L'idea che ci avvicina

L'alpinismo, la montagna e la libertà, una riflessione di Mattia Salvi.
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Vista da Punta Dufour
Alessandro Albicini

La testa si piega per lo sforzo, lo sguardo rinuncia a creste e panorami fissandosi a terra. Cerca le peste nella neve che il mio compagno, salendo, lascia generosamente dietro di sé. In queste condizioni spesso comincio a contare i passi, cento a cento, per ingannare la fatica e intanto penso. Penso alla vetta, agli orari, alle difficoltà che ancora mi aspettano. Penso cosa ci son venuto a fare, penso cosa ci trovo in questo posto fatto di fatica e levatacce, un terreno che muove, sgretola, dilaga. Che senso ha "andare in montagna", consumare tempo ed energie per inseguire vette immobili. Le risposte sono di volta in volta diverse, spesso incongruenti, ogni tanto strampalate: dall'assurdo al testosteronico, dall'utopia alla curiosità, tirando in ballo il piacere della condivisione, della collaborazione e dell’impegno fisico.

Durante uno di questi ragionamenti allucinati da quota e fatica m’era parso, qualcosa, d’averlo capito: il senso di tutto questo è l’esercizio di una libertà consapevole. Ora vorrei provare a spiegarmelo. Spazi non addomesticati, terreno d’avventura, la libertà di cambiare meta, scegliere un itinerario diverso, girovagare guardandosi attorno fino ad un colle o un gias, sono spesso decisioni che non prendiamo da soli con il nostro libero arbitrio. Sono scelte che facciamo di comune accordo con la nostra forma fisica, l’evolvere del meteo, le condizioni della montagna, i nostri compagni di gita e svariati altri fattori di cui siamo più o meno consci. Tutti elementi che lungi dal limitare la nostra libertà ci aiutano semplicemente a plasmarla, a renderla efficace.

Mi piace illudermi non sia un caso né una semplice contingenza altimetrica che prendere parte alla lotta di liberazione, avendo ben chiaro quale fosse la posta in gioco e quali i rischi cui si andava incontro sia sintetizzato dalla frase “andare in montagna”. Che la si stia cercando tra rupe e rupe o che si cerchi di raggiungerla ingaggiandosi con una salita la libertà in montagna è una forma di disciplina, non è mai quella di into the wild, della fuga da tutto, del “me ne frego”, non è quella che ci mostrano nelle pubblicità delle automobili, la libertà non è stare sopra un albero. Non è quella di chi si dichiara indipendente e se ne va ma di chi resta, ragiona e combatte avendo chiaro obiettivi e metodi.

Libertà consapevole, dicevo. È una libertà che deriva solo da una precisa e chiara presa di responsabilità, da uno studio approfondito del “problema”, una libertà che va conquistata con preparazione, studio, allenamento, coscienza e coraggio. È infatti la coscienza di quello che sto facendo, delle conseguenze, delle motivazioni, delle tecniche e dei materiali a darmi la libertà, il diritto di farlo, sia esso un’escursione, un’azione o una prima ascensione.

Penso che sia importante tornare a valle avendo allenato questo tipo di libertà. Penso che tornare nella società con cuore, testa, muscoli e polmoni abituati ad adoperare questa libertà sia uno dei pochi modi per dare un po’ di senso alle nostre “conquiste dell’inutile”. Utilizzare nel ragionamento collettivo questi strumenti affilati in montagna è la ricaduta più interessante che può avere il nostro agire, lo scopo nel quale dobbiamo infondere più impegno di quanto ne mettiamo in una salita.

Mattia Salvi




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