Monte Bianco: 'unreality' show. Di Manuel Lugli

Un altro parere, di Manuel Lugli, sul reality di Rai Due: Monte Bianco Sfida Verticale, condotto da Caterina Balivo, affiancata per la parte tecnica dall'alpinista Simone Moro.
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Monte Bianco Sfida Verticale
Monte Bianco Sfida Verticale
Ho atteso qualche giorno e lasciato depositare i sedimenti. Ho letto commenti e interviste. Ho ascoltato opinioni di amici, alpinisti e non. Poi, in differita, mi sono guardato la prima puntata del famigerato "Monte Bianco".

Un po’ come con il film Everest – mutatis mutandis – ho cercato di guardare senza pregiudizio lo show. E di motivi di pregiudizio ce n’erano a bizzeffe. Vediamo un po’: è un reality, genere schiettamente indigeribile, figlio della peggior televisione. Come tale ci troviamo i soliti campioni umani di "celebrità" (un po’ bollite o semi-conosciute, se vogliamo, ma pur sempre celebrità), che rappresentano i personaggi della commedia all’italiana – ma alla Vanzina: la bellona procace, il ganzo col fisico, l’antipatico (in questo caso con poca fatica a interpretare il ruolo), il simpaticone, la svitata, la nevrotica e il campione del cuore (perché un pallonaro in Italia tira sempre...). E infine, ultimi ma non ultimi, la conduttrice improbabile e il Simone "Gennaro Olivieri" Moro.

Ora, pretendere che questa specie di Giochi senza Frontiere del verticale sia in grado di far passare nozioni e "cultura" di montagna al grande pubblico - come sostiene Moro in una sua intervista – è un po’ come sostenere che guardare il Dottor House insegni a fare diagnosi mediche. Qui si tratta di spettacolo quasi circense, di gioco, di show un po’ voyeuristico – come tutti i reality – nel quale lo spettatore per lo più spia, come dal buco della serratura, i momenti difficili, felici, privati, i litigi – quanto reali non si sa – delle "celebrità". Che sia il bagno chiappe al vento della diva o i pianti disperati della cantante. Ma non sempre quel che vedi dal buco della serratura è piacevole. Non c’è nemmeno il connotato sportivo della gara vera e propria, che sarebbe comunque più nobile: ci sono valori così palesemente squilibrati tra i "concorrenti" che il concetto di gara non è neppure applicabile. E sicuramente nemmeno voluto. Faccio anche fatica, dirò la verità, a leggere il messaggio che si vorrebbe far passare – semper Moro dixit – secondo cui la montagna non è luogo da tenzone tra dilettanti allo sbaraglio.

Come altri di cui ho letto i commenti, non ritengo che la montagna in sè sia un sacrario inviolabile, un tempio da non profanare. La montagna ha valori altamente simbolici e nobili e ognuno trova in essa la propria dimensione, ma per la maggior parte di noi è e rimane anche un grande terreno di gioco, rischioso e sublime, se vogliamo, ma un terreno di gioco. Richiede rispetto e cura, ma può – anzi deve - essere "aperta" e vissuta con gioia. Non amo particolarmente gli esclusivisti della montagna. Però ritengo anche che possa essere intelligentemente o stupidamente "giocosa", a seconda di come la si interpreta, e con Monte Bianco ci troviamo senz’altro nel secondo ambito.
Qui passa l’idea che per far capire alla gente comune un concetto, o comunicare delle emozioni, li si debba per forza banalizzare e ridurre a giochino sciocchino.

Ed è proprio la rinuncia in generale della televisione (soprattutto quella pubblica) a dare un prodotto più "culturale" e vero che irrita di più, non la guida che si presta al gioco o la celebrity che sbrocca, connaturati al format. Negli anni passati ci sono state trasmissioni atipiche che si sono guadagnate grande seguito in televisione, come "Jonathan Dimensione Avventura" di Ambrogio Fogar che pure con qualche eccesso del conduttore, riusciva a trasmettere il senso dell’avventura. O come le Alpi di Messner, con le sue monografie sulle grandi montagne alpine.

Roba vecchia, si dirà, che mai potrebbe raggiungere il milione e seicentomila spettatori fatti da "Monte Bianco" e meno che mai andare in prima serata – come fa notare sempre Moro. Vero, ma se la televisione continua, come fa ormai da anni, ad abbassare il livello culturale delle proposte, la gente purtroppo si adegua, non pretende di più. E non credo proprio che possa essere uno spettacolino come "Monte Bianco" a risollevare le magnifiche sorti e progressive della montagna in tivvù.

Negli anni settanta e inizi-ottanta in televisione si vedeva il teatro: di Eduardo, di Goldoni, di Govi, di Gaber, dei grandi registi, Ronconi, Scaparro, Squarzina. Perfino gli sceneggiati erano più colti, adattati dai romanzi di Chiara, Durbridge o Stevenson, recitati da grandissimi attori come Foà, Fantoni, Albertazzi o De Carmine. Poi venne il trentennio televisivo berlusconiano. Ma qui il discorso si amplia, richiederebbe anni di discussione e va ben oltre le mie limitate competenze.

In definitiva "Monte Bianco" fa il suo sporco lavoro di unreality show, mescolando in un bignamino di montagna - comprensivo di buffe didascalie esplicative - tutti gli ingredienti del genere. Poco m’interessa che gli scazzi, le lacrime, gli abbracci, i consigli del guru, i mussoliniani "Alpinisti!" della Balivo siano veri o finti. Poco m’interessa che le guide ci facciano più o meno bella figura e che i più integralisti stiano a spulciare tutti gli errori o le magagne. "Monte Bianco" è un lungo, semplice, banale, generico show, nè più, nè meno. E, salvo sterzate delle prossime puntate, anche parecchio noioso.

di Manuel Lugli


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