Spedizione Kirghizistan 2015: vie nuove e ripetizioni sulle 'montagne proibite' del Pamir Alai

Il racconto della spedizione di Gian Luca Cavalli, Pier Luigi Maschietto, Giovanni Pagnoncelli, Edoardo Polo e Marcello Sanguineti nelle valli di Kara Su e Ak Su, nel Pamir Kirghizo (agosto 2015), Pamir Alay, Kirghizistan.
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Kirghizistan 2015 Pamir Alai: L'Asan dalla valle Kara Su
Cavalli, Maschietto, Pagnoncelli, Polo, Sanguineti
Fine luglio 2015: nel giardino di casa mia Gian Luca, Pier Luigi (Pigi), Edoardo (Edo), Giovanni (Pagno), Francesco (Cecco) Vaudo ed io ci gustiamo un piacevole pranzetto: pasta al pesto, preparato con il basilico dell’orto di casa, pomodori e insalata - anch’essi rigorosamente dall’orto - conditi con l’olio di famiglia, uova di produzione propria, focaccetta alla genovese con e senza cipolle e focaccia al formaggio "tipo Recco". Il tutto accompagnato da Bianchetta, Vermentino e Pigato. I miei amici alternano parole di apprezzamento a mugolii di piacere enogastronomico. Oltre gli ulivi lo sguardo spazia sul Golfo del Tigullio; nelle nostre menti la silhouette del Monte di Portofino si confonde con le pareti e le creste del Pamir Alai, quelle che ai tempi dell’URSS erano le "montagne proibite" (P. Pozzolini Sicouri e V. Kopylov, "Montagne Proibite", Vivalda, 1994).

Due settimane dopo, eccoci su un volo da Istanbul a Biškek, la capitale del Kirghizistan. Siamo in quattro: Gian Luca, Edo, Pigi ed io. Purtroppo, Cecco ha dovuto rinunciare e Pagno ci raggiungerà una decina di giorni dopo. A Biškek, fondata nell’ultimo quarto del 1800, c’è ben poco da vedere: in sostanza, si tratta di un agglomerato di palazzi di aspetto a dir poco discutibile. Nel centro della città alcune ricostruzioni di yurte - le abitazioni mobili di molti popoli nomadi dell'Asia - sono circondate da un mercato di oggetti artigianali. Forse si tratta degli unici elementi di Biškek che ricordino le origini del popolo Kirghizo. La modestissima offerta storico-artistica della capitale è completata da Piazza Ala-Too - la piazza principale - e dal museo Storico Nazionale. Nulla lascia immaginare che la città, fondata dai Russi nel 1878 con il nome di Pishpek, si trovi nei dintorni della leggendaria Via della Seta. Nonostante l’albergo in cui ci siamo sistemati non sia niente male, non vediamo l’ora di lasciare Biškek per imbarcarci sul volo interno che porta a Batken, la "porta del Pamir Kirghizo".

A Batken il discorso cambia: si tratta di una via di mezzo fra una città e un villaggio. Mi ricorda alcune contraddizioni che ho già vissuto, ad esempio, in India, Nepal, Perù e Bolivia. La via principale, il "ventre di Batken", è una strada a tratti sterrata e a tratti asfaltata, che corre tra due file di "costruzioni" ottenute affiancando e impilando i container lasciati dai Russi… Nel pomeriggio Zhunusbek, il nostro "contatto" in Kirghizistan, ci ospita nella sua casa. Ci presenta la famiglia e ci offre un pasto tipico: plov, (riso condito con carne fritta e bollita, cipolle, carote, ceci e uva passa), pane piatto arabo, verdura, albicocche, fichi, datteri e anguria a volontà. Dopo pranzo gli chiediamo se può procurarci una cartina un po’ più dettagliata di quel poco che siamo riusciti a trovare in Italia e in rete. "Sure!", esclama nel suo inglese approssimativo, con una punta di soddisfazione. Si allontana e poco dopo ritorna con una sorta di papiro, che stende sul pavimento con gesti solenni, senza celare l’orgoglio di chi sa di possedere qualcosa di difficilmente reperibile. In effetti la cartina è dettagliata, ma con le scritte rigorosamente in caratteri cirillici… Individuiamo il percorso per il campo base, ma Zhunusbek frena il nostro entusiasmo e ci spiega che le alluvioni della primavera scorsa hanno distrutto i ponti di legno costruiti dai pastori per raggiungere i pascoli della valle Ak Su. Inoltre, le numerose frane hanno ridotto male alcuni sentieri e reso molto complicato l’accesso al cuore del massiccio, dove intendiamo attrezzare il campo base, nella regione di Karavshin. In sostanza, invece del giorno e mezzo di trekking originariamente preventivato, l’avvicinamento ci costerà mezza giornata in jeep e tre giorni di cammino, a botte di otto ore al giorno, con il superamento di quattro passi fono a 4000 metri di quota e un logorante "su e giù"…

L’indomani mattina partiamo in jeep da Batken alla volta del villaggio di Uzgurush, dove, dopo aver superato un check-point militare (stiamo entrando in una zona strategica, al confine con il Tagikistan), trascorriamo la notte ospiti dei local. Il giorno dopo inizia l’avvicinamento alla regione di Karavshin, da dove originano le valli Ak Su e Kara Su. Per il trasporto del materiale abbiamo a disposizione quattro cavalli e alcuni asini. Dopo 4000 metri di dislivello in salita e 3600 in discesa, arriviamo all’ingresso della Kara Su. Sulla sinistra orografica spunta la parete della Yellow Wall (3800m), 600 metri di granito dalle tonalità dorate. Sul versante opposto fa capolino l’enorme silhouette dell’Asan (4230m). Tutto intorno a noi, pareti di granito "a gogo". Sullo sfondo il Piramidalny Peak (5509m), massima elevazione della regione di Karavshin, chiude perentoriamente la valle con un’impressionante parete di ghiaccio e misto. Il tutto basterebbe per creare una cartolina stile "panorama dello Yosemite visto da Tunnel View", ma, dopo esserci addentrati nella Kara Su, scopriamo che c’è ben altro! Piazziamo il CB al termine di una giornata piovosa, montando le tende in quattro e quattr’otto per evitare di bagnarci dalla testa ai piedi. L’indomani il tempo migliora e riusciamo ad intuire cosa ci circonda. La Yellow Wall e quel che si vedeva dell’Asan dall’ingresso della Kara Su sono ben poca cosa rispetto al mare di granito che si trova tutt’intorno a noi. Guardando verso la testata della valle, alla nostra destra la Yellow Wall è seguita da pareti ancora più alte fatte di granito argentato, note nell’insieme come Silver Wall. Poi ci si inoltra nel circo glaciale che termina con il Piramidalny Peak (5509m) e il Kapacy (5310m) – "Accidenti!", ci viene da pensare, "abbiamo lasciato a casa il materiale da ghiaccio & misto!"… Ma la vera meraviglia è alla nostra sinistra, dove la "triade di granito" rappresentata da Odessa (4810m), Kotina (4,520m) e 1000 Years of Russian Christianity (4507m) è affiancata dai colossi Asan (4230m) e Usen (4379m) - i "gemelli di Kara Su". Lo spettacolo è in grado di destabilizzare l’autocontrollo di qualunque alpinista: pareti di granito fino a 1200 metri di altezza si susseguono in un ambiente estremamente selvaggio, a confronto del quale lo Yosemite sembra un parco-giochi. I trenta minuti di avvicinamento a El Capitan sono sostituiti da tre giorni di trekking a partire da un remoto villaggio e una copia di pastori semi-eremiti prende il posto degli attenti ranger del parco americano. Come se non bastasse, le accuratissime relazioni yosemitiche di SuperTopo, con tanto di dettagli su misura e quantità dei Camalot richiesti da ogni tiro sono sostituite dal "poco-più-del-nulla", fatta eccezione per una manciata di descrizioni approssimative, la maggior pare delle quali in russo: per interpretarle, i miei rudimenti di lingua ceca sono ben poco utili…

Se la valle di Ak Su è poco frequentata (negli ultimi anni un certo numero di cordate vi si è recato per ripetere la famosa Perestroicrack), la Kara Su è quasi sconosciuta: a parte la via classica sulla Yellow Wall, la maggior parte delle sue pareti è nota solo al ristretto pubblico dei Russi che partecipano ai campionati alpinistici – spesso teatro di incidenti mortali (come quest’anno, alcuni giorni prima che arrivassimo). Le pochissime relazioni disponibili sono in caratteri cirillici. Oltre ai problemi di comprensione, va tenuto conto che la scala delle difficoltà è chiusa al grado "6b russo". Il problema consiste nel fatto che "6b russo" può voler dire un mare di cose, mescolando le difficoltà su roccia con quelle su ghiaccio, libera e artificiale, difficoltà tecnica e impegno d’insieme. Insomma: al CB di Kara Su abbiamo le idee molto confuse su cosa ripetere e dove provare ad aprire… Per fortuna ci vengono in aiuto tre polacchi, Pawel, un altro Pawel e Lukasz, che masticano un po’ di russo e, se non altro, sanno sconsigliarci alcune pareti. Maggiori dettagli e informazioni più precise sono un mistero anche per loro: le cartine e le relazioni russe sono a dir poco approssimative, per non dire "fatte appositamente per mettere nei guai"…

Il giorno dopo aver montato il CB ci dedichiamo ad approntare una corda tesa che consenta di attraversare il torrente, per passare sulla sinistra orografica: le abbondanti piogge della primavera hanno distrutto il ponte in legno che metteva in comunicazione i due versanti della valle. Edo viene optato all’unanimità per attraversare in mutande le gelide acque dell’impetuoso torrente, assicurato in vita con una corda. Nei giorni successivi, andata e ritorno dalle pareti di quel versante della valle richiederanno un attraversamento con imbracatura su "tirolesa", stile quella in Patagonia per proseguire dal CB De Agostini verso il Cerro Torre.

Assicuratoci il passaggio sulla sinistra orografica della valle, per prendere confidenza con l’arrampicata locale scegliamo come primo obiettivo la "Diagonal Route", sulla magnifica Yellow Wall: circa 600 metri non oltre il 6a, a parte un tiro di 6a+ e uno che arriva fino al 6c/A1. Naturalmente le protezioni in loco "si sprecano": qualche chiodo – un paio dei quali, in sosta, togliamo facilmente con le mani e ci portiamo a casa per ricordo – e una sorta di spit, che io chiamerei più correttamente "occhiello da tapparella" sul passo chiave, che ci affrettiamo a proteggere con un bel Camalot #5, ben più affidabile. Per la discesa facciamo l’errore di fidarci di un vago schizzo riportato su un’ancor più approssimativa relazione russa. Ce l’hanno affibbiata gli amici cechi durante una serata in cui hanno voluto celebrare il nostro incontro con lo slivovice, un distillato di prugne pericolosamente simile alla nostra grappa – accidenti a quando ci siamo fidati degli slavi in preda ai fumi dell’alcool! (Ma, a pensarci bene, noi non eravamo da meno…) Risultato: una notte trascorsa disarrampicando su terreno poco piacevole e improvvisando doppie su arbusti e ancoraggi di fortuna. Insomma, il Pamir Alai ci ha dato il benvenuto…

Dopo un giorno di riposo trascorso a binocolare le pareti della valle, decidiamo di ripetere una via sulla Silver Wall, la seconda grande parete che s’incontra sulla sinistra orografica della Kara Su. Pawel & soci ci hanno confidato che qualche anno prima alcuni loro amici vi hanno aperto una via molto estetica, della quale ci rifilano una relazione di massima. Ci dicono che, probabilmente, quella linea non è ancora stata ripetuta e che troveremo ben poco materiale in posto. Gli ingredienti per l’ingaggio ci sono! Ci caschiamo ancora (questa volta addirittura senza bisogno di slivovice): la scelta è fatta! Scopriamo che gli amici polacchi non sbagliano: su 800 metri di via non c’è assolutamente nulla, neppure in sosta. Neanche l’ombra di chiodi, cordini e simili: da queste parti, spesso ripetere è come aprire… Purtroppo, Edo deve rinunciare e calarsi dopo un paio di tiri, a causa di problemi intestinali. A metà via, quando "Opposite to Asan" – questo è il nome della via di cui, probabilmente, stiamo facendo la prima ripetizione – devia leggermente a destra, fa capolino sulla sinistra un diedro troppo estetico per essere ignorato. Non ci facciamo ripetere l’invito due volte: nasce così un’estetica e tecnica variante di 200 metri, per la quale PiGi, ricordando alcune battute dei giorni precedenti, propone il nome "Bye-bye, Globo de Gas!": max 6c/A1, delicato da proteggere. Bivacchiamo in cresta, all’uscita delle difficoltà principali, a circa 4000 metri di quota. Per questa salita la nostra dotazione non prevede sacchi a pelo: Gian Luca ed io abbiamo un leggerissimo sacco da bivacco a testa; Pigi, che si è portato solo un alluminato (i giovani sono sempre ingenuamente ottimisti…), trascorre la notte in mezzo a noi due, abbracciato un po’ all’uno e un po’ all’altro… La discesa è in perfetto "stile Pamir Alai": otto ore trascorse attrezzando una serie di doppie a dir poco rocambolesche. Rientrati al CB, il giovane Abdimannap – nostro fidato e simpaticissimo cuoco e guardiano di campo – ci accoglie a braccia aperte (stava iniziando a preoccuparsi un po’…) e ci prepara un pranzo abbondante, per aiutarci a recuperare i pasti saltati.

Messe a segno due ripetizioni e una bella variante, è arrivato il momento di far fare due passi in parete al trapano che abbiamo portato dall’Italia e aprire una via. La nostra intenzione è quella di ridurre al minimo il ricorso agli spit, idealmente usandoli solo in sosta e proteggendosi ovunque possibile con friend e nut o, al massimo, con chiodi. Come obiettivo scegliamo lo Small Asan: anche se è solo il "fratello minore" dell’Asan, con i suoi quasi 4000 metri di quota offre un’interessante parete di circa 600 metri, sulla quale sembra esistere un solo itinerario, all’estrema sinistra: lo spigolo ovest. Per il resto, la parete presenta due diedri molto attraenti. Edo, Pigi, Gian Luca ed io iniziamo portandoci a casa una via che segue per buona parte il diedro più vicino allo spigolo ovest. Nasce così "Happy Birthday, Horses!" (in onore del compleanno di Gian Luca Cavalli, pochi giorni prima), una linea di quasi 600 metri realizzata in ottica trad, tranne uno spit di progressione. La salita alterna diedri, placche e tratti atletici, fessure di mano e off-width; insomma, ce n‘è per tutti i gusti. Dalla vetta lo sguardo precipita su un circo glaciare che ospita una triade di montagne a dir poco impressionanti: le pareti di Odessa (4810m), Kotina (4520m) e 1000 Years of Russian Christianity (4507m) s’impennano per non meno di 1000 metri ciascuna. In discesa attrezziamo dieci doppie piazzando uno spit per sosta.

Rientrati al CB scopriamo che, nel frattempo, è arrivato Pagno. Ora il gruppo è al completo! Dopo un giorno di riposo, facciamo il punto della situazione. Gian Luca ed io vorremmo mettere le mani su Perestroicrack, sul Peak Slesova – la Russian Tower – nella valle di Ak Su. Le alluvioni della primavera hanno distrutto i ponti e reso dubbia la possibilità di accesso a quella valle (la situazione logistica è ben diversa da quella dell’anno precedente, quando hanno scalato in Ak Su Luca Schiera e Matteo De Zaiacomo); nonostante ciò, siamo decisi a giocarci l’ultima parte della spedizione puntando a quell’obiettivo. Edo, Pigi e Pagno, invece, decidono di restare in Kara Su e provare ad aprire un’altra via.

Dopo aver contrattato con Asulbek il prezzo per accompagnarci in Ak Su con due cavalli e venirci a prendere dopo cinque giorni, Gian Luca ed io salutiamo i nostri amici e partiamo per un periodo di totale isolamento. Se in tutta la Kara Su siamo soltanto Edo, Gian Luca, Pagno, PiGi ed io più il "cuoco-guardiano-di-campo" Abdimannap, insieme a un turco e un tedesco dalle idee alpinistiche poco chiare, in Ak Su Gian Luca ed io siamo soli. Asulbek ci garantisce soltanto l’accompagnamento fino a un certo punto del sentiero, dove sa che i cavalli possono arrivare. Poi ci dovremo arrangiare.

Arrivati al passo che dà accesso alla Ak Su provenendo dalla Kara Su, spunta improvvisamente il Peak Slesova. Sembra lanciare una sfida, così come tante famose torri e pareti delle nostre Alpi, con la differenza che, anche a causa delle frane della primavera precedente, ci troviamo a tre giorni e mezzo di trekking dal villaggio più vicino e non abbiamo alcun collegamento. Scopriamo che nessun’altra persona è in Ak Su, tranne una coppia di pastori. Dopo alcune ore e varie deviazioni per trovare un percorso tra frane e parti di sentiero letteralmente divorate dalla piena del torrente, Asulbek si ferma e con pochi, ma chiarissimi, segni – accompagnati da qualche incomprensibile parola in lingua kirghiza – ci fa capire che da lì in poi proseguire è affar nostro. In quel punto attraversare il torrente è praticamente impossibile: è larghissimo e le acque sono impetuose. Gian Luca ed io camminiamo quasi un’ora verso monte per trovare un possibile guado, ma non c’è nulla da fare. Che presa in giro! Il Peak Slesova è proprio di fronte a noi: dall’altra parte del torrente, una ripida morena porta all’attacco della sua incredibile parete, incisa dalla Perestroicrack, uno dei sistemi di fessure più lunghi del mondo. Infinitamente vicina, ma inesorabilmente lontana…

Proprio quando ci siamo quasi rassegnati all’impossibilità di raggiungere l’altra sponda del torrente, spunta all’orizzonte un tipo, in groppa a un asinello. Mi sembra la versione kirghiza del Don Quixote di Cervantes… Gli corro incontro, gesticolando a più non posso. Appena ci incontriamo, sembra leggere nel mio pensiero: Nisir, questo è il suo nome – un pastore semi-eremita di poco più di vent’anni – ci fa capire che l’indomani mattina può trasportare noi e il nostro materiale sull’altra sponda, grazie all’aiuto del suo "magico" asinello. In cambio ci chiede un po’ di soldi e qualche spezzone di corda, che gli lasceremo a fine salita. Non abbiamo alternativa e accettiamo, non molto convinti dell’efficacia della sua soluzione, visto quanto è impetuoso il torrente... Approntiamo un bivacco di fortuna e l’indomani mattina, durante l’attraversamento in sella all’asino, abbiamo più volte il dubbio di aver fatto una cavolata – in pratica, questa spiacevole sensazione fa capolino ogni volta che siamo sul punto di cadere nelle rapide.

Arrivati sull’altra sponda, quasi increduli per avercela fatta, prepariamo il CB, poi portiamo il materiale in cima alla morena, all’attacco della Perestroicrak. Dopo un giorno di riposo, partiamo per effettuare la salita. Non abbiamo alcuna informazione sul meteo e il satellitare non funziona. Ci fidiamo dell’istinto. Il primo giorno arriviamo al posto da bivacco a L13; durante la salita, a tiri alterni, il primo di cordata recupera il saccone su una corda statica e il secondo sale sulle jumar lungo una dinamica, assicurato su un’altra dinamica. Le tre corde sono motivate dal fatto che dopo L13 intendiamo lasciare la statica e il saccone al posto da bivacco e dalla paura di perdere una corda per incastri. Il giorno dopo saliamo la seconda parte della via senza saccone da recupero, poi iniziamo le calate. I nostri timori non erano infondati: una corda s’incastra un paio di volte e dobbiamo tagliarla. Per fortuna, al posto da bivacco ci aspetta la statica... Dopo molte doppie, vari chiodi piantati e numerosi cordoni tagliati per rinforzare le soste (i futuri ripetitori ci saranno grati!) e altri incastri di corde, arriviamo alla base e ci carichiamo in spalla gli enormi zaini, per rientrare in fondovalle. Si mette a piovere e Nisir – che ci accoglie correndoci incontro gesticolando abbondantemente – ci invita a passare alcune ore nella sua grotta. Prima, però, vuole che io lo segua per dare il sale alle capre. Lo faccio malvolentieri: piove, ho freddo, sono stanco e ho una giustificatissima voglia di non fare sano un c….o di nulla. Ma l’attesa viene compensata: dopo aver accudito alle capre Nisir ci prepara una gustosa cenetta a base di pasta, verdura, carne e yogurt acido, durante la quale chiacchieriamo a lungo bevendo abbondantemente tè. Cerchiamo di capirci alla meglio, con molti gesti, moltissimi versi e poche parole. Ricordo quella serata come una delle più belle che io abbia vissuto: nella grotta di Nisir, di fronte a un fuoco scoppiettante e condividendo un’imprevedibile, improvvisata, ma sincera amicizia.

Dopo sei giorni rientriamo in Kara Su e riabbracciamo Edo, Pigi e Pagno, che, nel frattempo, si sono dati da fare sullo Small Asan. Ne sono uscite una variante di oltre 300 metri allo spigolo ovest, battezzata "Waiting for Andrea" (max 6a+; il nome è stato suggerito dall’imminente paternità del Pagno) e una seconda via nuova sulla parete ovest, lungo un diedro a destra della via che avevamo aperto un paio di settimane prima: "Italian Corner", quasi 550 metri con il couloir di accesso, max 6b+. Mentre Gian Luca ed io eravamo "in trasferta" in Ak Su, i nostri amici hanno anche tentato di aprire una linea nuova su una torre posta tra la Yellow Wall e la Silver Wall, dedicandole due giorni di tentativi intervallati da un bivacco alla base della parete. Il gran diedro che rappresenta la direttrice della prima parte della salita si è rivelato molto più duro del previsto e la fessura di fondo non ben proteggibile. Questo li ha costretti a piazzare sei spit su 40 metri. Durante il secondo giorno del tentativo, le poche ore di luce ancora a disposizione, i pochi spit rimasti e l’inesorabile avvicinarsi del trekking di rientro li hanno indotti a rinunciare a terminare la salita, nonostante si intuisse che la seconda parte della linea sarebbe stata più facile.

La vacanza alpinistica volge al termine. Le condizioni meteorologiche - che, a parte i primi giorni, ci sono state favorevoli – iniziano a cambiare: l’alta pressione dà segni di cedimento e, durante il trekking di rientro, ci prendiamo la giusta dose di vento, freddo e neve. Ormai, però, poco importa: il Pamir Alai è stato generoso con noi, forse anche perché ci siamo avvicinati alle sue montagne con la testa bassa. In entrambi i sensi: con tanta umiltà, ma anche con forte determinazione.

Marcello Sanguineti (CAAI)

SALITE EFFETTUATE DURANTE LA SPEDIZIONE
KARA SU
Yellow Wall (3800m), parete E: "Diagonal Route" (600m, 6c/A1 max) Cavalli-Maschietto-Polo-Sanguineti
Silver Wall (4000m), parete E: "Opposite to Asan" (650m + 150m di cresta; 6a+ max) con apertura della variante "Bye-Bye, Globo de Gas!" (200m; 6c/A1 max) Cavalli-Maschietto-Sanguineti
Small Asan (3900m), parete O: apertura della via "Happy Birthday, Horses!" (600m, 6b+ max) Cavalli-Maschietto-Polo-Sanguineti
Small Asan (3900m), spigolo O: apertura della variante "Waiting for Andrea" (330m; 6a+ max) Maschietto-Pagnoncelli-Polo
Small Asan (3900m), parete O: apertura della via "Italian Corner" (380m + 150m di couloir; 6b+ max) Maschietto-Pagnoncelli-Polo

AK SU
Peak Slesova o Russian Tower (4240m), parete O: "Pereistroicrack" (800m; 7a/b max) Cavalli-Sanguineti

Thanks to:
CAI Sezione di Biella
Karpos/Sportful
Wild Climb
Salewa
Wild Country
Bandavej
Tecnomeccanica Biellese
Yukon - Spazi & Servizi
Associazione Cantieri d'Alta Quota
Lions Club Valli Biellesi
Sig. Ettore Gremmo




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