L' Everest, la folla e la corsa nel nulla

La corsa verso la montagna più alta della terra: tante le salite, lunghissime le file e, come ogni anno, troppi i morti. Di Vinicio Stefanello.
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La piramide dell'Everest dal versante Sud.
Simone Moro

Tra il 25 e il 26 maggio 150 persone hanno raggiunto la cima dell'Everest. Solo qualche giorno prima in 4 erano morti per sfinimento sotto quella stessa vetta, dopo che un'improvvisa bufera s'era abbattuta sulla montagna. Ma nulla ha fermato la lenta marcia di quella moltitudine verso il punto più alto della terra. Così, puntualmente come fosse una cambiale in scadenza, anche quest'anno si riparla del "fenomeno" dell'Everest affollato. Sempre troppo affollato. Anzi - come una sorta di Rimini ferragostana dell'alta quota - letteralmente straripante di alpinisti, non alpinisti, recordman da guinness, compratori di vette e businessman di vette, sprovveduti e professionisti della montagna, campioni dell'alpinismo, turisti, sherpa… Un "circo del chi più ne ha più ne metta.", che da anni, immancabilmente ad ogni stagione, dà vita a storie già sentite e lette.

Storie di carovane che marciano verso la vetta, incuranti dei pericoli che questo affollamento può provocare. Storie assurde e insieme dolorose. A volte anche ignobili. Con quel loro carico di morti per sfinimento. Di uomini abbandonati al loro destino. Di bombole di ossigeno usate come impossibile rimedio all'impreparazione di moltissimi. Di tragedie annunciate. Di stupidità. Di bugie. Di salvataggi in extremis e di atti di solidarietà, così isolati ancorché quasi scontati nella vita comune, da sembrare assolutamente eroici. E poi di sherpa usati come camerieri d'alta quota. Uomini, sempre gli sherpa, che rischiano la vita, e la perdono, per preparare la strada ai sahib-alpinisti-consumatori del terzo millennio, per servirli e per salvarli anche. Le loro, e non da ora, sono vere e proprie storie di sfruttamento, di "morti bianche" dell'altissima quota.

Insomma, anche quest'anno le cronache ci hanno restituito il solito Everest trasformato in un'incredibile e pericolosa Gardaland, per usare le parole di Simone Moro. Ma anche quell'Everest che non è più montagna per alpinisti, come l'ha descritto qualche anno fa Romano Benet. Eppure se questo è un brutto copione già scritto e letto, perché continua a ripetersi, anzi a diventare sempre più pesante e "normale"? Le risposte sono e possono essere molte. In parte, come un campanello d'allarme, erano già contenute in Aria sottile - il bestseller di Krakauer che aveva portata alla ribalta del grande pubblico la terribile epopea che si stava consumando sul tetto del mondo. Era il lontano 1996, e da allora, dopo quelle 8 morti sull'Everest, molte cose si sono dette. E molti strali si sono lanciati contro i pericoli di quella che molti definiscono la mercificazione della montagna. Tutto, infatti, sembrava ricondursi al fenomeno delle "spedizioni commerciali", alla vendita della vetta con pacchetti all inclusive rivolti a tutti, a prescindere dal loro grado di preparazione. In realtà, anche se sicuramente questa era ed è una parte del problema, c'è il sospetto che non lo spieghi del tutto.

Non spiega come mai l'escalation continua, pur esistendo ormai molte agenzie che sul campo hanno dimostrato più volte la loro alta professionalità e preparazione. Come, per citare l'ultimo caso, quella di Russel Bruce che, proprio quest'anno, ha interrotto la sua spedizione per i pericoli oggettivi, compreso l'affollamento, che presentava la salita. Ecco appunto, ora rimbalza d'oltre oceano l'eventualità che molti suoi clienti possano chiedere di essere rimborsati… Come dire: forse una parte del problema è nella domanda. Nella "cultura" alpinistica, ma anche nella cultura tout court, di chi aspira a salire sul tetto del mondo. Perché in così tanti credono che basti pagare un sacco di dollari per assicurarsi la cima dell'Everest? La sola pubblicità commerciale delle Agenzie specializzate non sembra sufficiente a spiegare il fenomeno. Né pare sufficiente ricondurre tutto all'attrazione esercitata dalla vetta più alta della terra.

Più il tempo passa. Più il fenomeno persiste e si amplia. Più il senso di tutto questo sembra sfuggire a delle facili spiegazioni. E non sembra utile, anzi sembra controproducente, quello che da anni il mondo dell'alpinismo va a ripetere. Con Reinhold Messner, per esempio, che continua a parlare di "piste" riferendosi in particolare alle vie normali dell'Everest e in generale agli 8000. Lo sminuire le difficoltà - anche se Messner lo fa in riferimento a quello che viene chiamato l'alpinismo di punta o dei più forti - non sembra aumentare la consapevolezza delle grandi difficoltà e dei rischi che la salita all'Everest comunque comporta, anche se si è aiutati e serviti dagli sherpa e anche se si fa uso abbondante delle bombole di ossigeno. Anzi in qualche modo sembra lavorare al contrario.

Invece occorrerebbe ribadire con chiarezza che salire quella montagna, affrontare quelle quote, non è mai stato e non sarà mai per tutti. E che quel sogno, il bellissimo sogno di raggiungere la cima più alta, non può essere comprato. Perché, come tutti i sogni, va conquistato. Con fatica, preparazione, dedizione, sacrificio, sapendo che potrebbe rimanere anche irraggiungibile. Serve essere in grado di fare un passo indietro. Saper rinunciare. Comprendere che il valore del tutto sta soprattutto nel percorso e nell'esperienza. E che non possiamo svilire ogni cosa (ogni valore, ogni etica se volete) per un'effimera quanto inconsistente gloria o vantaggio personale.

Ma a questo punto forse non c'entra più l'Everest. Forse c'entrano questi difficili tempi che stiamo vivendo e perché li stiamo vivendo. C'entra la consapevolezza che l'uomo non può ottenere tutto. Che il suo unico valore non può essere il denaro e quello che con esso ha l'illusione di poter comperare. Come non si può pensare che la natura e la terra possano continuare ad essere saccheggiate in virtù del dio del mercati e del Pil. Appunto, quella stessa natura che il fato ha voluto benevola in questi ultimi giorni all'Everest, mentre si snodava l'interminabile serpentone di uomini verso la cima. Bastava una di quelle bufere, spesso non previste, perché tutto si trasformasse ancora una volta in tragedia. Per fortuna non è successo e ne siamo assolutamente felici e anche sollevati. Resta però l'amarezza per quella fila immensa. Per quei 4 morti che saranno presto dimenticati. E fa male pensare che la corsa pazza continuerà, implacabile. Verso il nulla…

di Vinicio Stefanello




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