava con le cuffiette a guardare nel vuoto o la si ascoltava sull’autobus ritmando il tempo con le dita… immaginatemi sdraiato sul tappeto con la mano sulla manopola a cercare di sintonizzarmi con la radio libera più “alternativa”, cioè quella che programmava le canzoni più scomode e meno convenzionali. Tra esse, ricordo, ce n’era una che mi aveva particolarmente colpito. Era intitolata “l’antisociale” e nel testo mi ci riconoscevo in pieno. Al punto che sembrava scritta apposta per me!

Quando c’era sciopero e davanti all’entrata si materializzava il mitico “picchetto” che impediva agli studenti più “secchioni” di entrare, io… per dirla con Francesco Baccini, facevo la faccia impegnata e seria ma dentro… ridevo! Specialmente se il tempo era bello. Con la bici potevo raggiungere i massi erratici e scalare finalmente un po’ da solo oppure, nel migliore dei casi, sarebbe venuto con me Livio, un mio compagno di classe. Allora magari qualche via… L’uscita in tre difficilmente era contemplata, si era già in troppi e alle soste si aspettava in silenzio, mica si chiacchierava e schiamazzava come oggi! Eravamo tutti un po’ antisociali a quei tempi e, anche se si scalava insieme, raramente ci si “apriva” ai compagni. La domanda “perché scali?” non era nemmeno proponibile e non ricordo che mai un arrampicatore di quei tempi abbia mai osato rivolgerla al suo compagno di arrampicate. Erano cose che chiedevano gli altri, quelli del mondo “là fuori”. Quelli che non capivano, e che mia avrebbero potuto capire. In pratica si era perfetti sconosciuti, anche se compagni di cordata. D’altra parte scalare era una questione strettamente personale, ma non un modo di dire, lo era davvero! Eravamo in pochi e ci sentivamo “diversi”, non più intelligenti e nemmeno più fortunati, semplicemente noi con l’uomo comune delle città non c’entravamo nulla. Vivevamo in un mondo parallelo.

Non mi stupisce il fatto che in questi ultimi 40 anni l’arrampicata sia cambiata, è ovvio che sia così, ci mancherebbe! Ma ad essere cambiato, mi sembra, è proprio ciò che è alla base dell’arrampicare, la motivazione. Noi volevamo evadere, fuggire, oggi invece si cerca il contrario, l’integrazione, l’aggregazione. Anzi se questa manca viene meno la molla che spinge a muoversi. Già 20 anni fa qualcosa stava cominciando a cambiare: i gruppi alla base delle falesie si erano fatti sempre più numerosi, non erano più arrampicatori singoli che a stento si salutavamo e rimanevano chiusi in se stessi, ma erano diventati dei veri e propri clan, al seguito di differenti leader. C’era molta competizione, ed essere in un clan piuttosto che nell’altro, voleva dire schierarsi. C’erano re, regine, alfieri e persino scudieri, ancora fieri di esserlo stato.

Oggi tutto questo si è ulteriormente evoluto: ci sono aggregazioni più o meno grandi di climbers (senza leader) che fanno capo ad una palestra, ad un gruppo facebook, whats app o ad un’associazione, che si muovono compatti da una parete all’altra. A volte, questo muoversi, assume i connotati di una vera e propria transumanza, seguendo i cicli stagionali. Lo scopo non è più quello di fuggire dalla realtà o realizzarsi, ma piuttosto quello di socializzare. Infatti, buona parte del tempo viene dedicato al bar, luogo dove ci si conosce finalmente di persona e si può parlare finalmente a quattr’occhi, non solo attraverso uno schermo. Ma una componente sportiva non è scomparsa del tutto.... Mentre c’è chi va ad arrampicare per trovare un partner ed uscire dalla scomoda situazione di single, ci sono ancora quelli che che son lì per realizzare! Le motivazioni spaziano dalle ambizioni personali e sociali (chi fa l’8a è pur sempre uno che conta più di uno che fa il 6b) alla gara a punti su internet…

Per appagare le proprie ambizioni oggi, non si è più i lupi solitari di una volta, si caccia in gruppo. Nel “branco” si delineano allora alcune figure chiave: c’è il “montatore delle vie”, solitamente uno che proviene dal passato e non ha paura di mettere i rinvii dal basso. Lui è incaricato di posizionare i moschettoni e allungarli, qualora i chiodi siano giudicati troppo distanti. Se non si trova una persona abbastanza ardita per fare questo lavoro non è un problema così grave, oggi ci son le canne estendibili… Poi, dopo il montatore, è il turno di quello che ha già “chiuso” la via, e che solitamente è incaricato di spiegare i movimenti ai pretendenti, segnare le prese con righe e bollini, assisterlo nei tentativi. Ogni “giro”, perché esiste anche il “contagiri” anche se difficilmente lo crederete, viene scandito da urla che si intensificano nel momento in cui il candidato non ce la fa più e sta per cadere. Anche se è palese che ormai è simile ad un tronco di ghisa, con i gomiti all’infuori ad “ali di pollo”, e che cadrà un attimo dopo… da sotto vengono continuamente lanciate urla sul tipo di “dai dai non mollare!” oppure direttamente in spagnolo “a muerte!!!” Quest’ultima non sortisce effetti migliori, ma è molto meglio, perchè rende noto agli altri che sei stato anche in Spagna, nelle falesie di tendenza…

Un altro fenomeno di socializzazione che ha preso grande piede in questi ultimi anni sono i meeting. Ora mai ce n’è uno alla settimana ed è diventato necessario assumere una segretaria che tenga l’agenda, altrimenti si rischia di saltarne qualcuno. Il meeting in sè non è una cosa negativa, anzi è un bel momento di socializzazione e condivisione, ciò che è curioso è il fatto che oramai sia diventato una specie di sagra paesana, dove si va più che per arrampicare per mangiare ed incontrare gente. Esistono ormai meeting per ogni genere di attività, dal boulder al trad, dal deepwater alle cascate di ghiaccio. E’ molto buffo incontrare delle persone che non sono appassionate di questi giochi “particolari”, anzi sono appassionate di tutt’altro, ma quel giorno eccoli che si trasformano improvvisamente in street-boulderisti o trad climber, all’insegna del “famolo strano” almeno per una volta! Fondamentale è poi il selfie con il campione di turno, invitato per l’evento, oppure le 250 foto da condividere sui social il lunedì, non ha importanza se in parete… va bene alche al bar o in pizzeria! E per favore, non siate troppo normali quando vi scattano un selfie, basta strabuzzare un po’ gli occhi o fare un segno con le dita, viene meglio!

Eh sì, l’arrampicata è cambiata di molto. Mi piacciono i meeting ed i gruppi alla base delle falesie, mi ci ritrovo spesso anch’io, ma dentro di me rimango quell’antisociale un po’ orso degli anni del liceo. Continuo spesso ad andare da solo ed assaporo quei momenti, in cui mi piace ritrovarmi solo con la roccia o la montagna in generale. Alcuni (questa volta climbers) mi chiedono sempre se non abbia paura ad andare in giro da solo e se il Soccorso Alpino sia stato allertato… Ma sapete qual è il colmo? La famosa canzone degli anni settanta terminava così “in un’isola deserta, voglio andare ad abitare, è nessuno mi potrà più disturbare…” Beh, posso dire che il destino è stato con me magnanimo. In questo mi ha esaudito!

Maurizio Oviglia

>> Il sociale e l'antisociale - Francesco Guccini




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