M come Mostro, D13+ in DTS per Matteo Rivadossi alla Maddalena

Il racconto di Matteo Rivadossi che il 9 gennaio 2021 è tornato su M come Mostro, la sua mitica via di total dry tooling alla Maddalena (BS). 13 anni dopo averla aperta e liberata, Rivadossi ha ora compiuto la seconda salita nello stile più pulito, cioè DTS (Dry Tooling Style) senza Yaniro, dopo quella effettuata da Lele Bagnoli nel 2018.
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Matteo Rivadossi su M come Mostro all Maddalena
C. Tonini

Complici le restrizioni del lockdown ed un principio di nausea per il Bus del Quai, sotto le odiate feste avevo proprio bisogno di aria, di motivazione. E tornare sulla mia M come Mostro dopo tanti anni è stato come sfogliare un vecchio diario dalle prime pagine. Tutte dedicate alle emozioni per quel gioco nuovo di nuovi attrezzi, tecnica e gestualità.

Indietro fino a quel tiepido dicembre 2006 in cui io e lo zio Alberto “Bibo” Damioli, trapano Makita a benzina in cintura, attaccammo l’Antro di Polifemo sulla montagna di casa affamati di vuoto, come pirati di soffitti in pieno delirio di onnipotenza. Semplicemente perché le linee naturali di ghiaccio e roccia non bastavano certo ad allenarsi per le gimkane dei pannelli, dei tronchi e dei cubi di ghiaccio della prima folgorante tappa mondiale di Daone e delle successive gare del campionato italiano.

Nacque così il nostro primo esperimento di Total Dry, per metà "bricolage" forando la roccia umida laddove non offriva agganci. Perfettamente al centro di quell’enorme squarcio a sbalzo sulla bianca falesia della Maddalena, in uno spazio rovescio senza remore etiche trovandosi tra linee da libera con prese scavate ed addirittura in resina avvitate.

Appesi a testa in giù come pipistrelli, unica chance per vincere la gravità era il taumaturgico sperone, universalmente usato nel dry per addomesticare il mondo al contrario dei soffitti. Fix, longe, picca, buco, staffa su picca: il Mostro richiese tre giornate con la schiena spezzata e gli occhi pieni di polvere ripagate da un vista mozzafiato sulla pianura 600 metri più in basso. Venti metri in gran parte orizzontali: e chi li avrebbe mai liberati?

Tra una gara e l’altra, ci vollero vari giri spostando ogni volta il mio limite per venire a capo di quella creatura: l’agognata liberà arrivò a fine febbraio 2007, senza però immaginare che grado potesse avere la cosa più difficile che avevo mai provato. Illuminante a quel punto fu una visita alla grotta di Dryland sopra Innsbruck per provare l’M13 di Game Over, solo l’anno prima la via più difficile d’Europa.

Accompagnato da Bibo ricordo un timore reverenziale più che delle difficoltà impossibili; in diagonale cercando i buchi nel conglomerato, mi ritrovai nel mezzo del soffitto. Movimenti lunghi con un passaggio negativo poi ruotando a guadagnare il bordo esterno. Una via corta esplosiva a me congeniale, tant’è che al terzo giro con un resting arrivai addirittura a 3 metri dalla catena e solo per mancanza di ghiaccio!

Torniamo dall’Austria entusiasti perché se quello era M13, il Mostro non era da meno, anzi! E a questo punto poteva addirittura essere la via più difficile d’Italia spodestando l’M12 di Tsunami in Valsavaranche! Che per inciso chiusi l’anno successivo al terzo giro e senza vederla.

Ma per noi umani non ci fu tempo per gongolarsi: lo sperone cominciava ormai a stridere con il concetto di libera a cui si ispiravano gli atleti più forti che dal 2006 avevano iniziato a chiudere le prime vie più difficili "spurless" (o "bareback"), cioè senza speroni sui ramponi. Almeno 3 anni prima che fosse bandito dalle gare.

E come potevo rinunciarvi io che ne ero solo un abile speronatore? Ricordo lo sconforto iniziale, poi chiacchierando con l’insuperabile Mauro Bubu Bole, tra i più grandi atleti ed innovatori del dry a livello mondiale, fu lui a rassicurarmi che da quel momento avrei semplicemente imparato a scalare davvero.

Passai qualche anno a provare le vecchie vie senza sperone, sfruttando nel vuoto gli incroci gamba-braccio dello Yaniro e del Tergicristallo (rispettivamente Figure 4 e 9) per poi rinunciarvi di colpo, folgorato dal restrittivo manifesto francese del Dry Tooling Style.

Capitanato dall’amico Jeff Merçier e compagni, il DTS infatti si sforza di elevare idealmente il dry all’arrampicata libera: al bando quindi Yaniro e varianti che di fatto, fuori dalle gare, banalizzano la scalata, sia tecnicamente che fisicamente. Da subito quello stile mi è sembrato naturale e rivoluzionario al tempo stesso, almeno quanto la libera sistematica delle vie artificiali di metà anni ’70.

E se i vecchi gradi per me si allontanavano ancora, nel frattempo crescevo. Come con soddisfazione cresceva in numero e dedizione il gruppo di ragazzi del Quai che avrebbero raccolto il mio testimone, consapevoli che un maggiore sforzo fisico è ripagato da una scalata più naturale, elegante e remunerativa. Certamente più esigente, soprattutto sui soffitti dove si è obbligati a sfruttare ogni benché minimo appoggio, a meno di dispendiose sospensioni da ginnasti. E non essere un ginnasta e nemmeno un climber da 8c, non a caso, su Low G Man al Quai, primo D14 italiano, tre anni fa mi costò una spalla

Ora a cinquant’anni suonati, esorcizzando lombalgie, borsiti e tendiniti, mi ritrovo ancora in Maddalena dov’ero partito. A giocare con le mie piccozze, sui miei gradi, sui miei progetti. Sul bordo della grotta oggi pendono addirittura delle candele di ghiaccio ma almeno non c’è la bufera dell’altro giorno. Sono partito con due rinvii fissi da cambiare e la chiave da 17, non pensavo al giro buono. Ma gli incitamenti di Simone e Carlo mi tengono su.

Respiro tra movimenti e prese a memoria fino all’allungone: sì, preso! Guardando la pianura a testa in giù ancora il respiro profondo di una sghisata prima di quell’ultimo rovescio infinito. E per la prima volta assaporo di poter chiudere questo viaggio. Liberatorio farlo con le stesse regole usate sulle vie più dure del mondo, liberate e gradate in questo stile da Tom Ballard, Dariusz Sokołowski e Filip Babicz.

Chiunque potrebbe usare uno stile diverso ma dovrebbe dichiararlo con onestà, visto che per una via a soffitto, chiusa con e senza Yaniro, corre un buon grado e mezzo. Inutile raccontarsela.

Penso a quanto è stata dura per me rinunciare allo sperone salvifico e, qualche anno dopo, anche al meccanico Yaniro: è stato quasi come imparare altre due volte da zero. Ma oggi arrivare alle ultime pagine del diario a clippare ancora quella catena è stato scalare quel Mostro per la prima volta.

di Matteo Rivadossi

Matteo ringrazia: Camp - Cassin, Montura, Kayland, Elbec




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