Questione di stile: Meroi, Pasaban, Kaltenbrunner e tutti i 14 Ottomila

Edurne Pasaban al Kanchenjunga e Gerlinde Kaltenbrunner al Lhotse hanno raggiunto la vetta della loro 12a montagna oltre gli Ottomila metri. Nives Meroi con Romano Benet ha dovuto rinunciare alla vetta del Kanchenjunga restando a quota 11. Le riflessioni di Manuel Lugli sulla “corsa” al femminile per completare il tour delle 14 montagne più alte della terra.
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Nives Meroi in vetta al K2
arch. Meroi
Ho seguito i loro movimenti come sempre, su questo Kangchenjunga, come sempre è accaduto dal 1998 in avanti, dal Nanga Parbat. Cioè da quando ho cominciato ad occuparmi della logistica delle spedizioni di Nives Meroi e Romano Benet. Qualche volta sono andato con loro. Prima, nel 1994 al K2 Nord, quando tutto è cominciato, anche la nostra amicizia e poi dopo, nel 1996 all’Everest Nord. Altre volte li ho seguiti ai campi base di alcuni ottomila, al Lhotse, al Dhaulagiri, per curare che tutto funzionasse, che il cammino fosse regolare. Non facile, né meno faticoso, perché questo non fa parte dello stile di Nives e Romano. Perché quando non usi né sherpa d’alta quota, né ossigeno; quando ti porti i campi in spalla, spostandoli mentre sali, e riportandoli giù , uno ad uno, sulle spalle, spazzatura compresa; quando scegli vie più dure o nuove mentre sarebbe facile andare lungo le normali; quando sali il K2 e sai che sulla montagna non c’è nessun altro, ma proprio nessuno; quando porti in spalla la tua compagna con una gamba rotta, col vento invernale del Makalu che ti soffia sul culo; quando scegli le montagne che ti piacciono di più, in quel momento, senza pensare troppo se sia opportuno per i tuoi piani. Ecco quando agisci, quando vivi così non c’è nulla di facile.

Allora anche questa volta li ho seguiti, da qui, con l’attenzione e l’apprensione usuale. Non tanto per la loro incolumità, sebbene le mete previste non fossero certo prive di rischi. La mia era un’apprensione più “tecnica”, legata ai tempi, alla logistica, alla possibilità che le cose diventassero troppo complicate, come di fatto poi è stato. Temevo un po’ certi aspetti del loro modo di andare in montagna, del loro carattere, certa umana difficoltà ad attendere. Non tanto per ansia di competizione o sfida in questo inevitabile gioco dei quattordici ottomila, ansia che non gli appartiene. Quanto per la voglia, il desiderio di trovarsi sulla montagna a salire, che è poi un’ansia comune a tanti himalaysti che ho concosciuto, anche ai più esperti come loro.

Certamente il rimpallo di mete dal Kanchenjunga all’Annapurna sud e poi di nuovo al Kanchenjunga, vista la tremenda difficoltà di affrontare praticamente soli l’immenso deserto verticale della parete sud dell’Annapurna, non ha facilitato il loro viaggio. Ed anzi, credo abbia molta parte nel loro “fallimento” al Kanch.

Ma quando ho saputo della rinuncia alla vetta da parte di Nives – che da quel che si può capire era in condizioni di salute più che buone - ho capito che forse avevano qui raggiunto, paradossalmente, il loro successo più puro di coppia coesa. Cohaerere, il verbo latino da cui il participio “coeso” deriva, significa “essere uniti, avere connessione”. Se uno dei due si ferma e l’altro prosegue, non c’è più coesione, l’unità di forza si rompe ed allora rimane una sola cosa: ridiscendere insieme. Credo che Romano abbia provato, forse per la prima volta nella sua vita alpinistica ed umana, il peso della rinuncia e della paura insieme. Paura di non farcela: non solo e tanto di non farcela a raggiungere la vetta, ma addirittura a scendere. E Nives ha fatto l’unica cosa che avrebbe potuto fare con la sua, la loro storia alle spalle: è scesa con Romano. Rinunciando alla cima ormai quasi alla portata. E’stato un “fracàso”, come direbbero gli alpinsiti argentini e chissà quale rumore faceva la frana di quella rinuncia, mentre Edurne Pasabàn, saliva verso la cima coi suoi compagni e i suoi sherpa.

Ma anche gli antipodi di un’impresa, successo e fallimento, possono essere meno distanti se li si esamina da vicino. Nives che sta bene e potrebbe salire, almeno apparentemente senza grandi problemi, scende con il suo compagno di salita e di vita. Di nuovo da soli, ricaricandosi sulle spalle, entrambi, il materiale del campo “mobile”, sedici- diciassette chili portati su e giù in autonomia. Normale, direte voi: sarebbe interessante parlare di cosa è normale e cosa no, nelle nebbie dell’alta quota. Edurne sale con i suoi compagni dal campo 4 e giunge in cima, meritatamente, senza dubbio. Poi inizia anch’essa la discesa, con enorme fatica e sofferenza e si abbassa, in otto ore, fino al campo 3, dove devono giungere altri compagni, sherpa ed ossigeno in aiuto per garantirle quel ritorno al campo base, come già avvenne dopo la sua salita al K2, che altrimenti potrebbe non avvenire. Basta guardare in rete il video del suo arrivo al base per rendersi conto del prosciugamento fisico e psichico operato dall’alta quota su di lei. Ed è qui che, volenti o nolenti, le distanze tra successo e fracàso si accorciano. E’ qui dove la competizione, che pure esiste, secondo me si sfilaccia e perde, se mai ne avesse, il suo senso. Perché alcune cose debbono pure contare, debbono pure avere un loro peso. Altrimenti vale tutto e tutto si livella.

Al Makalu in invernale Romano Benet e Luca Vuerich hanno portato in spalla Nives con tibia e perone fratturati praticamente dal campo avanzato al campo base, senza nessun altro aiuto se non le loro forze ed il supporto del cuoco che andava avanti a preparare il campo per il loro arrivo. Altro che soccorsi dall’Italia, elicotteri e guide alpine. L’unico soccorso dall’Italia erano le mie telefonate per dir loro che forse un elicottero sarebbe arrivato al base in qualche giorno, se il tempo permetteva. Alla fine Nives è volata a Kathmandu, mentre Romano e Luca sono usciti a piedi col materiale, una settimana di cammino. Niente eroismo: semplicemente in Himalaya va così. O almeno dovrebbe.

Gerlinde Kaltenbrunner, apprendiamo, arriva il 20 maggio in cima al Lhotse, suo dodicesimo ottomila senza ossigeno. Eccezionale e fortissima l’austriaca, lo si sa da tempo. Ma anche nel suo caso una piccola, grande differenza in fondo c’è. E la fa suo marito, Ralf Djumovits, guida alpina, grande e meticoloso organizzatore di spedizioni commerciali, il quale, coi suoi sherpa, prepara con cura e perizia teutonica ogni campo per le salite della moglie. Forse anche qui, dunque la differenza di stile non è poi così sottile.

E sì, perbacco, altrimenti vale tutto. Altrimenti si racconta che ogni salita su vie normali e preparate è impresa; che salire con o senza sherpa, con o senza ossigeno in fondo è lo stesso. Che affrontare l’alta quota in stile leggero ha lo stesso valore tecnico di una salita pianificata da un grande team. Fino via via arrivare all’idea che l’himalaysmo “buono” debba avere regole uguali per tutti, che vada incanalato, che si debbano magari fare preselezioni attitudinali – chi e con che titoli ? - e che si debba per forza organizzare un servizio di soccorso himalayano, col risultato quasi certo di veder raddoppiati i dilettanti allo sbaraglio che si sentono il culo coperto da possibili squadre di soccorso se mai ce ne fosse bisogno.

Comunque sia, Nives e Romano, come sempre, hanno pagato e riscosso in base al loro stile. Il bilancio ufficiale questa volta pare in rosso, e chissà quante critiche arriveranno al loro agire fuori dagli schemi e da certe aspettative. Sono certo che non siano proprio felici di come sono andate le cose, ma se li conosco, credo che comunque risponderebbero ai loro critici con Bertolt Brecht: “Visto che i posti dalla parte della ragione erano tutti occupati, ci siamo seduti dalla parte del torto”. E amen.

Manuel Lugli

>> Italia, Spagna e gli 8000 di Nives Meroi ed Edurne Pasaban - di Ismael Santos



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