Claude Barbier, l'arrampicata, le Dolomiti e quelli del Pordoi

Quel Drago che vive sulle montagne. Ivo Ferrari e Alberto Sciamplicotti ricordano Claude Barbier, grande alpinista solitario belga, che tra gli anni '60 e '70, insieme a tutti Quelli del Pordoi, rivoluzionò e cambiò per sempre l'arrampicata nelle Dolomiti.
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La targa dedicata all'alpinista belga Claude Barbier
Ivo Ferrari

"... Mi sposto leggermente a sinistra, sfioro un appiglio dolcemente, il senso che non esiste mi dice di non tirarlo troppo, scricchiola, balla ma rimane al suo posto, attimi intensi e di pura gioia, incomprensibili per chi non può viverli, semplicemente perché ad ognuno il proprio buonsenso … sono tornato a scalare da solo, cancellando promesse irrealizzabili, mi piace e va bene così…"

Ho ripreso a leggere la storia delle Dolomiti, dei protagonisti che ben conosco, la storia di Barbier, Cozzolino, Massarotto… Un libro che parla di anni particolari è quello scritto da Alberto Sciamplicotti. Ve lo consiglio.
Ivo Ferrari

Quel Drago che vive sulle montagne. Di Alberto Sciamplicotti
Ci sono attimi della vita che sembrano essere uno spartiacque fra quello che era prima e ciò che sarà. A volte non sono nemmeno attimi ma cristalli di tempo che si estendono anche per più stagioni, situazioni che riescono a tessere una rete di emozioni che solo quando saranno state vissute aiuteranno a comprendere la trama del disegno e quel che ne scaturirà.

Nel 2003 e del 2004 vissi l’annuale fuga estiva dal lavoro fra le montagne delle Dolomiti, al Rifugio Antermoia, a Campitello, a Canazei, all’Hotel Col di Lana al Pordoi, in qualche affittacamere della valle, alternando escursioni e facili vie di arrampicata al cercare di raccogliere testimonianze e ricordi di quanti avevano vissuto in zona gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Inseguivo l’idea di provare a realizzare un racconto che raccogliesse le emozioni di quanti avevano speso giorni e vite sulle pareti Dolomiti in un momento che era stato di passaggio fra il vecchio alpinismo e la moderna arrampicata. Quel tentativo poi si concretizzò nel volume “Quelli del Pordoi” edito dalla casa editrice Versante Sud nella primavera del 2005.

In quei giorni di oltre dieci anni fa era, però, tutto in alto mare e il raggiungimento dell’obiettivo sembrava impossibile. Troppi i personaggi che avrebbero dovuto comporre la storia, troppe le vicende da provare a concatenare e incastrare senza fare errori, senza confondere date, nomi, pareti e montagne. Era un intero universo che mi si dipanava davanti, senza alcun punto certo da cui partire per iniziare la descrizione. Era come trovarsi d’estate a scrutare un cielo notturno e terso e provare a narrare la posizione di ciascuna stella e contemporaneamente il loro insieme a qualcuno che non era impossibilitato ad ammirare quella visione. Poco alla volta però riuscii a trovare il bandolo della matassa e da tutte le ore di interviste registrate spuntò finalmente la traccia da seguire. Era un filo che iniziava da un vecchio albergo posto su un valico, un filo che legava poi due giovani sposi cui era stato dato in gestione la struttura e che proseguiva annodando le emozioni dei loro amici e conoscenti, per gran parte tutti alpinisti e che erano di frequente stati ospitati in quel vecchio albergo poco per volta ristrutturato. I due sposi erano Mariangela Bruneri, la nipote di Tita Piaz il Diavolo delle Dolomiti, e Almo Giambisi uno dei più promettenti alpinisti di quel momento, poi Guida Alpina e salitore di giganti himalayiani, compresa la perla dell’Annapurna di cui raggiunse la vetta in assoluto stile alpino nell’estate del 1986. L’albergo era invece il Col di Lana al valico del Pordoi e grazie ai due giovani sposi e alla loro disponibilità, verso praticamente chiunque si potesse degnamente appellare del titolo di alpinista, sarebbe stato per molti degli anni seguenti noto come “Il Campo Base delle Dolomiti”: essere invitati a passare al Pordoi era l’equivalente del biglietto di ingresso necessario a varcare quella porta che immetteva nell’elite del mondo dell’alpinistico dolomitico di quegli anni.

La curiosità per questa vicenda mi era stata insinuata da Pierluigi Bini che, fra un racconto e l’altro di quelli che mi sarebbero poi serviti per scrivere “Rotti e Stracciati”, era riuscito a toccare le giuste corde stimolandomni a raccogliere materiale e a narrare quindi questa storia mai fissata su carta prima. Così, in quelle due lunghe estati, registrai su decine di nastri audio i ricordi di Almo e di Mariangela, ma anche di Alberto Dorigatti, Luisa Iovane, Aldo Leviti, Ivo Nemela, Heinz Steinkotter, Loredana Giongo, Giovanni Costa, Anna Lauwaert, Jamie Milan e tanti altri. Era un gioco che sembrava poter andare avanti all’infinito, perché ognuno di loro aggiungeva involontariamente anelli a quella catena formata dai protagonisti di quegli anni e più le emozioni vissute erano state forti, più il ricordo continuava a essere vivido e presente.

Com’è naturale alcuni di questi ricordi svettavano sugli altri. In quelle occasioni sembrava quasi che la descrizione del cielo notturno, dopo le tante splendide stelle e costellazioni, fosse arrivata a delineare Sirio, Canopo o Arturo, le stelle più luminose della sfera celeste. La personalità, la passione che avevano messo nella loro vita, l’emozione che avevano saputo trasmettere, avevano fatto sì che alcuni di loro fossero presenti con la stessa maggiore intensità in tutti quelli di cui avevo registrato i ricordi. Così Heini Holzer, Giancarlo Milan, Claudio Barbier andarono ad occupare in quei minuti di registrazione la gran parte. Non fu una suddivisione equa però, nei ricordi il belga Barbier era quello decisamente più presente. Innamorato dell’Italia al punto da mutarsi il nome da Claude in Claudio, era amico della famiglia Bruneri ancor prima di conoscere Almo Giambisi.

Barbier frequentava il rifugio Vajolet ed era così in confidenza con Pia Piaz, la figlia del Tita, e con Carlo Bruneri suo marito, i gestori del rifugio, da poter avere, unico fra tutti, il diritto di conservare presso di loro una cassa con le sue attrezzature alpinistiche. Era un po’ come uno di famiglia insomma, uno di cui si aspetta il ritorno dopo una lunga assenza, ritorno che avveniva puntualmente ad ogni fine primavera, quando la neve lasciava libere le rocce dal suo peso. Almo, già sposato con Mariangela, lo conobbe al rifugio e subito furono amici nonostante Barbier avesse un carattere spesso difficile e spigoloso. La sua passione era però così forte che aveva il potere di unirlo a quanti la condividevano. Così, trentasei anni dopo, mentre il nastro scorreva sulla testina del registratore portatile non mi fu difficile capire da subito quanto, nonostante il tanto tempo passato, fosse stata luminosa la luce di Barbier. Le sue salite in solitaria, effettuate spesso solo perché non aveva compagni di cordata, le sue vie su roccia, il suo cercare il Drago, lo spirito puro dell’esplorazione e dell’avventura fra le pareti lo hanno reso famoso e forte nel ricordo di quanti lo hanno conosciuto almeno quanto la passione che lo muoveva. E se c’è qualcosa che riesce a unire e legare gli uomini è proprio l’emozione, quel fuoco che brucia dentro in alcuni momenti e situazioni e che riesce fondere le anime unendole indissolubilmente.

Quelle due estati furono assolutamente particolari per me. Segnarono la linea di un confine, da un lato c’era il piacere di andare in montagna, camminando, sciando o arrampicando, dall’altro lato la convinzione che tutto questo non fosse solo uno sport, una attività fisica ma anche, forse soprattutto, l’esigenza sublime di un moto dell’anima.

Buone arrampicate, Alberto e Ivo




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