Munzur Mountain, 4 vie nuove e altre avventure in Turchia

La storia di 4 vie nuove e di altre avventure vissute da Marco Sterni, Gian Paolo Rosada e Stefano Zaleri sulle Munzur Mountain, Anatolia Orientale, Turchia.
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Tre Lacrime, Munzur Mountain - Anatolia Orientale
G. Rosada
Questa che ci propone Marco Sterni è una storia di alpinismo, ma anche il racconto di quella che si potrebbe chiamare un' “avventura allargata”, e per certi versi inconsapevole. Ci sono delle montagne bellissime e semi sconosciute, quelle della Regione del Munzur, nell'Anatolia Orientale. Ci sono i 3 alpinisti-amici, nonché triestini DOC, Marco Sterni, Gian Paolo Rosada e Stefano Zaleri. E ci sono le 4 vie nuove che hanno aperto su quelle montagne semi deserte e incantate. A cominciare da Do you know “Pekeke?” (1.100m / IV – V, 1 tiro VI+) tracciata sul Munzur Daglari nel 2010. Per proseguire con la Via Del Gran Diedro (352m / VI+ più 200m II e III), L'Innominabile (655m / VI più 120m II e III) e Fuga dal Munzur, tutte aperte sulle fantastiche Tre Lacrime nel loro ultimo viaggio dell'agosto scorso. Ma non è finita. A giocare un ruolo da protagonista c'è dell'altro. C'è quella parte dell'esperienza e della realtà che va oltre la montagna e l'alpinismo, e che la voglia di viaggiare e salire nuove montagne ci fa sempre incontrare. Perché c'è anche chi sta attorno alla montagna e la abita da secoli...


MUNZUR DA CAPIRE di Marco Sterni

Do you know “Pekeke”? Ci guardammo perplessi non riuscendo prontamente a capire la domanda, ma il nostro interlocutore non si fece attendere, e continuò: Do you know Che Guevara? A quel punto scese il silenzio che rese il tutto ancora più angosciante. Non ci rimase che provare a riprendere la conversazione parlando della bellezza delle montagne circostanti, ma durò poco e non fece presa. Quindi iniziò il vero e proprio interrogatorio... La vicenda ebbe un lieto fine, ma ha dell’incredibile che riuscimmo ad archiviare il fattaccio banalmente come una storia da raccontare. Forse perché siamo alpinisti e quindi dimentichiamo molto in fretta fatiche e paure per ricordare solamente gioie e soddisfazioni.

Ma partiamo dall’inizio, di quali montagne stiamo parlando? Turchia. Munzur Mountain. Questo massiccio calcareo dell’Anatolia Orientale con le città di Erzincan a nord ed Elazig a sud, si trova in territorio Kurdo e le tensioni interne non hanno mai permesso l’afflusso di turisti, men che meno di turisti della montagna. Questo ha fatto sì che le molte pareti di roccia, a volte di calcare veramente splendido, sono rimaste vergini. Il territorio è vasto e non c’è strada, nemmeno carrareccia, che lo attraversi da nord a sud. Risulta quindi essere un’ottima via per i guerriglieri del PKK per spostamenti inosservabili e, vista anche la quantità di grotte e caverne, un ottimo nascondiglio per armi e quant’altro.

Fino a qualche anno fa le forze armate turche vietavano l’accesso all’intera zona. Ora invece, pur essendoci dei posti di controllo, si ha il libero accesso senza necessità di permessi. Ma se venisse fatta anche solamente una telefonata per informare gli stessi della propria presenza, essi risponderebbero sempre la stessa cosa “it’s not safe”. Tradotto “a vostro rischio e pericolo”.

Mentre scrivo, mi viene in mente il questionario sulla libertà nell’alpinismo recentemente formulato da Alessandro Gogna dove, giustamente secondo me, al primo punto c’è l’accettazione della componente di rischio come una delle caratteristiche essenziali dell’alpinismo. Mi viene in mente perché se dovessimo mettere a confronto il rischio alpinismo e il “rischio guerriglia” sulla base della nostra esperienza nel Munzur, il primo risulterebbe semplicemente ridicolo mentre il secondo incalcolabile.

Nel 2009, quando arrivammo per la prima volta su queste montagne tutto ci apparve apparentemente calmo e tranquillo, nulla di strano successe che ci potesse far pensare ad incontri pericolosi nella zona. Al nostro rientro, sulla strada Kemaliye-Erzincan, ci apparve in lontananza una grande parete sulle propaggini del Ylan Dagi. Uno sguardo in controluce con il binocolo, una foto scadente, ma già questo bastò per far scattare l’immaginazione e il sogno della parete del secolo. Poteva anche trattarsi di sfasciumi tenuti insieme dalla vegetazione, ma nella nostra testa avevamo già creato una parete fantastica. Ci fu subito chiaro l’obiettivo del 2010.

L’anno dopo quindi, a fine agosto, ci lanciammo alla ricerca di una strada che ci portasse il più vicino all’Ylan Dagi. Nel richiedere informazioni, notammo subito una certa diffidenza da parte degli abitanti dei piccoli paesi che attraversammo per avvicinarci. Poi, addentrandoci, trovammo la strada sterrata, i sentieri ben marcati, le tracce di passaggio di animali, ma ci apparve subito strano che non ci fosse anima viva. Ovviamente non ci soffermammo a pensare più di tanto, eravamo super presi dalla nuova via che poi avremmo chiamato “Do you know Pekeke?”.

Passato qualche giorno, iniziammo ad esplorare le altre valli laterali e purtroppo al rientro, da quella che poteva essere il nuovo sogno, venimmo fermati per prendere un thè al quale avremmo rinunciato molto volentieri…. Do you know “Pekeke”? In realtà oltre al thè, Gian e Stefano, ebbero l’onore di assaggiare anche qualche spicchio di aglio selvatico estratto dalla tasca anteriore di uno dei guerriglieri. Vi lasciamo immaginare. Per i rimanenti giorni girovagammo con il Doblò portandoci dietro quell’odore intenso ed indimenticabile che ci faceva ritornare subito viva la paura di nuovi incontri.

Come detto prima, la paura si dissolse presto ma, viste anche le ferme indicazioni dei guerriglieri, sarebbe stato veramente incosciente da parte nostra ripresentarci l’anno successivo negli stessi luoghi. Ma non da Ovacik, da quella parte tutto è diverso e tranquillo, memori anche dell’esperienza del 2009. E così ci trovammo già a progettare il 2011 nell’Arami canyon.

Quindi anche quest’anno, a fine agosto, siamo ripartiti. Appena arrivati a Ovacik, realizziamo subito la fredda accoglienza, ma la attribuiamo all’assenza dei nostri due amici locali che ci avevano guidato nel 2009. Pur con il solito monito del “not safe”, programmiamo il nostro primo obiettivo “Il grande diedro” su di una cima che poi avremmo chiamato “Prima lacrima”.

Ci siamo scordati del rischio orsi. Eh sì, perché gli orsetti del Munzur sono numerosi e cattivi. Quindi nell’avvicinamento, anziché chiacchierare o rimanere in silenzio immersi nei propri pensieri, ci troviamo ad urlare, fischiare e battere forte le mani per farci sentire ed evitare incontri improvvisi e ravvicinati. Dormire sotto la parete è improponibile e allora arrampichiamo fino all’oscurità e bivacchiamo in parete, più scomodo ma “safe”. Nel pomeriggio del giorno successivo ci troviamo in vetta e già nasce l’idea di salire tutte e tre le cime (Le tre lacrime) che svettano sulla destra orografica della valle. I giorni passano e, con un’altra salita “L’innominabile” sulla Seconda Lacrima e tanta birra e Adana kebab, anche le nostre paure e tensioni pian piano svaniscono.

Ci ritroviamo per l’ultimo appuntamento con la Terza Lacrima dove saliamo “Fuga dal Munzur”. Giornata ancora una volta stupenda, l’avvicinamento e soprattutto la discesa li conosciamo bene. Saliamo rapidi con dei tiri di corda favolosi e siamo sulla cima alle quattro del pomeriggio. Mentre scattiamo le solite foto di vetta, avvertiamo una presenza sulla estremità opposta del vallone retrostante più o meno alla nostra quota. Vediamo un uomo armato di fucile (ma lì tutti i pastori sono armati) e una donna col chador che apparentemente raccolgono aglio selvatico. Subito ci ritorna in mente quell’odore indimenticabile...

Fatti gli zaini, iniziamo a scendere tenendo naturalmente il nostro lato. Non passano più di cinque minuti che sentiamo il primo sparo. Continuiamo a scendere rapidi. Arriva il secondo sparo. Facciamo ancora un tratto poi ci giriamo per guardare Gian, che sentiamo leggermente indietro. Brivido, urliamo: Gian muoviti, ci sta correndo dietro! Gian si gira a sua volta e vede l’uomo ad una cinquantina di metri da lui.

Non sono uno scrittore per descrivere adeguatamente cosa ci è passato per la mente in quei momenti, ma è facile immaginarlo. Iniziamo a correre con gli zaini su di un pendio instabile, con dei risalti rocciosi dove una caduta può risultare rovinosa se non addirittura fatale. Per nostra fortuna conosciamo la via di discesa e riusciamo a mantenere la distanza dal nostro inseguitore fino ad un pronunciato risalto. Superato questo tratto, sentiamo l’uomo gridare qualcosa di indecifrabile e da sotto non riusciamo più a vederlo. Questo ci fa ben sperare che abbia deciso di abbandonare l’inseguimento, ma non ci fermiamo, pensiamo che possa aver scelto una traccia più alta e poi arrivare sul fondo del canyon prima di noi e tagliarci la strada. Continuando a correre arriviamo alla macchina in poco più di cinquanta minuti e poi via a Ovacik. Anche questa volta il lieto fine, ma la paura non svanirà così facilmente.

Avremmo voluto partire già la mattina seguente ma tra febbre e mal di gambe decidiamo di rimanere ancora un giorno. Dopo cena, a sorpresa, si presenta al nostro tavolo uno dei nostri vecchi amici. Iniziamo a dialogare e dopo poco ci dice apertamente che le cose sono cambiate, in peggio, dopo le ultime elezioni di giugno. Stupiti, ma a questo punto non troppo, decidiamo di raccontargli le nostre esperienze iniziando da quella dell’anno precedente. Parliamo, parliamo e lui continua a dire “I know, I know”. Ma allora gli unici a non sapere o meglio a non voler capire siamo noi. Meglio tardi che mai. Munzur... addio!

di Marco Sterni

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