L'alpinismo esplorativo è fallito?

Partendo dalle recenti dichiarazioni di Reinhold Messner, Manuel Lugli commenta la presunta fine dell'alpinismo tradizionale ed esplorativo.
Parola di Reinhold Messner: il suo alpinismo è fallito. Non si tratta del suo personale fallimento come alpinista, che ovviamente non esiste. Non c'entra il bellissimo e terribile articolo “I falliti” di Gian Piero Motti del 1972. Si tratta, invece, del fallimento di un certo tipo di alpinismo, quello più esplorativo e di ricerca. Concetto forte che, come spesso accade per Messner, non lascia grande spazio a interpretazioni o giri di parole. Il suo alpinismo, quello di Bonatti, di Maestri e dei tanti alpinisti-esploratori degli anni '50, '60 e '70, secondo lui è proprio fallito. Cioè non è riuscito a proporre alle generazioni successive di alpinisti un modello cui ispirarsi, un sentiero da seguire per trovare stimoli e nuove vie, nel senso lato e letterale del termine.

Colpa dei tempi che cambiano e apportano grandi progressi tecnici, ma al tempo stesso allargano le possibilità anche a livelli tecnici più bassi. Colpa anche e soprattutto di un conseguente, progressivo affollarsi delle montagne, anche le più lontane, un affollamento che ha portato ad una banalizzazione delle salite persino dei colossi himalayani - almeno i più “facili” come Everest, Cho Oyu o Shisha Pangma. Salvo scoprire, purtroppo, che anche le montagne in apparenza più abbordabili – di facile in alta quota non c'è proprio una beneamata minchia per dirla alla Montalbano – spesso azzerano ogni idea e statistica, come dimostra la valanga dello Shisha Pangma che si è presa poco tempo fa le povere vite di Zambaldi e Haag.

Colpa, aggiungo, di un mondo che si è fatto da una parte più conosciuto e raggiungibile, ma dall'altra sempre più difficile da viaggiare. Guerre, epidemie, terrorismo, frontiere “mobili”. L'Afghanistan di Chatwin, mito di tanti viaggiatori degli anni 60 e 70, divenuto uno dei paesi più pericolosi del mondo. L'Algeria delle salite meravigliose in Hoggar, sempre più terreno di rapimenti e violenza fondamentalista. La Cina e le sue frontiere tibetane come tapparelle, da abbassare a seconda dell'umore e delle repressioni da silenziare. La Russia a spadroneggiare su paesi sovrani, direttamente o per interposto satrapo, come in Ucraina o Kazakhstan.

Insomma, in un mondo globalizzato ma sempre più problematico, la ricerca alpinistica sembrerebbe essere sempre meno importante. E a leggere le notizie che arrivano sui siti specializzati – riviste praticamente non ne esistono più – potrebbe sembrare che Messner abbia una buona dose di ragione. Notizie di “conquiste” – sì, ancora oggi si usa questo termine, ahimè, per descrivere una salita in montagna - di montagne come il Cho Oyu, uno degli ottomila più scalati in assoluto, teatro di centinaia di salite ogni anno lungo la sua via normale. Conquiste che di impresa non hanno nulla, se non per chi le compie. Per certi versi il concetto di impresa è di per sé relativo: per un alpinista medio che ha una discreta preparazione alpina, ma nessuna esperienza di alta quota, il successo su una montagna come il Cho Oyu, altissima e meteo-dipendente, ma tecnicamente poco impegnativa in condizioni normali, è certamente un'impresa. Soprattutto se compiuto by fair means. Ma un'Impresa Alpinistica vera è altra cosa e la si valuta su dati ben precisi e oggettivi: difficoltà, esposizione, isolamento geografico e umano, condizioni meteorologiche, stile di salita. Se poi parliamo delle spedizioni commerciali, ultra-assistite e preparate, beh, qui è davvero impossibile parlare di imprese.

Eppure ancora nel 2014 queste salite vengono offerte alla stampa – soprattutto non specialistica – come grandi successi. Sponsor, egocentrismo, ingenuità, aspirazioni, furbizia, c'è un po' di tutto dietro. Certo le grandi aziende tecniche come sponsor ormai non ci cascano più, ma il piccolo cabotaggio sopravvive e un'Everest anche con ossigeno, sherpa e corde fisse base-cima rimane un prodottino sempre vendibile, da discount magari, ma vendibile.

Però. Però nonostante tutto questo, non sono convinto del giudizio lapidario di Messner. Perché i sognatori, gli esploratori, seppure persi nel mainstream di finte imprese e modesti alpinisti, esistono ancora eccome. Qualche nome?

Prendete i fortissimi britannici Mick Fowler (58 anni...) e Paul Ramsden impegnati in queste settimane nel tentativo alla nord del Hagshu, 6.515 metri, la cima più alta della regione dell'East Kishtwar, nell'Himalaya indiano. La sua parete nord viene considerata una delle più difficili di tutta la regione. Mick Fowler e Paul Ramsden avevano già effettuato con successo lo scorso anno la prima salita del Kishtwar Kailash, 6.451 metri, una vetta inviolata situata nella stessa regione.

Oppure leggete dei coreani Chi-young Ahn e Nak-jong Seong che a fine luglio hanno realizzato la prima salita del Gasherbrum V, 7147 metri, la terza cima più alta del circo dei Gasherbrum, in Pakistan. Luogo magico in cui altri sognatori – Cassin, Bonatti, Mauri, Maraini, De Francesch, Gobbi, Oberto e Zeni - nel 1958 inventarono la grande salita del Gasherbrum IV.

Oppure ancora l'impresa epica – questa sì! – sulla Mazeno Ridge del Nanga Parbat degli inglesi Rick Allen e Sandy Allan. Diciotto giorni diciotto sui 10 km della Cresta Mazeno, in stile alpino, superando otto cime oltre i 7000 metri con difficoltà elevatissime. Sicuramente una delle più grandi realizzazioni alpinistiche di tutti i tempi. Ancora, prendete Ueli Steck e la sua solitaria sulla parete sud dell'Annapurna: un capolavoro di forza, tecnica e determinazione.

Questi sono solo alcuni degli esempi più eclatanti, anche se quasi sempre arrivano solo agli e dagli addetti ai lavori. Certo dal punto di vista della comunicazione non è facile “bucare” con cime “minori”, difficoltà tecniche a volte nemmeno comprensibili al grande pubblico, luoghi lontanissimi dai nomi incomprensibili e geografie da hic sunt leones. Ma le imprese in questo caso sono reali: idea, ricerca ed esplorazione. Qui le parole realizzano il loro significato.

Quindi, tornando al “dopo di me il diluvio” di Reinhold Messner, credo che in realtà ci sia davvero un movimento che in qualche modo ne segue le tracce. Ovviamente non sono più i tempi patriottici della rinascita post-bellica con le spedizioni celebrative o quelli visionari e ribelli degli anni settanta. I tempi i modi e le tecniche sono cambiate, il modo di comunicare pure, ma lo spirito è identico. Che poi altro non è che la voglia insopprimibile di allargare la vista oltre l'orizzonte, di non accontentarsi, di lavorare sulle proprie idee e non su quella altrui. Di percorrere nuovi cammini. Uno spirito squisitamente umano ed inestinguibile nel tempo.

Manuel Lugli



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